Due piccole forme camminavano in una selva di cemento. Uomini nella Zona di Alienazione; minuscole macchie, pressappoco invisibili in territorio fantasma.
Là non c’era niente, solo palazzi, strade e auto abbandonate.
-Compagno Molokin!- esclamò colui che apriva la fila, da dietro la maschera antigas.
-Baranov?
-Mi dia la lettura, compagno.
Paša Molokin armeggiò un attimo col fucile, spostandolo lateralmente, quindi prese dalle tasche della buffetteria un aggeggio bianco simile ad una radiolina portatile. Gli era difficile seguire gli ordini di Baranov senza che lo stomaco si contraesse in un bel groviglio.
Pavel Sergejevic Molokin, figlio di un eroe dell’Afghanistan, era nelle forze armate unicamente per la propria scelleratezza. Paša veniva da un’antica famiglia di accademici borghesi, che la storia aveva trasformato in combattenti rossi. I Molokin erano tutti dottori o ingegneri. Lo sarebbe dovuto diventare anche Paša. Studente modello, dopo tre anni all’Università Lomonosov di Mosca, era radicalmente cambiato e con lui i suoi punteggi.
Sapeva da memorie confuse che il padre del padre o forse il padre del padre del padre era ebreo e che convertitosi, aveva sposato una borghese di religione ortodossa. Questo nella scalata dei livelli sociali può rappresentare un ostacolo, ma benché Paša non ci facesse caso, vedeva nei professori avevano un atteggiamento differente con lui rispetto a quello tenuto in presenza dei compagni di corso. Sapevano dell’avo ebraico? Lo suggeriva forse il nome di famiglia, maledettamente simile a quello del dio Moloch?
Ipotesi, congetture per giustificare un disagio interiore.
Mentre Pavel si allontanava dalla laurea in medicina e dalla possibilità di frequentare l’Accademia Medica Militare di Kirov, Sergej Molokin prendeva sempre più in considerazione il farlo spedire in Ucraina come liquidatore addetto al recupero della Zona di Alienazione. Le malelingue dicevano che Paša avesse avuto da ridire su certe direttive del Partito e che nella sua testa, contaminata da idee imperialiste, non ci fosse più spazio per lo studio. Con Chernobyl, i Molokin, se non Paša stesso, si sarebbero dimostrati eroici servi del Partito, recuperando l’onore e la faccia.
Quanto a Baranov, era un contadino uscito dai sovchoz, un uomo brutale, spontaneo, che non si separava mai dal suo grande corno da caccia.
Dietro la maschera avremmo percepito un impasto di tratti europei e asiatici. La madre di Baranov infatti era una nenet della penisola di Yamal, nella regione di Tyumensk. Lei e Mykolaj Baranov s’erano sposati un anno dopo il suo arrivo nella fattoria statale. Volodymyr il primogenito, era cresciuto nel sovchoz siberiano fino ai tre anni, imparando quanto basta sulla conservazione ed esportazione della carne di renna agli altri sovchoz, dopodichè la famiglia era stata trasferita alla fattoria statale numero sei nella Repubblica Socialista Sovietica d’Armenia.
Cresciuto in mezzo alle renne prima e tra pastori dal cappello in pelliccia poi, Volodymyr era un nomade, un cacciatore per vocazione.
-Lettura 0,373 millirem, compagno staršina- rispose Paša: -Questo vuol dire che siamo sopra il livello di guardia.
-Non faccia il pessimista, Molokin!- sbottò Baranov.
-Pessimista un corno- disse, petulante il secondo uomo: -Lo sa al giorno quanti sono 0,373 millirem all’ora?
Baranov ci pensò un poco su, quindi disse: -No.
Molokin fece un sorrisetto: -8,952.
-Uhm, davvero?- fece Baranov.
-Certo! E sa quanti sono alla settimana?
-Uhm, mi ci faccia pensare… no.
-62,664!
-Ah, veramente? Ma è una cosa interessantissima!- Baranov alzò il fucile-mitragliatore ak47 e fece fuoco, mentre un uomo gli correva incontro, vestito di stracci. Baranov lo vide cadere, poi mormorò un’imprecazione.
-Diceva compagno? Eravamo fermi ai millirem settimanali.
-Per sua norma in regola, quelli mensili, ottenibili moltiplicando banalmente 62,664 per quattro, sono 250,656.
-Uhm, incredibile- Baranov si girò verso un altro straccione: -Veramente, compagno- disse, beccandolo in mezzo agli occhi.
-Si beh- Molokin non sapeva che dire. Si schiarì la gola e continuò coi calcoli a mente: -Assumendo, per brevità, che ogni mese abbia trenta giorni e moltiplicando 250,656 per dodici, abbiamo un’esposizione annuale di 3007,872 millirem e sa quant’è il livello di guardia all’anno?
-Uhm, no- Baranov sparò un altro colpo, stavolta beccando una donna e poi ancora, un uomo.
-500 compagno, 500. Vuol dire che siamo fuori di 2507,872! Millirem più, millirem meno.
Baranov sparò ancora: -E quanto la fa lunga, compagno! Che sono cinque millirem in più, cinque millirem in meno per un patriota sovietico?- disse, troncando due uomini con una mitragliata.
-Veramente parlavo di più di duemila.
