«L’uomo girò la testa verso di lei (…) Riprese il foglio tra le mani, arricciò il naso, aggrottò la fronte, scrutò la figura, quella brutta faccia dagli occhi cavi che pareva di bronzo, forse di argilla, di chissà cosa. Si dedicò a leggere il testo inglese che stava a fianco: risultava essere un reperto archeologico del British Museum, una maschera in terracotta scavata a Sippar, Mesopotamia, Southern Iraq, presumibilmente eseguita tra il 1600 e il 1800 a.C. Gli era parso a tutta prima un mascherone azteco o maya; cose che non amava, quasi detestava, che gli incutevano fastidio, gli provocavano disagio mentale, forse paura. Invece risultava proveniente da area sumera/babilonese: questo gli rendeva il reperto più domestico, per quanto avesse del terribile…».
E’ così che ha inizio il romanzo di Mario Bianco dedicato al gigante Humbaba che nella frammentaria epopea di Gilgamesh, considerata la più antica al mondo, riprende la figura del mitologico guardiano della Foresta dei Cedri, che nel racconto sumerico è collocata nella Terra dei Viventi.
Creatura ibrida, Humbaba è descritta da George Burckhardt nel suo Gilgamesh del 1952, in questa maniera:
“L’essere aveva unghie di leone, il corpo rivestito di aspre squame di bronzo, ai piedi artigli di avvoltoio, sulla fronte le corna del toro selvaggio, la coda e l’organo della generazione terminano a testa di serpe”.
In principio questa creatura, sfidata da Gilgamesh e da quest’ultimo vinta, aveva un forte potere evocatico-metaforico. Ma con il passare del tempo sembra che le popolazioni sumeriche rivedessero in Humbaba una creatura malefica alla quale dovevano essere offerti in dono oggetti votivi di vario genere al fine di tenerla lontana dalle proprie case.
La leggende narra, inoltre, che chiunque si recasse da solo in un bosco, dovesse guardarsi bene dall’invocare Humbaba che, se da una parte avrebbe potuto correre in aiuto di chi lo nominava, dall’altro avrebbe chiesto in cambio l’anima dello stesso malcapitato.