I pinnacoli di roccia bianca emergevano dalle alture come tanti coltelli spezzati e taglienti. Il vento Arir riempiva del suo soffio gli enormi spazi vuoti fra le cime circostanti mentre gli stendardi colorati avanzavano lentamente lungo il pendio delle colline brulle, oscillando in un’improbabile danza al suono prorompente dei trombettieri. L’effetto sonoro prodotto dai loro strumenti squassava l’aria tutt’attorno ed incitava i soldati a marciare compatti verso la sommità ormai prossima.
Giunti al punto convenuto gli armati si schierarono in una lunga linea che si snodava per centinaia e centinaia di metri. Il sole alto nel cielo, dipinto di un azzurro puro ed indifferente agli eventi sottostanti, si riflesse sulle corazze lucide degli uomini baluginando in una miriade di raggi accecanti. Un cavaliere, racchiuso in un’armatura di piastre ed in groppa ad un cavallo grigio ornato da finimenti metallici, si tolse la celata dal capo con un gesto studiato e, tenendola ferma fra il petto e l’avambraccio, fissò le schiere nemiche ammassate sul fondovalle. Quasi in un gesto di sfida, i suoi occhi chiari e privi di emozioni passarono in rassegna il vasto campo di battaglia che si apriva in lontananza, mentre i capelli biondi gli svolazzavano di lato, scarmigliati dal vento battente.
Si attendeva ormai con impazienza l’ordine dell’attacco che puntualmente giunse pochi istanti dopo. Non appena il suono del corno prese a rimbombare nella valle, migliaia di uomini in armi, quasi all’unisono, si gettarono a perdifiato giù per il declivio, calando verso il basso come una frana rumorosa ed inarrestabile che si trascinasse dietro una vasta porzione della parete scoscesa da cui aveva avuto origine. Ognuno imbracciava la propria arma, sollevava in alto le lunghe lance e i martelli da battaglia o brandiva davanti a sé lo scudo per far fronte all’impatto, se lo possedeva. Tutti lanciavano il loro urlo sguaiato volto ad intimorire gli avversari ed a scacciare le proprie paure interiori.
Analogamente si comportava l’altra schiera che, partita appena in ritardo, si avvicinava in quel momento a grande velocità verso i piedi delle stesse colline, incurante del pericolo e dimostrando notevole coraggio, cercando apertamente lo scontro immediato con il nemico per annullare così il suo slancio. Quando i due gruppi contrapposti alfine giunsero a contatto, si udì un fragore assordante di metallo e di corpi schiacciati gli uni contro gli altri e il repentino levarsi di schiamazzi misti ad innumerevoli esclamazioni di dolore.
Un soldato abbigliato di un tabarro verde e giallo innalzò la spada sopra la testa del proprio oppositore e venne trafitto inopinatamente, un attimo dopo, dalla punta acuminata di un pugnale che gli sfondò il giaco di lato. Un uomo barbuto, con il capo protetto da un elmetto ammaccato, infilzò la punta della propria lancia nella spalla del guerriero che gli si parava davanti, mentre si proteggeva con lo scudo da un colpo poderoso sopraggiungente alla sua sinistra. Due militari dalla capigliatura scura si lanciavano all’inseguimento di un giovane corridore in corazza che, gettate le armi e chiaramente sconvolto, cercava rifugio dietro la protezione dei propri compagni poco lontano. Un corpulento guerriero privo di protezioni sul corpo e ricoperto solo da una lunga veste faceva roteare in alto un martello appuntito già rosso del sangue di qualcuno abbattuto poc’anzi. Qualche metro più in là una scure brunita calava rovinosamente contro la schiena di un contendente impegnato a duellare con un anziano combattente rivestito da una cotta di maglia consunta ed in evidente difficoltà sotto la furia dei suoi colpi. La battaglia proseguì con lo stesso furore per lunghi, interminabili momenti, nella concitata confusione provocata dal susseguirsi degli scontri sanguinosi e dall’affollarsi dei caduti che cominciavano oramai ad ingombrare lo spazio fra gli avversari.