-Fossero anche duemila al giorno,
-Eh, poco ci manca- mormorò Molokin.
-O all’ora, non rimbalzerebbero sulla nostra pelle coriacea, resa tale dall’amor per la Rodina (la patria)?
-Certo compagno comandante- Molokin lo disse senza entusiasmo.
-Mi domando dove si siano cacciati Kalkin e Aleksandrev- Baranov aprì il fuoco, poi abbassò il mitragliatore. Un altro uomo finì a mordere la polvere.
Molokin fece spallucce, per poi decidere di buttargli una malignità: -Si pente di aver iniziato tanto presto?
Baranov rallentò il passo sino a fermarsi: -Non dica scemenze, compagno, piuttosto guardi quello!
Molokin aguzzò la vista dietro la maschera antigas, poi si mise a ridere. Da uno dei casermoni affogati nelle erbacce, spuntava un vecchio con la barba lunga e la schiena curva. Piegato in avanti, le gambe zeppe d’artrite, barcollava lento, stringendo il bastone. Un osservatore più acuto dello staršina avrebbe notato che l’anziano non usava il bastone per appoggiarsi, ma lo impugnava come un’arma e neanche troppo bene. Era come se qualcosa gli impedisse di flettere le dita nella maniera giusta.
Baranov cominciò a ridere, quindi prese la mira e sghignazzò di nuovo: -Non ce la faccio compagno- disse, le lacrime agli occhi: -È troppo divertente! E poi guardi il bastone!
Molokin fece una smorfia. Non c’era nulla da ridere. Quei cosi, una volta uomini, calcavano le strade di Pripyat a migliaia. Erano bestie immuni al dolore animate dal desiderio di uccidere. Lo si capiva guardandoli in faccia: gli occhi di sangue, la bocca piena di bava. Molokin deglutì, mentre Baranov rideva.
-Vieni nonno, su!- esclamò il comandante: -Avanti nonno!- e giù una risata.
-Compagno staršina- disse Molokin: -Le rammento che da vivo quell’uomo era uno di noi, un sovietico. Chi le dice che non abbia combattuto nella Grande Guerra Patriottica o che non abbia eroicamente respinto i musulmani in Afghanistan?
-Beh, più che della Grande Guerra Patriottica mi sembra un residuato della Rivoluzione d’Ottobre!- Baranov rise.
-Non è questo il punto compagno! Renderemmo un servizio migliore alla Rodina sparandogli invece che deriderne il cadavere!
L’allegria di Baranov si spense, ma le lacrime continuavano a sgorgare: -Ha ragione Molokin!- disse, il tono vibrante di quel che Molokin chiamava sindrome Io-Sono-Lenin. Alzando il fucile-mitragliatore, il comandante puntò e sparò. Un colpo secco, in mezzo agli occhi. L’anziano fece una capriola in avanti e rimase a terra.
-Maledetti!- urlò Baranov: -Usurpare in questo modo il corpo di un eroe sovietico!- e fece fuoco contro una donna: -Perdonami babuška- disse, riferendosi a colei appena uccisa: -Io anniento solo il tuo corpo, giammai la memoria di te che rimarrà alle masse operaie in Unione Sovietica!
-Si, certo- mormorò Molokin.
-Prego, compagno?- Baranov si fermò di scatto, mentre dal casermone innanzi a loro, usciva un’altra folla di straccioni ringhianti.
-Ehm, come?
-Ho detto: prego, compagno?- la voce di Baranov era tagliente più di un coltello e gli occhi fissi su Molokin. Dal canto loro, le bestie si facevano sempre più vicine. Correndo come pazze, graffiavano l’aria con le unghie, urlando a bocca spalancata.
-Certo, certo, noi annientiamo solo il corpo corrotto di questi poveracci, giammai la loro memoria nel cuore delle masse operaie!
-Uhm- grugnì Baranov: -Ben detto- si girò, fischiettando e aprì il fuoco. Una pioggia di bossoli venne sputata dall’ak47; le sue pallottole troncarono la corsa dei mostri. Caddero urlando, schiantati gli uni sugli altri.
Molokin sbuffò.
-E poi compagno, se proprio vogliamo fare i pignoli, lei ha citato i parametri di sicurezza per civili. In un contesto militare, situazione di non belligeranza, la soglia è 5 rem annui. Noi siamo in una zona da 0,373 millirem all’ora, quindi che diavolo di pericolo vuol correre?
Proprio in quel momento, uno degli infetti, una vecchia col foulard e le calze bianche, allungò l’artiglio storpio ghermendo lo stivale di Baranov. Lo staršina fece un sospiro quindi le puntò addosso il fucile. La bocca della donna era aperta e dalle labbra colava sangue. Le iridi avevano perso il colore originale (qualunque fosse) e ora splendevano cieche d’un giallo malato. Baranov esitò un attimo. La donna non poteva muoversi, le pallottole dello staršina le avevano tranciato la spina dorsale, eppure aveva una forza di volontà incredibile, al di là di ogni umana immaginazione. Con quell’unica mano graffiava la mimetica dell’uomo e con la bocca lanciava urla grottesche.
Volodymyr Mykolajevic Baranov scosse la testa, poi premette il grilletto.
-Dasvidanija.
