IL MANOSCRITTO VOYNICH

Il Manoscritto Voynich, è famoso per essere il libro più misterioso del mondo: è a tutt’oggi infatti l’unico libro scritto nel XV secolo (la datazione al radiocarbonio ha stabilito con quasi totale certezza che il manoscritto sia stato redatto tra il 1404 e 1438) che non sia stato ancora decifrato.

Il manoscritto contiene immagini di piante mai viste, ma non solo quelle, ed è scritto in un idioma che non appartiene ad alcun sistema alfabetico/linguistico conosciuto.Di questo testo non esistono copie ma un solo esemplare, che è attualmente conservato presso la Beinecke Rare Book and Manuscript Library dell’Università di Yale, negli Stati Uniti, dove reca il numero di catalogo «Ms 408».

Il volume, scritto su pergamena di capretto, è di dimensioni piuttosto ridotte: 16 cm di larghezza, 22 di altezza e 4 di spessore. E’ composto da 102 fogli, per un totale di 204 pagine. La rilegatura porta tuttavia a ritenere che originariamente comprendesse 116 fogli e che 14 si siano smarriti.

Fanno da corredo al testo una notevole quantità di illustrazioni a colori, che ritraggono i soggetti più svariati, soprattutto di specie vegetali misteriose, di cui non si conosce l’esistenza. Non essendo ancora stato possibile decifrare il testo, sono proprio i disegni che lasciano intravedere la natura del manoscritto, venendo di conseguenza scelti come punto di riferimento per la sua suddivisione in diverse sezioni, scelte proprio a seconda del tema delle illustrazioni: la Sezione I (fogli 1-66) è chiamata “botanica” e contiene 113 disegni di piante sconosciute; la Sezione II (fogli 67-73) è chiamata “astronomica” o “astrologica” e presenta 25 diagrammi che sembrano richiamare delle stelle e vi si riconoscono anche alcuni segni zodiacali, ma anche in questo caso risulta alquanto arduo stabilire di cosa effettivamente tratti questa parte; la Sezione III (fogli 75-86) è chiamata “biologica”, nomenclatura dovuta esclusivamente alla presenza di numerose figure femminili nude, sovente immerse fino al ginocchio in strane vasche intercomunicanti contenenti un liquido scuro. Subito dopo questa sezione vi è un foglio ripiegato sei volte, raffigurante nove medaglioni con immagini di stelle o figure vagamente simili a cellule, raggiere di petali e fasci di tubi. La sezione IV (fogli 87-102) è detta “farmacologica”, per via delle immagini di ampolle e fiale dalla forma analoga a quella dei contenitori presenti nelle antiche farmacie. In questa parte vi sono anche disegni di piccole piante e radici, presumibilmente erbe medicinali. L’ultima sezione del Manoscritto Voynich comincia dal foglio  103 e prosegue sino alla fine. Non vi figura alcuna immagine, fatte salve delle stelline a sinistra delle righe, ragion per cui si è portati a credere che si tratti di una sorta di indice.

Il Manoscritto Voynich deve il suo nome a Wilfrid Voynich, un mercante di libri rari di origini polacche, naturalizzato inglese, che lo acquistò dal collegio gesuita di Villa Mondragone, nei pressi di Frascati, nel 1912. Il contatto tra Voynich e i gesuiti fu il religioso gesuita padre Joseph Strickland. I gesuiti in quel periodo avevano bisogno di fondi per restaurare la villa e vendettero a Voynich trenta volumi della biblioteca, che era formata anche da una raccolta di volumi del Collegio Romano trasportati a quello di Mondragone insieme alla biblioteca generale dei Gesuiti, per salvarli dagli espropri del nuovo Regno d’Italia: tra questi c’era appunto anche il libro misterioso.

Voynich rinvenne, all’interno del manoscritto, una lettera di Johannes Marcus Marci, rettore dell’Università di Praga e medico reale di Rodolfo II di Boemia, con la quale egli inviava questo libro a Roma presso l’amico poligrafo Athanasius Kircher perché lo decifrasse. Voynich stesso affermò che lo scritto conteneva minuscole annotazioni in greco antico e datò il volume come originario del XIII secolo.