Poi entrò in scena la cavalleria e fu tutta un’altra musica. I possenti cavalli da battaglia giunsero rapidi al galoppo, con in sella i loro imponenti cavalieri, e iniziarono a travolgere e calpestare tutto quanto trovavano sulla loro strada, passando sopra cadaveri smembrati, pezzi di armatura disseminati ingloriosamente qua e là, scudi in frantumi e stendardi distesi per terra ormai senza più padroni. Un drappello di nemici che ancora impugnavano le armi, infierendo contro i propri diretti avversari, fece appena in tempo ad accorgersi del fragore provocato dalla schiera avanzante che sopraggiungeva alle spalle e si voltarono per far fronte alla nuova minaccia. Ma fu l’ultima cosa che videro, poiché le cavalcature lanciate in avanti spazzarono via tutto e tutti nello spazio di un istante.
Il cielo aveva assunto una tonalità sbiadita, preannunciando la sera ormai prossima che sopraggiungeva spedita. L’oscurità iniziava ad incupire le cime delle colline e calava via via fino ai prati rigogliosi più sotto, i quali scolorivano rapidamente al suo passaggio diventando un tutt’uno indistinto. Nell’accampamento militare si aggiravano ancora numerose figure intente alle proprie occupazioni, mentre da dentro le tende si udivano le invocazioni dei feriti e di coloro che, ormai troppo malmessi per essere curati, venivano lasciati semplicemente distesi su un giaciglio di fortuna in attesa che giungesse, inevitabile, la fine.
Idriel attraversava in quel momento i quartieri delle truppe di arcieri, fra lo sferragliare delle protezioni metalliche e dei cosciali che gli cingevano i fianchi e che ancora non aveva avuto il tempo di togliersi. La lunga spada da cavaliere, chiusa nel fodero, oscillava lungo la gamba costringendolo ad un’andatura irregolare e fastidiosa. Oltrepassato un grosso carro privo di una ruota ed adagiato su un fianco, vide la luce dei fuochi da campo che già cominciavano ad ardere poco lontano. Nei mastodontici pentoloni fissati a dei pali incrociati il rancio già cuoceva lentamente, tuttavia attorno non vi era ancora nessuno, eccettuati i cuochi e qualche addetto al vettovagliamento occupato con un ammasso di casse. Fu proprio in quel momento che una voce nota risuonò alle sue spalle – Dove pensi di andare? E’ ancora presto per la cena! – Era Ubert, il suo inseparabile compagno.
Idriel si voltò, cambiando direzione. Aveva proprio voglia di vedere un volto amico. Un ampio sorriso fra la folta barba castana ed una pacca vigorosa sulla spalla furono il saluto di Ubert non appena gli fu accanto, un gesto a cui era abituato. Ricambiò prontamente appoggiando il proprio pugno sul suo spallaccio destro. L’amico sembrava arzillo e piuttosto allegro, i suoi occhi neri e malandrini, nonostante quella appena trascorsa fosse stata una giornata molto dura e faticosa per tutti. Avevano riportato un’importante vittoria sul nemico e tuttavia la battaglia aveva reclamato anche oggi il suo pesantissimo tributo di sangue. Ben mille e cinquecento uomini erano caduti negli scontri ed i feriti risultavano almeno il doppio, molti dei quali in gravissime condizioni. Più della metà di loro li avrebbero sicuramente lasciati quella notte, ponendo per sempre termine alle loro sofferenze.
Ubert era sempre stato un maestro nel risollevare il morale a chiunque e, sicuramente, avrebbe tentato di coinvolgerlo nelle sue mattane anche questa volta, soprattutto questa volta. Lo conosceva da così tanto tempo, strano a dirsi non ricordava neanche da quanto… Il compagno d’armi però gli lanciò uno sguardo prolungato e ciò che vide in lui lo dissuase quasi subito dai suoi propositi scherzosi. Idriel pareva assai stanco, i lineamenti tirati, l’espressione sul viso piuttosto dimessa.
Senza profferire altro, lo prese sottobraccio e lo portò ai margini dei fuochi ove si trovavano dei pietroni lisci e sporgenti dal suolo. I due vi si sedettero sopra e rimasero per qualche istante in silenzio fissando le braci vicine che diffondevano attorno un piacevole tepore avvolgente. Nonostante la spossatezza delle membra e la poca voglia di discorrere, quella sera una miriade di pensieri affollavano la mente di Idriel, aveva bisogno di chiarirsi con qualcuno. Quale migliore occasione di quei pochi attimi di tregua?