Dietro di lui, Molokin chinò il capo. Avesse avuto un berretto, l’avrebbe tolto e posto vicino al cuore.
Una goccia di sangue, le particelle alfa, beta ed il simbolo dei raggi gamma erano raffigurati sulla toppa dell’uniforme di Kostyantyn Ivanovic Kalkin, efreitor del 616esimo battaglione chimico indipendente e liquidatore nella Zona di Alienazione. Era un ragazzo strano; molto schivo con gli sconosciuti, cambiava totalmente in compagnia dell’altro efreitor della squadra, Aleksandr Antonovic Aleksandrev, figlio di un pezzo grosso del Partito, con tanto di biblioteca ornata da tomi leninisti e dacia alla periferia di Mosca.
Aveva perduto la madre proprio lì in Ucraina nell’82 a seguito di un incidente. La ricordava bella, quasi filiforme con i capelli color del grano attorcigliati in una lunga coda.
Aveva lasciato una fame incolmabile nel cuore del ragazzo; fame d’affetto e di armonia, fame di una vita normale.
Aleksandr era chiuso nel suo mondo, un mondo in cui faceva entrare solo Kostya. Kalkin era l’unico a sapere della foto di Marina Emilenkoche l’amico nascondeva nel giubbetto da combattimento ed era l’unico a sapere delle lettere di lei al padre che Aleksandr recitava a memoria. Non ne avrebbe tenuta una in caserma, per paura che qualche ufficiale politico, qualche agente del Direttorato gliele prendesse. Ma a mente… oh a mente le sapeva riga per riga.
A Kostya sembrava una specie di bambino strappato prematuramente alla madre; una persona sensibile oppressa dal padre troppo premuroso, troppo potente.
L’efreitor sbuffò.
Al momento i due erano bloccati lungo un’intersezione senza nome proprio davanti al titanico Magazin Sportovanov, il centro commerciale per articoli sportivi.
Aleksandr scrutava l’orizzonte con un binocolo, steso sul vano motore del grosso cingolato bmp-2. Era un veicolo da combattimento in dotazione alla fanteria sovietica dal principio degli anni ’80. Aveva forme piatte, squadrate ed era lungo sette metri. Il pilota aveva un suo boccaporto che dava accesso alla sezione frontale, a sinistra. Il grosso diesel monoblocco da trecento cavalli era alloggiato in un compartimento separato alla destra del pilota. La torretta ospitava l’abitacolo di tiro del cannoniere ed il posto di comando; dietro, veniva il vano carico. Questo bmp in particolare era stato modificato rimuovendo le paratie del vano carico, in modo da metterlo in comunicazione con la torretta.
Il mitragliere o il comandante, per mettersi in contatto con chi era alla guida, si servivano di un circuito di comunicazione interna.
-Allora, lo vedi?- domandò Kalkin, come se non gli interessasse realmente una risposta.
Dall’altra parte del mezzo giunse un grugnito, poi una voce che chiamava: -Toto!
L’avevano perso, Toto il cane. Grande lettore e ancor più amante degli animali, Aleksandr Antonovic aveva potuto coltivare quelle che per il partito erano stramberie, unicamente grazie al padre.
Anton Yurevic aveva fatto in modo che il figlio servisse la Rodina senza dover rinunciare a niente. Così, quando durante una pattuglia a ridosso della Zona il gruppo di Baranov aveva trovato un terrier nero e a Emilenkoerano brillati gli occhi, qualcuno dall’alto aveva dato il permesso all’efreitor di tenerlo, anzi da Mosca avevano spedito documenti militari che collocavano il terrier al gradino più basso della truppa, soldato semplice, decantando un addestramento nelle unità cinofile della milizia. Per Baranov era troppo; Aleksandr invece, vedeva un bel sogno avverarsi.
Nel periodo in cui apparve il terrier, Aleksandr stava leggendo un libro imperialista, dal titolo Il Mago di Oz. L’aveva lasciato aperto su uno dei primi capitoli: le pagine giallognole, tenute insieme dal nastro adesivo.
Al ritorno dalla Zona, Kostyantyn si era seduto sulla branda di Aleksandr a fumare una sigaretta. Dopo due o tre tiri, sentendo qualcosa pungergli il didietro, aveva fatto lo sforzo di alzarsi e guardare.
-Il Mago di Oz- aveva detto, con tono neutro, quindi, cosa inusuale per l’efreitor, s’era messo a leggerne un pezzetto: -Se la piccola Dorothy riusciva a conservarsi gaia e non cresceva grigia come tutto ciò che la circondava era merito di Toto. Toto non era grigio, oh, no! (e qui ci aveva messo una risata) Era un bel cagnolino tutto nero, con il pelo lucido e gli occhietti vispi che ammiccavano furbisca… uhm, furbos… fur… insomma, qualcosa qua e là. Toto e Dorothy si volevano molto bene e giocavano insieme dalla mattina alla sera.
Aleksandr era già sulla porta e si stava togliendo la maschera antigas, quando il piccolo terrier gli era sgusciato tra i piedi e aveva cominciato ad abbaiare.
-Che c’è bestiaccia?- aveva detto Kostyantyn, ridendo: -Vuoi giocare?
-L’hai trovato Kostya!
-Trovato cosa?
-Il nome! Leggi, leggi!
Kostyantyn aveva guardato Aleksandr con espressione apatica.