Nella lettera, che reca l’intestazione “Praga, 19 agosto 1665” (o 1666 – l’ultimo  numero non è molto chiaro), Marci affermava di aver ereditato il manoscritto medievale da un suo amico (che in seguito le ricerche riveleranno essere un non meglio noto alchimista di nome Georg Baresch), e che il suo precedente proprietario, nientemeno che l’imperatore Rodolfo II, lo aveva acquistato per 600 ducati (una cifra molto elevata per quei tempi), credendolo opera di Ruggero Bacone.

Tra i tanti misteri del Manoscritto, anche la datazione è ancora controversa. Fino agli inizi del 2011 si è ipotizzato che il manoscritto fosse stato creato ad arte come falso nel XVI secolo, per perpetrare una truffa ai danni di Rodolfo II. Secondo tale ipotesi, il truffatore sarebbe stato l’astrologo, mago e falsario inglese Edward Kelley aiutato dal brillante filosofo John Dee. A confutare questa teoria è però sopravvenuta la datazione ottenuta mediante la tecnica del Carbonio-14 nel febbraio 2011. Un gruppo di ricerca presso l’Arizona University è stato autorizzato ad asportare quattro piccoli campioni (1 millimetro per 6) dai margini di differenti pagine. A seguito di una datazione al radiocarbonio le pergamene parrebbero risalire a un periodo compreso fra il 1404 e il 1438. L’impossibilità di analizzare l’inchiostro col quale il manoscritto è stato redatto lascia però ancora spazio a qualche diatriba.

Precedenti ipotesi collocavano la stesura del testo intorno agli inizi del XVII secolo poiché un’analisi all’infrarosso aveva rivelato la presenza di una firma, successivamente cancellata, di Jacobi a Tepenece, al secolo Jacobus Horcicki, morto nel 1622 e principale alchimista al servizio di Rodolfo II. Inoltre, poiché una delle piante raffigurate nella sezione “botanica” è quasi identica al comune girasole giunto in Europa all’indomani della scoperta dell’America e quindi successivamente al 1492, si è supposto che l’autore non potesse ancora conoscere tale pianta per cui il libro doveva essere stato scritto solo successivamente a tale data.

In molti, nel corso del tempo, e soprattutto ultimamente, hanno cercato di decifrare la lingua sconosciuta del Voynich. Il primo ad aver affermato di essere riuscito nell’impresa fu William Newbold, professore di filosofia medievale all’Università della Pennsylvania. Nel 1921 pubblicò un articolo in cui proponeva un elaborato e arbitrario procedimento con cui tradurre il testo, che sarebbe stato scritto in un latino “camuffato” addirittura da Ruggero Bacone. La conclusione a cui Newbold arrivò con la sua traduzione fu che già nel tardo Medioevo sarebbero state conosciute nozioni di astrofisica e biologia molecolare. Newbold analizzando il manoscritto però si accorse che le minuscole annotazioni in realtà altro non erano che crepe nella pergamena invecchiata.

Negli anni Quaranta i crittografi Joseph Martin Feely e Leonell C. Strong applicarono al documento dei sistemi di decifratura sostitutiva, cercando di ottenere un testo con caratteri latini in chiaro: il tentativo produsse un risultato che però non aveva alcun significato. Il manoscritto fu l’unico a resistere alle analisi degli esperti di crittografia della marina statunitense, che alla fine della guerra studiarono e analizzarono alcuni vecchi codici cifrati per mettere alla prova i nuovi sistemi di decodifica. J.M. Feely pubblicò le sue deduzioni nel libro “Roger Bacon’s Cipher: The Right Key Found” in cui, ancora una volta, attribuiva a Bacone la paternità del manoscritto.

Nel 1945 il professor William F. Friedman, costituì a Washington un gruppo di studiosi, il First Voynich Manuscript Study Group (FSG). Egli optò per un approccio più metodico e oggettivo, nell’ambito del quale emerse la cospicua ripetitività del linguaggio del Voynich. Tuttavia, a prescindere dall’opinione maturatagli nel corso degli anni in merito all’artificialità di tale linguaggio, all’atto pratico la ricerca si risolse in un nulla di fatto: a niente servì infatti la trasposizione dei caratteri in segni convenzionali, che doveva fungere da punto di partenza per qualsiasi analisi successiva.