- Dimmi – chiese d’un tratto rivolto al vicino compagno – Perché combattiamo? -
- Come sarebbe… – fece Ubert, sorpreso dall’improvvisa voglia di parlare dell’amico. Osservandolo con un’espressione perplessa, rimase brevemente in silenzio – Ogni soldato si fa probabilmente la stessa domanda ogni giorno che scende sul campo di battaglia. Preoccupato com’è soltanto di sopravvivere fino al termine dello scontro, egli non sa scorgere il Disegno Superiore. D’altronde, come potrebbe? Ma noi siamo Cavalieri dell’Ordine Sacro, fedeli al dio Jiun, noi sappiamo fin troppo bene perché lottiamo! – una pausa permise al crepitio del fuoco di propagarsi nell’aria – Sono anni che cerchiamo di ricacciare indietro le schiere fedeli ad Agruel, la divinità traditrice ed infingarda. La barbarie e gli insegnamenti deviati propugnati dai suoi sacerdoti malvagi si sono diffusi rapidamente fra la popolazione e hanno corrotto migliaia di persone, espandendosi come una malattia epidemica. E’ a causa loro che i popoli che vivono oltre l’Ovdral si sono sollevati armandosi contro di noi. Essi hanno finito per invadere il nostro territorio, bruciare villaggi, sterminare famiglie intere. Anche due delle tue figlie sono state uccise nella distruzione della città di Duhuelmel… –
L’uomo si interruppe bruscamente, maledicendo la sua lingua lunga. Distolse lo sguardo per qualche istante temendo la pronta reazione di Idriel, che tuttavia non vi fu – Scusami, ho parlato troppo! Forse anch’io risento della stanchezza della battaglia appena trascorsa… -
- Non importa – lo tranquillizzò l’amico – E’ passato tanto tempo. – la sua mente andò immediatamente alle sue due bambine che sapeva morte, crudelmente ammazzate dalle truppe avversarie che erano riuscite a distruggere le mura difensive del porto di Duhuelmel, la sua città natia, penetrando poi attraverso il perimetro interno fino a giungere a fare scempio dell’intero abitato. Ricordava ancora perfettamente i lineamenti di Gualde, la più grande, e il suo sorriso luminoso che pareva esplodere all’improvviso ogni volta che lo vedeva ritornare a casa dalla famiglia. Quelle poche volte che lo aveva fatto in quegli anni, invero… Di Ulbena invece non riusciva a richiamare alla memoria neppure il colore degli occhi o la forma del viso. Strano. Eppure ricordava vividamente ogni particolare di quel capitano nemico che aveva ucciso in combattimento soltanto una settimana fa, l’ammaccatura profonda presente sul lato dell’elmo e perfino la cicatrice lunga e particolare, a forma di “L” che recava impressa sul volto, quando si era tolto per un istante la visiera per prendere fiato, un attimo prima che la sua lama calasse inesorabile a privarlo della vita. Come era mai possibile? Forse era stato davvero troppo lontano dai suoi congiunti prima che accadessero quei tragici fatti…
- Hai combattuto bene anche oggi, come sempre! – riprese Ubert – Sei stato il nostro trascinatore e ci hai condotto ad una splendida vittoria. Nessuno sa condurre meglio di te in battaglia il nostro reparto di cavalleria! -
- Sì, certo – annuì lui con aria distratta – Ma ho la mente piena di pensieri… -
- Quest’ultimo scontro ha fiaccato un po’ tutti – concesse il compagno – Un buon sonno ristoratore ti rimetterà in forze. Abbiamo bisogno di te!!! Quindi non darti pena dei caduti, probabilmente dovremo scontrarci ancora con i nostri nemici nei prossimi giorni. Pensa invece a quanti si sono salvati per merito tuo! -
- Hai ragione. Forse sono solo nauseato da tanto sangue… – annuì Idriel con un’aria provata – Ti sei mai chiesto da quanto combattiamo, Ubert ? A me sembra siano trascorsi decenni, non so più dire neanche quanti esattamente. E per quanto a lungo dovremo combattere ancora? Forse mi sento solo vecchio… – il suo sguardo andò in cerca di un cenno di conforto da parte dell’amico e prontamente questi gli assestò una pacca corroborante sulla spalla.