-Leggi il libro!
-Uhm, Toto non era… uhm, era un bel cagnolino tutto nero, con il pelo lucido e gli occhietti vispi che ammiccavano… insomma basta lasciami fumare in pace!
Il terrier s’era messo ad uggiolare tutto contento. Aleksandr gli aveva carezzato la schiena: -Ti piace eh?
E così ora cercavano Toto, nelle strade della città fantasma, in barba ai continui richiami di Baranov.
Vivacissimo, il cagnolino non ne aveva mai voluto sapere di starsene nelle baracche militari mentre la squadra dello staršina era di pattuglia. L’avevano scovato e cacciato dal bmp qualcosa come cinquantasette volte, ora alla cinquantottesima, per non farsi prendere Toto era sgusciato via dalle feritoie per i tiratori di coda e s’era nascosto da qualche parte, nella Pripyat contaminata da infetti.
-Allora lo vedi?- sbuffò Kostya, slacciandosi elmetto e maschera antigas.
-No.
Kalkin scosse la testa e prese un pacchetto di sigarette dalla buffetteria, quindi ne mise in bocca una e l’accese con un accendino a gas.
-Te lo immaginavi tutto ‘sto casino?- disse, dopo due o tre tiri: -Voglio dire, t’immaginavi che le matite fossero così pericolose?
-Le matite? Le matite quelle per scrivere?
-Beh? Non sai che c’è dentro una matita? C’è la grafite, no? Diavolo come sei ignorante.
-La grafite? Ma che stai dicendo?
-Ma si cazzo! La grafite! Il reattore ne è pieno e tutti quegli elicotteri buttano giù tonnellate di… di… di roba per fermare il casino.
-Che casino?- giunse la risposta da prua.
-Come sarebbe a dire!? Perché siamo qui noi?
-Per recuperare Toto e dargli una lezione!
Kostya girò gli occhi al cielo, quindi aguzzò lo sguardo all’orizzonte. C’era qualcuno, una vecchietta che camminava piano fuori dal centro commerciale. Aveva le braccia protese in avanti ed emetteva debolissime, rauche urla. Aleksandr, concentrato a guardare da un’altra parte, non se ne accorse minimamente.
-C’è…- Kostya deglutì: -C’è una nonnetta, lì davanti.
Aleksandr si drizzò subito a sedere e tolse il binocolo dagli occhi: -La vedo!- mormorò, dalla maschera antigas.
Kostya si tolse la tracolla del fucile e mirò. Stava per sparare, quando l’arco di tiro venne occupato dal compagno. Agitava le mani, in direzione della vecchia: -Babuška, hai visto il mio cane? Babuška!
Quella si girò a destra e a manca, i pugni vicino al volto contratto dall’odio, la bocca spalancata. Aleksandr scosse la testa e tirò un pugno sul vano motore. La corazza del blindato produsse un tonfo sordo e la vecchia si girò appena.
Aleksandr era sconfortato, per una volta aveva creduto di trovare una persona normale in quel luogo, magari la vecchia urlava per paura degli infetti o dei militari, e invece no, era anche lei una di loro, un inutile involucro senza cervello con la fastidiosa abitudine di ammazzare chi le capitava sotto tiro.
La vecchia principiò a barcollare in una direzione a caso, quindi ristette nel bel mezzo dell’incrocio.
-Kostya ma tu pensi che ci veda?- domandò Aleksandr in un sussurro.
-Macché, è cieca, tutti loro lo sono, non vedi gli occhi giallognoli?
-Ma dunque come fa a capire dove siamo?
-Il rumore. Meno ne facciamo, meglio è.
Aleksandr si toccò la maschera, pensando di raggiungere il mento: -Facciamo una prova- disse e, alzandosi dette una voce alla vecchia: -Nonna! Siamo qui!
Quella si girò a destra, poi a sinistra, quindi fece un paio di passi incerti e ristette.
-Niente, non ci vede- disse Aleksandr: -Ma allora, le altre volte… ci trovavano sempre!
-Li trovavamo noi, nei loro letti, Aleksandr- rispose Kostyantyn. Quella pattuglia così mattutina era più unica che rara ed aveva per generatore la noia che attanagliava lo staršina. Baranov infatti, aveva deciso di far muovere la squadra sempre più presto, in modo da impressionare lo praporšcik, il volontario veterano che comandava la truppa di coscritti e ora Kostya, Aleksandr e Molokin si trovavano ad affrontare torme di infetti furiosi e citazioni leniniste di Baranov.
L’efreitor guardò in alto, dove il color lavanda già mutava nel pesca-arancio dell’aurora.
D’un tratto si sentì abbaiare, ma non c’erano cani a Pripyat a parte Toto naturalmente.
-Toto!
Il piccolo terrier arrivava dalla strada a sinistra, un groviglio di alberi e casermoni nascosti dai rampicanti, zampettando allegro. Le orecchie tese nel riconoscere la voce del padrone, Toto si mise a correre in mezzo all’incrocio, incurante della vecchia che tentava d’afferrarlo.
-Toto!- Aleksandr saltò giù dal bmp e corse in avanti. Kostya per poco non ingoiava la sigaretta.