Il professor Robert Brumbaugh, docente di filosofia medievale a Yale, e lo scienziato Gordon Rugg, in seguito a ricerche linguistiche, sposarono la teoria che vedrebbe il Voynich come un semplice espediente truffaldino, volto a sfruttare il successo che a quel tempo le opere esoteriche solevano riscuotere presso le corti europee.

Nel 1978 il filologo dilettante John Stojko credette di aver riconosciuto la lingua, e affermò che si trattasse di ucraino, con le vocali rimosse. La traduzione però pur avendo in alcuni passi un apparente senso (“Il Vuoto è ciò per cui combatte l’Occhio del Piccolo Dio”) non corrispondeva ai disegni.

Nel 1987 il fisico Leo Levitov attribuì il testo a degli eretici Catari, pensando di aver interpretato il testo come un misto di diverse lingue medievali centroeuropee. Il testo tuttavia non corrispondeva con la cultura catara e la traduzione aveva poco senso.

Lo studio più significativo in materia resta a oggi quello compiuto nel 1976 da William Ralph Bennett, che ha applicato la casistica alle lettere e alle parole del testo, mettendone in luce non solo la ripetitività, ma anche la semplicità lessicale e la bassissima entropia: il linguaggio del Voynich, in definitiva, non solo si avvarrebbe di un vocabolario limitato, ma anche di una basilarità linguistica riscontrabile, tra le lingue moderne, solo nell’hawaiano. Il fatto che le medesime “sillabe”, e perfino intere parole, vengano ripetute con una frequenza tale da rasentare il beffardo, è attinente più a una concezione inconsciamente accomodante, che non volutamente criptica.

L’alfabeto che viene usato, oltre a non essere stato ancora decifrato, è unico. Sono però state riconosciute tra le 19 e le 28 probabili lettere, che non hanno nessun legame con gli alfabeti attualmente conosciuti. Si sospetta inoltre che siano stati usati due alfabeti complementari ma non uguali, e che il manoscritto sia stato redatto da più persone. Imprescindibile quanto significativa in tal senso è poi l’assoluta mancanza di errori ortografici, cancellature o esitazioni, elementi costanti invece in qualunque altro manoscritto.

In alcuni passi ci sono delle parole ripetute anche quattro o più volte consecutivamente. Le parole contenute nel manoscritto infatti presentano frequenti ripetizioni di sillabe. Ciò spinse due studiosi (William Friedman e John Tiltman) a ipotizzare che fosse scritto in una lingua filosofica, ossia in una lingua artificiale in cui ogni parola è composta da un insieme di lettere o sillabe che rimandano a una divisione dell’essere in categorie.

L’esempio più noto di lingua artificiale è l’idioma analitico di John Wilkins, anche grazie all’omonimo racconto di Borges. In questa lingua, tutti gli enti sono catalogati in 40 categorie, suddivise in sotto categorie, e a ognuna è associata una sillaba o una lettera: in questo modo, se la classe generale dei colori è indicata con “robo-“, allora il rosso si chiamerà “roboc”, il giallo “robof”, e così via. Questa ipotesi spiegherebbe la ripetizione di sillabe, ma fino a oggi nessuno è riuscito a dare un senso razionale ai prefissi e ai suffissi usati nel Voynich. Inoltre, le prime lingue filosofiche sembrano risalire a epoche successive alla probabile compilazione del manoscritto. A quest’ultimo proposito, è però facile obiettare che l’idea generale di lingua filosofica è tutto sommato semplice e poteva quindi già preesistere.

Un’ipotesi contraria invece, molto più azzardata, è che sia stata proprio la visione del manoscritto a suggerire la possibilità di una lingua artificiale. Certo è che Johannes Marcus Marci era in contatto con Juan Caramuel y Lobkowitz, il cui libro “Grammatica Audax” costituì l’ispirazione per l’idioma analitico di Wilkins.

Recentemente è stata avanzata un’ipotesi che chiarirebbe il motivo dell’inspiegabilità del testo e della sua resistenza a qualsiasi tentativo di decifrazione: Gordon Rugg, nel luglio 2004, ha individuato un metodo che potrebbe essere stato seguito dagli ipotetici autori del Manoscritto per produrre in realtà “rumore casuale” in forma di sillabe. Questo metodo, realizzabile anche con strumenti del 1600, spiegherebbe la ripetitività delle sillabe e delle parole, l’assenza delle strutture tipiche della scrittura casuale e renderebbe credibile l’ipotesi che il testo sia un falso rinascimentale creato ad arte per truffare qualche studioso o sovrano dell’epoca.