- Combatteremo fino a che quei maledetti invasori non saranno stati definitivamente sconfitti e ricacciati nelle loro terre. E speriamo che ciò accada presto! – ribattè il cavaliere con voce decisa. Negli occhi gli brillava una luce di grande fierezza e risolutezza – Ora vai a dormire, ne hai proprio bisogno… -
Le due lune punteggiavano con il loro disco perfetto la fioca luminosità delle prime ore mattutine. Fra poco sarebbero scomparse, annullate dalla luce solare preponderante che procedeva appena oltre la linea delle montagne. La pianura era ricoperta da larghi mucchi di corpi collocati l’uno sull’altro, mentre le fiamme stavano finendo di consumare il legno degli ultimi carri rovesciatisi con tutto il carico di vivande poco lontano. Il sangue ricopriva grosse porzioni di suolo.
- E’ stata una battaglia impegnativa – disse Ubert trascinando per terra la sua lancia che si era spezzata sulla punta.
- Hanno combattuto come dei dannati! – disse Idriel, massaggiandosi il braccio destro liberato dall’armatura – Non li avevo mai incontrati così determinati prima… -
L’altro cavaliere lo squadrò per un attimo, poi scoppiò in una grassa risata -Forse sentono il nostro fiato sul collo, e sarebbe ora, maledizione! Li abbiamo battuti per bene anche oggi… -
- Senti, Ubert – lo interruppe l’amico – C’è un’altra cosa che mi passa per la testa ultimamente… –
- Non mi dire che hai ancora intenzione di ripropormi quegli strani discorsi di qualche sera fa, vero? -
- Ascoltami… guarda questo campo, questa valle… Non ti sembrano simili a quelli ove abbiamo combattuto ieri, e ier l’altro? Come innumerevoli altri prima. Anche le montagne paiono uguali… – vi fu un attimo di silenzio.
- Non saprei, la regione dell’Ovdral sembra sempre la stessa… -
Idriel non si arrese – Non è questo che intendo. E’ un po’ che ci rifletto. Noi sappiamo perché combattiamo, e abbiamo mille ragioni per farlo, lo so… – fissò l’amico per un istante – Ti sei mai chiesto perché loro combattono invece? -
- Cosa ti prende? – il tono di Ubert era preoccupato – Non avrai per caso ricevuto un brutto colpo alla testa durante i combattimenti? Dovresti farti vedere dal cerusico… Mi sembri un po’ confuso, forse stai covando una malattia. Comincia a fare decisamente freddo in queste sere autunnali e le piogge si fanno sempre più frequenti. L’inverno si avvicina purtroppo… -
- Questo lo so. Rispondi alla mia domanda, piuttosto. -
Ubert lo osservò intensamente per qualche secondo, quindi disse – Senti, io non so perché questi dannati ci combattano. Non sono dentro le loro maledette menti deviate, e sinceramente mi auguro di non sperimentare mai la pazzia che li anima. Non ho idea del perché abbiano cominciato questa guerra ben quindici… no, venticinque anni fa, o quando è stato, insomma non importa… ma so esattamente a cosa puntano. Desiderano distruggerci e prendere le nostre terre, le nostre donne, i nostri beni… intendono schiavizzare i nostri figli, asservirli al loro dio malvagio e rivoltarceli contro. Questo è ciò che vogliono e noi non abbiamo intenzione di permetterlo, non è vero? -
- No, certo – rispose lui con espressione assente.
- Quanto a te, fatti vedere oggi stesso. Un buon guerriero dovrebbe pensare alla propria salute innanzitutto. Ci sei indispensabile! Il tuo coraggio e la tua audacia ti hanno conquistato grandi onori e tutto l’esercito ti ammira, ben oltre i confini del nostro reparto. Quante battaglie abbiamo combattuto, te lo ricordi? -
- Mi credi se ti dico che non lo so? – fu la risposta.