-Ma che diavolo fai!?- ruggì, impugnando il fucile. La vecchia nel frattempo, aveva preso a barcollare verso l’uomo e il cane. Toto continuava ad abbaiare, un rumore penetrante, ad alta frequenza, che non smetteva mai.
-Cazzo!- dal centro commerciale Kostya vide sbucare altri due infetti. Correvano a braccia larghe, come nuotassero nell’aria, lanciando urla confuse.
Kostyantyn abbatté il primo ed il secondo in rapida successione, ma ecco che dal centro ne uscivano molti altri. L’ak47 tuonò a raffica: uomini e donne caddero.
In cielo, i primi raggi solari si rifrangevano, attraversando gli strati più profondi dell’atmosfera.
-Toto!- Aleksandr si abbassò ad abbracciare il cagnolino, proprio allora Kostya fece esplodere la testa alla vecchia, abbattendola a tre metri dal compagno.
-Aleksandr!- urlò, quindi fece fuoco, uccidendo altre quattro persone: -Aleksandr!- altri infetti uscivano dal centro commerciale: tanti, tantissimi, più di quanti l’efreitor avrebbe potuti ucciderne con tutte le sue munizioni. Kostya chiuse gli occhi, preparandosi al peggio. Aleksandr era condannato, Toto era condannato; forse solo lui, Kostyantyn, sarebbe riuscito a salvarsi, buttandosi al posto di guida e schiacciandoli col blindato.
Strinse le palpebre e d’un tratto, le sentì inondate di luce, luce del sole. Quando li riaprì, vide gli infetti giacere a terra, rantolando debolmente. Aleksandr stava lì a guardarli con Toto in braccio. Erano grotteschi, eppure gli fecero pena.
-Guarda- disse, girandosi: -Guardali Kostya, gli esce sangue dagli occhi, dalla bocca, dalle ferite e… frigge, frigge come se fosse in padella… si, come in padella.
-Vieni via!- replicò Kalkin, con la sigaretta che gli pendeva da un angolo della bocca: -Vieni via, cazzo!
Emilenkoannuì, staccandosi dai corpi. Camminava come un robot. La mimetica verde, la maschera antigas che lo faceva sembrare un’enorme mosca, il cane in braccio, Aleksandr era una figura inverosimile in quello sfondo da olocausto nucleare.
Quando fu vicino al bmp, lasciò andare Toto. Il cane fece un grido di gioia e schizzò dentro il boccaporto. Kostya diede una mano a Aleksandr: -Sei un cretino- gli disse.
L’altro non rispose.
Kostya scosse la testa, quindi afferrò la radio portatile. Mandava scariche, troncando la voce di Baranov.
D’un tratto, risuonò lunga la nota di un corno da caccia. Kostya afferrò il binocolo del compagno e si mise a scrutare l’orizzonte.
-Non li vedo- disse: -Ma dal suono dovrebbero essere a nordovest rispetto alla nostra posizione.
Aleksandr annuì, poi si mise alla guida. Il bmp sollevò un gran polverone, schizzando a settanta chilometri orari lungo la strada. Dall’alto della torretta, Kalkin teneva d’occhio l’orizzonte con una mitragliatore pk.
Gli alberi erano cresciuti a dismisura e infestavano il cemento della via, nascondendo palazzi, occultando dislivelli, così da rendere Pripyat una vera giungla urbana, nella più letterale delle accezioni.
Kostya mise la cuffia e comunicò con l’abitacolo di guida: -A sinistra alla prossima- disse.
-Ricevuto e copiato- disse Aleksandr annuì, quindi fece fare al bmp una curva improvvisa, salendo e scendendo dal marciapiede in un batter d’occhio.
Davanti a loro si stendeva un palazzone socialista con la stella sovietica in cima; la sua iscrizione diceva “lascia che l’atomo ti serva da lavoratore anziché da soldato”: -Avanti così!- disse Kostya.
Aleksandr accelerò.
Da sopra, Kalkin udì nuovamente il richiamo: -Sono al parco giochi!- disse.
Emilenkosvoltò a destra, infilandosi nel centro di Pripyat. Alla sua sinistra c’era il parco giochi: la base della grande ruota panoramica rientrava nella feritoia centrale del blindato.
-Saša, li vedi?- gli urlò Kalkin.
-Si!- ora erano chiaramente nel suo campo visivo. Aleksandr rallentò, fino a fermarsi. Il motore diesel del blindato era tutto un borbottio, ma le scosse si sentivano appena al posto di guida.
Quando Molokin e Baranov furono a bordo, Emilenkoripartì a tutto gas.
-Siete un branco di idioti senza cervello!- sbottò lo staršina, mentre controllava una carta. Guardò Kalkin, poi Aleksandrev: -Non so chi sia più cretino- disse: -E sto parlando anche con te, Sašenka Antonovic!- urlò nel comunicatore: -Non mi frega se tuo padre è un pezzo grosso del Partito, non mi frega se paga le sue quote regolare come un orologio svizzero. Da quando è morto il sergente, sei sotto il mio comando e in più sei il pilota di questo cavolo di aggeggio, perciò quando ti chiamo, devi scattare!
Toto abbaiò.
-E non so perché tollero questo cane!- disse Baranov.