Già in passato Jorge Stolfi dell’Università di Campinas (Brasile) aveva proposto l’ipotesi che il testo fosse stato composto mischiando sillabe casuali da tabelle di caratteri. Questo avrebbe spiegato le regolarità e le ripetizioni, ma non l’assenza di altre strutture di ripetizione, ad esempio le lettere doppie ravvicinate. Rugg invece partì dall’idea che il testo fosse stato composto con metodi combinatori noti negli anni tra il 1400 e il 1600: uno di questi metodi, che attirò la sua attenzione, fu quello della cosiddetta “Griglia di Cardano” creata da Girolamo Cardano nel 1550. Il metodo consiste nel sovrapporre a una tabella di caratteri o a un testo una seconda griglia, con solo alcune caselle ritagliate in modo da permettere di leggere la tabella inferiore. La sovrapposizione oscura le parti superflue del testo, lasciando visibile il messaggio. Rugg ha ricondotto il metodo di creazione a una griglia similare di 36×40 caselle, a cui viene sovrapposta una maschera con 3 fori, che compongono i tre elementi della parola (prefisso, centrale e suffisso). Il metodo, molto semplice da usare, avrebbe permesso all’anonimo autore del Manoscritto Voynich di realizzare il testo molto rapidamente partendo da una singola griglia piazzata in diverse posizioni. Questo ha rimosso il principale dubbio correlato alla teoria del falso, cioè che un testo di tali proporzioni con caratteristiche sintattiche simili sarebbe stato molto difficile da realizzare senza un metodo di questo tipo. Rugg ha ottenuto alcune “regole base” del Voynichese, riconducibili a caratteristiche della tabella usata dall’autore: ad esempio la tabella originale aveva probabilmente le sillabe sul lato destro più lunghe, cosa che si riflette nella maggiore dimensione dei prefissi rispetto alle altre sillabe. Rugg ha tentato anche di capire se ci fosse un messaggio segreto codificato nel testo, ma l’analisi lo ha portato a escludere questa ipotesi: per via della complessità di costruzione delle frasi e delle parole, è quasi certo che la griglia sia stata usata non per codificare, ma per comporre il testo.

Ricerche storiche seguenti a questo studio hanno portato ad attribuire nuovamente a John Dee e ad Edward Kelley il testo. Il primo, studioso dell’età elisabettiana, avrebbe introdotto il secondo (noto falsario) alla corte di Rodolfo II intorno al 1580. Kelley era mago, oltre che truffatore, quindi ben conosceva i trucchi matematici di Cardano, e avrebbe realizzato il testo per ottenere una cospicua cifra o favori dal sovrano, anche se, come già detto, le analisi al Carbonio 14 sembrerebbero confutare questa teoria.

Il carattere misterioso del manoscritto ha fatto sì che molti se ne servissero come espediente o come elemento letterario in racconti e romanzi di genere fantastico: è stato utilizzato sia da Colin Wilson nel suo racconto di ispirazione lovecraftiana “Il ritorno dei Lloigor” sia dallo scrittore Valerio Evangelisti che, nella sua “Trilogia di Nostradamus”, lo assimila all’Arbor Mirabilis e ne fa un testo esoterico al centro di una trama complessa che si dipana attraverso la storia francese del XVI secolo.

Il manoscritto è stato anche protagonista del romanzo “Il manoscritto di Dio” di Michael Cordy in cui viene in parte decifrato da una docente dell’università di Yale e risulta infine essere una mappa per ritrovare il Giardino dell’Eden.

È presente inoltre anche nel libro “La tomba di ghiaccio” (“The Charlemagne Pursuit”, 2008) di Steve Berry. Anche in un numero del fumetto “Martin Mystere” se n’è parlato, correlandolo all’Apocalisse.

Infine nella striscia 593 del webcomic “Xkcd”, il testo viene citato, ipotizzando che si tratti di un antico manuale di un gioco di ruolo.

Ma il mistero resta ancora tale!

Davide Longoni