- Dovresti farti vedere, davvero!- grugnì il compagno – Probabilmente ci scontreremo ancora con i nostri nemici nei prossimi giorni. Non vorrai ammalarti proprio ora, non è vero? –
Idriel abbozzò, quindi abbassò gli occhi e disse – Va bene. Lo farò. -
La battaglia era al suo culmine e gli scontri si susseguivano incessantemente fra i grossi macigni che punteggiavano il lato ovest della piana, preludio alle pareti scoscese che si arrampicavano verso le vicine montagne. Sulla loro sommità sorgeva un vecchio tempio dedicato al dio Jiun che pareva osservarli imperterrito da lontano. La sua cupola violacea riluceva coronando la struttura bianca che si innalzava sulla sporgenza rocciosa.
Quel giorno avevano attaccato quasi subito lanciandosi al galoppo contro la linea laterale del nemico nel tentativo di sfondarla velocemente ed arrivare così fino al centro dello schieramento. Tuttavia, quando avevano cavalcato ormai in prossimità della fanteria, si erano trovati di fronte ad una sgradita sorpresa. Dalle rocce vicine era spuntato all’improvviso un nutrito squadrone di cavalleria che li aveva incalzati mandandoli presto in rotta. Molti compagni avevano trovato una rapida fine o erano stati disarcionati in malo modo, finendo ruzzoloni sul prato. In quel momento stavano combattendo a terra, lottando corpo a corpo con la spada o la mazza ferrata per salvarsi la vita.
Idriel stava contenendo gli assalti di un cavaliere deciso a non dargli tregua, Ubert si trovava poco lontano, impegnato in quel momento con due corpulenti avversari che tentavano di chiuderlo in un angolo, ma tre dei loro si stavano avvicinando rapidamente per dargli manforte.
Idriel parò un colpo con lo scudo di erro, quindi portò un affondo con lo spadone che centrò il bersaglio ammaccando la corazza dell’avversario poco al di sotto del petto. Sbilanciato dall’irruenza di quell’aggressione, l’avversario barcollò all’indietro e si espose al facile attacco seguente. Il cavaliere infatti non perse l’occasione propizia e si gettò subito contro di lui sollevando l’arma. Imbracciando saldamente con entrambe le mani l’impugnatura, la calò quindi pesantemente verso il basso, superando la corazzatura e trafiggendo il nemico fino allo stomaco.
L’uomo lanciò un urlo lancinante, quindi si adagiò su un fianco. Non appena Idriel estrasse la lama chiazzata di rosso, il ferito prese ad annaspare con le braccia per guadagnare un luogo sicuro dietro una roccia. Respirava a fatica e armeggiò con i guanti per liberarsi il viso della protezione metallica. Quando riuscì a sollevarla, rivelò un volto provato dal dolore e in parte coperto dai capelli scarmigliati che gli erano scesi sugli occhi. Ma non fu quello a colpire l’attenzione di Idriel. Un altro particolare lo fece. Una cicatrice lunga e particolare, a forma di “L” che ricordò subito. Esattamente come quella presente sulla guancia di quel capitano che aveva ucciso giorni addietro, in una battaglia assai simile a questa…
Mentre il ferito gemeva per il dolore e respirava con sempre maggiore difficoltà, in attesa della fine ormai vicina, la sua attenzione si appuntò su quel volto, lo scrutò a fondo esaminandolo in tutti i dettagli. E la conclusione fu sconvolgente. Era esattamente come lui! E questo naturalmente non era possibile.
Sconcertato per la scoperta, Idriel rimase per un attimo interdetto. Incurante della battaglia che continuava imperterrita poco lontano, volse lo sguardo verso il cielo, in cerca di una spiegazione, ma non vi trovò alcuna risposta ai propri interrogativi. Nella mente gli fluivano numerosi pensieri, proprio come quella sera accanto ai fuochi. I nemici che non venivano mai sconfitti, le loro schiere innumerevoli che si ripresentavano dinanzi al suo reparto giorno dopo giorno, incuranti delle perdite subite, con lo stesso coraggio, la stessa incrollabile fede, il medesimo furore combattivo. Valli infinite piene di insidie e di pericoli. Sangue, sempre tanto sangue durante le battaglie… E ora questo! Assorto nelle proprie meditazioni, i suoi occhi incrociarono per caso la costruzione imponente che si stagliava in cima alla parete rocciosa. Il tempio di Jiun!