Dal posto di guida, Aleksandr sganciò elmetto e maschera antigas. Era poco più di un ragazzo, coi tratti russi addolciti da un fascino quasi muliebre, uno che non si poteva immaginare vestito in mimetica, alla guida dei blindati da guerra. Emilenko aveva ereditato la bocca carnosa dal padre e sempre dal padre il naso dritto, sottile. Di Marina Emilenko erano gli occhi blu a mandorla e gli zigomi alti; sempre suoi, i capelli biondi, sottili e lisci.
Tanto più bello era Aleksandr e tanto più lo odiavano i superiori. L’addestramento del coscritto doveva esser sofferenza e i meno adatti a soffrire erano proprio quelli come lui. Senza neanche un muscolo sul corpo, col viso da efebo, Saša sarebbe stato facile preda dei sergenti o dei podpraporšcik: questo senza l’occhio vigile del padre. Anton Yurevic aveva fatto fuori lui più sottufficiali che i ribelli afgani durante la guerra. Chi toccava il figlio era destinato a qualche incarico orribile nei punti caldi dell’Unione o a pulire i gabinetti di questo o quell’apparatcik moscovita. Così il giovane Emilenko era doppiamente odiato: bello e intoccabile.
Tutto ciò a Baranov non faceva né caldo, né freddo. Fintantoché il ragazzo avesse seguito i suoi ordini alla lettera e avesse guidato il bmp in maniera impeccabile, allora andava tutto bene, ma quando (come allora) Aleksandr si fosse comportato da stupido, mettendo in pericolo la vita dei compagni, beh… Baranov aveva in mente proprio una bella punizione.
-Dirigiti verso il porto- disse, consultando la mappa.
In mesi di lavoro avevano bonificato tutta la zona sud e parte della zona centrale, l’est al contrario era vergine. Chissà quanti ne troveremo di quei cosi, pensò Baranov, guardando le zone cerchiate in rosso sulla cartina.
-Compagno dottore- lo staršina si fece una risata dietro la maschera, guardando Molokin: -Prepariamo le collane all’aglio- disse.
-Il “prepariamo” vuol dire che devo farle io, giusto?
-Perspicace, compagno!
Paša sbuffò, quindi si tolse la maschera. Non sapeva perché diavolo le portassero. Vecchie come il cucco, non li avrebbero protetti neanche per scherzo da un livello di radiazioni fuori-guardia. Il vero compagno medico, un tenente che l’Accademia Kirov l’aveva fatta, sosteneva che quell’equipaggiamento fosse indispensabile nella Zona.
Molokin prese dallo zaino dei bulbi bianco-rosati, che divise a metà, in tanti spicchi. Con un chiodo iniziò a bucarne uno, poi un secondo e un terzo. Quand’ebbe finito, fece passare nei pertugi del filo di ferro, creando una sorta di collana.
Ne aveva costruite due e stava facendo la terza, che Baranov lo bloccò: -Queste basteranno, compagno- disse.
-Prego?
-Ho detto che basteranno. Oggi i compagni Emilenko e Kalkin si sentono coraggiosi e andranno senza.
-Ammesso poi che faccia qualcosa, l’aglio- commentò Pavel.
-Ah, compagno medico, senza la collana anche tu?- disse Baranov: -Preferisci darla qui a Toto?
Paša fece un’alzata di spalle: -Devo solo farla più piccola.
Emilenko intanto aveva oltrepassato la zona del centro e si dirigeva a tutta birra verso il cinema Prometeo.
Saša pensò al gigante dei miti greci, colui che aveva regalato il fuoco agli uomini. Cos’era dunque il fuoco? Tepore, conforto, vita?
Gli venne in mente un verso delle fabulæ di Igino: “Homines antea ab immortalibus ignem petebant neque in perpetuum servare sciebant; quod postea Prometheus in ferula detulit in terras, hominibusque monstravit quomodo cinere obrutum servarent. Ob hanc rem Mercurius Iovis iussu deligavit eum in monte Caucaso ad saxum clavis ferreis et aquilam apposuit, quae cor eius exesset; quantum die ederat, tantum nocte crescebat” ovvero: “Prima gli uomini chiedevano agli dei il fuoco e non sapevano conservarlo in eterno; poi Prometeo lo portò su un bastone per le terre e mostrò agli uomini come conservare la cenere seppellita. Per questo fatto Mercurio, per ordine di Giove, lo legò ad un sasso sul monte Caucaso con un chiodo di ferro e collocò un’aquila che gli divorasse il cuore; quanto la bestia ogni giorno divorava, tanto ricresceva la notte”.
-Ferma!- ordinò Baranov, sporgendosi dalla torretta: -Si comincia da qui.
L’efreitor obbedì, quindi fece scendere la squadra.
-Controllo munizioni- disse lo staršina: -E mi raccomando, una pallottola a testa.
-Così non storpiamo i corpi degli eroi sovietici- intervenne Pavel, alzando gli occhi al cielo.
-Giusto, compagno!
Si poteva dire tutto di Baranov, ma non che fosse vigliacco. Nelle pattuglie da liquidatore, era sempre in prima linea. Entrava sicuro nei palazzi infestati, uscendone ogni volta con qualche mostro in più nel carniere.
Gli altri sospettavano che fosse più che coraggioso, si diceva fosse matto. Quel che pochi sapevano, era la passione per l’uomo della caccia notturna. Alcuni mesi prima, in estate, s’era fatto organizzare un piccolo convoglio ferroviario, pieno di armi e munizioni. Il veicolo (un enorme camion con vagone rosso ruggine al seguito) era partito dalla stazione di Slavutyc, fermandosi al limitare della Zona. Da lì Baranov era sceso e aveva dato inizio alla caccia.
Quella volta, ebbe conferma di una cosa interessante. Si diceva da un po’ negli ambienti del battaglione, che i mostri di Pripyat non riuscissero ad oltrepassarne i confini. Era un fatto strano, se si pensa che, come gli uomini, potevano arrampicarsi o saltare. L’infezione, qualunque cosa fosse, non ne aveva ridotto la mobilità. Certo, era un problema per loro impugnare bene un bastone o ancor più utilizzare i fucili, ma quanto a correre o saltare… ci riuscivano benissimo.
Era al crepuscolo. Baranov camminava verso il divisorio di cemento, stracarico di armi, quando uno di loro si lanciò fuori. Correndo verso di lui, d’un tratto inciampò come su qualcosa di invisibile. Cadde e rimase lì ad ansimare. Baranov si avvicinò, lentamente. L’uomo aveva l’uniforme da milizioniere ed il viso familiare. La bocca aperta, cercava di ingoiare il più piccolo refolo d’aria.
A Baranov sembrò un pesce fuor d’acqua. Si contorceva, boccheggiava, poi morì con gli occhi giallognoli spalancati verso una luce che non vedevano.
Che gli era successo? Lo staršina non aveva fatto in tempo a sparargli, eppure… era inciampato su cosa? Prima che calasse totalmente il buio, Baranov aveva ispezionato il luogo dell’incidente. Non c’erano radici in rilievo, ne buche, ne altro. Il milizioniere era morto, nessun dubbio, ma perché? Baranov aveva notato che quei cosi (come spesso li chiamava) erano tecnicamente vivi e ancora (sempre tecnicamente) esseri umani, eppure reagivano all’aglio come i vampiri dei racconti della nonna e non li vedevi uscire alla luce del sole.
Forse avevano un legame speciale con la loro terra; forse, proprio come quelli delle storie, per rigenerarsi dovevano riposare in luoghi particolari.
Ma perché, sapendolo (gli infetti non erano proprio stupidi) quel milizioniere aveva superato le barriere fino in terra “consacrata”?
Nella sua mente da guerriero contadino, Baranov si fece un quadro semplice, semplice. Come l’uomo, anche l’infetto imparava dall’esperienza. Se la mutazione sconvolgeva il cervello, portandolo ad uno stadio primitivo e facendolo ripartire da zero, col tempo e con gli errori, quel cervello re-imparava alcune cose (basilari, certo). La sua ipotesi venne avvalorata quando chiese notizie del milizioniere. Si scoprì che Aleksandr Volodimirevic Ludovicenko, mancava dalla sua unità da appena tre giorni. Forse si era spinto in un’esplorazione non autorizzata della Zona dopo il crepuscolo ed era stato attaccato. Sicuramente, come infetto, era un pivello e non conosceva tutte le potenzialità e i limiti del proprio status. Vedendo Baranov, spinto dalla rabbia, s’era lanciato a tutta birra oltre il muro di cemento, poi era morto, come per asfissia.
Lo staršina, che non voleva render noto della sua passione per le cacce al crepuscolo, aveva detto all’equipe del convoglio di non farne parola con nessuno; poi l’era andato a dire al compagno praporšcik e all’ufficiale medico, ingiungendo di prendersi pure loro il merito della scoperta.
La Sindrome Ludovicenko, come fu ribattezzata, era sulla bocca di tutti già ventiquattrore dopo. Al tramonto, per una settimana, il compagno ufficiale medico e la sua equipe si recarono ai confini della Zona, studiandone gli effetti. Attirato uno o più esemplari fuori dal perimetro, videro che quasi tutti (tranne un giovane liquidatore) tendevano a ritornare subito entro i confini di Pripyat. Il liquidatore, attaccato una settimana prima dagli altri infetti, morì alla stessa maniera di Ludovicenko. Un eroico cane lupo sovietico era stato messo appena oltre la barriera di cemento per attirare gli infetti. L’animale, una femmina di tre anni della milizia, di nome Laika, era capacissima di saltare il metro e mezzo di cemento per mettersi in salvo, in più, anche se fiutava il pericolo, era relativamente tranquilla. Dall’alto infatti i militari sorvegliavano lei e loro.
I primi esemplari avvistati ebbero una reazione guardinga. Sembravano animali che fiutino il boccone avvelenato senza accostarsi troppo. Non vedevano gli uomini, ma sentivano nell’aria il pericolo.
L’ultimo esemplare, un giovane efreitor corse a rotta di collo per afferrare Laika, che nel frattempo abbaiava, accosta al muro. Quando fu troppo vicino, la cagna si lanciò al di là della barriera: così fece l’infetto, arrampicandosi e saltando. Due, tre passi, poi cadde soffocato.
Sembrava mancargli l’aria.