Un’idea gli corse veloce per la testa. Certo, perché no, si disse. Lassù avrebbe forse trovato le risposte che cercava. La divinità avrebbe chiarito i suoi dubbi una volta per tutte!
Lasciatosi alle spalle lo scontro ancora in atto, compresi Ubert ed i compagni, Idriel depose la spada, lo scudo e cominciò ad arrampicarsi lungo la salita pietrosa. Il peso dell’armatura non lo rallentava, troppo grande era la voglia di sapere, di placare le sue incertezze.
I metri si susseguivano rapidamente, neanche gli spuntoni rocciosi parevano in grado di ostacolare il suo cammino deciso. Nel volgere di pochi minuti fu vicino alla sommità, superò un ghiaione scosceso e giunse alla sporgenza ove sorgeva il tempio. La brillantezza della sua cupola contrastava con la desolazione e la cupezza di quel paesaggio privo di vita.
I sacerdoti dovevano essere fuggiti da lì molto tempo addietro a causa dell’invasione. A grandi passi Idriel si diresse verso l’ingresso, oltrepassò il colonnato del corridoio principale e giunse nel sacrario. Pareva deserto. Un lungo altare di granito sorgeva in mezzo alla stanza tonda e più avanti, su un piedistallo rialzato, si trovava l’imponente trono di pietra.
Una voce risuonò all’improvviso dall’alto.
- Cosa posso fare per te, valoroso condottiero? -
L’uomo volse gli occhi verso il trono e vi vide sopra una figura solenne avvolta in una larga veste grigia ed assisa in una posa sacrale. Le sue sembianze erano delicate ed avvolte da una grazia innaturale. Ne riconobbe l’aspetto, in tutto identico a quello fissato in centinaia di statue sacre.Era il supremo Jiun!
Troppo stupito per fare alcunché, Idriel rimase a bocca spalancata per qualche istante. Forse quella era una delle famose visioni che sperimentavano i sacerdoti quando le loro preghiere li mettevano in contatto diretto con la divinità? Ancora incerto se si trattasse di un sogno o di un’esperienza reale e straordinaria, il cavaliere osò alfine parlare.
- Io… sono qui per porre dei quesiti… – la sua voce risuonò stranamente per la grande sala vuota – Ultimamente sono molto confuso. Ho molti dubbi e pensieri che prima non avevo… -
- Forse sei solo stanco per il protrarsi della lunga guerra – disse Jiun in tono conciliante dall’alto del suo piedistallo rialzato.
- Sì, è sicuramente la guerra la causa. Vi prego, supremo Jiun, ditemi da quanto tempo combattiamo? – il cavaliere si inginocchiò ai piedi della divinità.
- Da molto, molto tempo, mio suddito fedele – fu la pronta replica.
La risposta parve non soddisfarlo. Tuttavia c’erano altre questioni in sospeso, più urgenti – E… per quanto dovremo combattere ancora? -
- Ci sono cose che neanch’io conosco. Il Disegno Superiore è al di là di tutti noi – ribattè la divinità senza aggiungere altro.
- Capisco – disse il guerriero, i lineamenti rigidi – Tuttavia, c’è un’altra cosa, supremo Jiun. La mia famiglia. Io ho perso le mie figlie durante l’assedio di Duhuelmel. Erano due giovinette piene di vita e molto dolci… – mentre diceva ciò neanche una lacrima comparve sul suo volto. Ne parlava con fare così distante, pacato, non era strano anche questo?
-La guerra provoca dolore. Ma la vittoria ci ripaga di tutte le sofferenze subite. Conosci i miei insegnamenti -
- Sì… certo… però… se noi siamo i giusti, allora perché sono morte? Per quale ragione i nostri nemici hanno potuto compiere un gesto così crudele? Perché non sono stati ancora sconfitti definitivamente? -
- L’esito della guerra dipende dal valore dimostrato sul campo di battaglia, lo sai bene, sei un guerriero! – lo interruppe bruscamente la divinità.
Quelle parole risvegliarono in lui qualcosa che si era soltanto assopito temporaneamente. Già, la battaglia! I suoi occhi si fissarono sull’essere divino che sedeva sul trono al di sopra del grande altare – Ho una domanda da porre sulla guerra e riguardo tutto ciò per cui stiamo combattendo, supremo Jiun… E’ molto importante… – l’uomo parve quasi riprendere fiato, incerto sulle parole da usare – Durante l’ultimo scontro ho assistito ad un fatto molto strano. Stavo lottando con un abile avversario, ma un mio colpo lo ha ferito, facendolo rotolare per terra. Dopo l’ho finito con un colpo ben assestato di spada. Ma quando costui ha aperto il suo elmetto mostrando il volto, mi è subito sembrato familiare… era come se l’avessi già visto… – un attimo di esitazione – …assomigliava ad un guerriero con cui mi ero già misurato tempo addietro, non saprei dire quando, in verità. Eppure era proprio lui, la stessa cicatrice, la stessa espressione… Sul momento non sapevo cosa pensare, poi però… -
Il dio parve accigliarsi.
- Era come se… come se fosse la stessa persona, lo stesso cavaliere… -
- Impossibile, ti dico… -
- Lo stesso uomo… Ma come poteva essere? -
- Ora basta! – urlò alla fine Jiun ed un fulmine accecante scaturì dalla sua mano, decretando la fine repentina di Idriel che rimase incenerito all’istante.
Mentre ancora il fumo si levava dal pavimento lucido nell’esatto punto in cui fino a poco prima si trovava il malcapitato cavaliere, una serie di pensieri poco piacevoli attraversò la mente del dio come una tempesta in procinto di esplodere in tutta la sua potenza devastante. Agruel aveva osato troppo questa volta. Il Cristallo Magico che egli aveva creato, concentrando tutte le sue energie in un unico oggetto, cominciava a sovvertire le leggi fisiche del mondo a cui lui stesso aveva dato vita in passato. Era riuscito ad influenzare le leggi della natura e spezzare così la presa che aveva sui suoi servitori. Ora il suo avversario cominciava a rendergli infedeli gli umani, le sue stesse creature, e ne fiaccava l’animo. Davvero inaudito!
In qualche modo Agruel aveva infranto le regole di quell’antica partita per il predominio assoluto che stavano combattendo da secoli in quel luogo sospeso fra i piani dell’esistenza, là dove confluivano più dimensioni. Voleva forse privarlo dei suoi soldati, degli strumenti del suo volere? Non ci sarebbe mai riuscito! Lo scontro in atto fra di loro sarebbe continuato senza interruzioni. Le pedine dovevano continuare a giocare.
Gli spuntoni di roccia bianca emergevano dalle cime come tanti coltelli spezzati e taglienti. Il vento Arir riempiva del suo soffio gli enormi spazi vuoti fra le alture circostanti mentre gli stendardi colorati avanzavano lungo il pendio delle colline brulle, oscillando in un’improbabile danza al suono prorompente dei trombettieri. L’effetto sonoro prodotto dai loro strumenti squassava l’aria tutt’attorno ed incitava i soldati a marciare compatti verso la sommità ormai prossima.
Giunti al punto convenuto gli armati si schierarono in una lunga linea che si snodava per centinaia e centinaia di metri. La nuvolaglia grigiastra carica di pioggia pareva premere sulle loro teste come una minaccia incombente, rendendo cupo e desolato il paesaggio circostante.
Un cavaliere, racchiuso in un armatura scura ed in groppa ad un cavallo grigio dai finimenti metallici, si tolse la celata dal capo con un gesto studiato e, tenendola ferma fra il petto e l’avambraccio, fissò le schiere nemiche ammassate sul fondovalle. I suoi occhi neri come la notte e penetranti osservarono silenziosamente in un gesto di sfida il vasto campo di battaglia che si stendeva in lontananza, mentre i capelli castani, dello stesso colore della barba, gli svolazzavano disordinatamente di lato, scarmigliati dal vento battente. Idriel era il suo nome.
Si attendeva ormai con impazienza l’ordine dell’attacco che puntualmente giunse pochi istanti dopo.
12/04/2009, Sergio Palumbo