L’ufficiale medico fece una scalata di ufficiali superiori sino a presentare gli esiti del test al podpolkovnik, il comandante di battaglione. Persuaso dall’ufficiale, il compagno comandante autorizzò la sospensione dei lavori per la costruzione di una barriera isolante Pripyat, barriera del costo di milioni di rubli, intascando così (qualcuno disse) i fondi già stanziati dall’Amministrazione Centrale. In cambio, intensificò la sorveglianza ai margini della Zona, sostituendo laddove possibile, il personale di polizia ucraino con militari. Gli ucraini infatti erano restii ad uccidere le orde infette; per quanto ne sapeva Sotnikov i vampiri s’erano in qualche modo generati dai cinquecento abitanti rimasti nella Zona.
Oltre ad essere il primo (ufficiale almeno) scopritore della Sindrome Ludovicenko, il compagno tenente Sotnikov, era stato l’inventore dell’appellativo infetti, per la mostruosa razza della Zona. Per i burocrati del GRU, il Direttorato Principale per l’Informazione, che dirigevano la campagna segreta di sterminio, Sotnikov era stato una manna dal cielo. Come altrimenti, un regime che professava l’ateismo, ponendo sull’altare il Partito, avrebbe potuto sopravvivere a quelli che sembravano veri vampiri? Come avrebbe, il segretario generale, spiegato l’esistenza di mostri che vanno a caccia di sangue? Ma con la parola infetti, naturalmente! Gli apparatcik del Direttorato avevano fatto redigere a Sotnikov un documento che provava i mostri essere null’altro che persone infettate da agenti patogeni ignoti. Sotnikov però avrebbe tanto voluto metter le mani su un esemplare vivo, per studiarlo con calma in laboratorio.
C’erano ancora da spiegare il ribrezzo per l’aglio ed il fatto che non uscissero alla luce del sole. Il compagno Sotnikov (che dopo la scoperta della Sindrome Ludovicenko era stato promosso ad ufficiale medico capo) non disperava. Con la parola infetti, col considerarli umani ammalati, aveva fornito le armi alla Rodina per sopravvivere un altro giorno.
Baranov schiacciò frammenti di vetro, entrando nel cinema da conquistatore.
-Eccoli qua- disse lo staršina, sbuffando: -Che branco di deficienti!- avanzò nella platea guardando gli infetti che vi riposavano. Seduti, rigidi come legno, gli occhi chiusi e le labbra tirate.
Il sole sfolgorava da un titanico buco nel tetto, costringendo i vampiri a rifugiarsi nell’angolo più lontano dallo schermo. Tutti lì, in attesa che lo staršina li ammazzasse.
Emilenko impallidì, poi prese a zampettare da un vampiro all’altro come un passero irrequieto. Baranov gli diede uno sguardo inequivocabile.
-Faccio da solo- annunciò, mettendosi l’ak47 a tracolla e tirando fuori la pistola: -Un colpo in testa, come nelle migliori esecuzioni- disse.
Sparò al primo, producendo un tal fracasso che Toto si mise ad abbaiare.
-Fa’ star zitto quel cane!- ruggì Baranov. Uno degli infetti, destato probabilmente dal terrier, aprì gli occhi e afferrò il polso dello staršina. Baranov si liberò dalla stretta e fece fuoco.
-Saša, fa’ stare zitto il cane!- disse, mentre due infetti cercavano di alzarsi dalle sedie. Baranov sparò, quindi prese il fucile e diede una bella mitragliata. I colpi tirarono una riga dritta, una riga di punti che si sarebbero potuti unire come quelli delle parole crociate.
Una donna uscì dalla sala proiezione, evitando accuratamente il fascio di luce solare. Baranov la freddò, poi incedette a grandi falcate verso Aleksandr: -Portalo fuori- disse, indicando Toto.
-Posso controllare la donna- replicò l’efreitor con un groppo in gola.
Baranov si accigliò. Ma che diavolo gli prendeva a quel ragazzo? Era strano, certo; l’aveva beccato più volte a scribacchiare qualcosa su un blocnotes e a guardare la mappa della regione, ma mai avrebbe pensato un suo interesse per…
-Che sei, necrofilo?
-Io, no.
-Allora porta fuori il cane!
-Vorrei, signore, ma mi seguirebbe ovunque.
-E allora stacci pure tu, fuori- la voce dello staršina era un sibilo: -Tanto non servi a un cazzo.
-Sissignore- Aleksandr uscì, col capo chino.
Inesorabile, metodico, senza l’abbaiare di Toto, Baranov ripulì il Prometeo in men che non si dica, svuotando ben due caricatori di pistola. Con gli ultimi due, un vecchio e una donna, volle provare un esperimento. Li mise vicini e sparò una sola pallottola.
Kostya chiuse gli occhi. Molokin, più coraggioso, dette voce ai pensieri suoi e dell’altro: -Le sembra necessario, compagno?- domandò.
La faccia dello staršina si girò dietro la maschera: -Necessario, cosa?
Molokin allungò la mano verso i cadaveri: -Non sono bestie.
-Ah no?- Baranov mise la sicura alla pistola, quindi imbracciò l’ak47: -Sono uomini normali? Gente come noi? Allora perché non rimane qui stasera a bere vodka e borš con loro? Vediamo se gliene offrono, eh?
Molokin non rispose.
-Qui non stiamo assassinando la gente, qui ripuliamo la zona prima che i “cosi” si moltiplichino troppo e ci facciano la pelle, perché se la Sindrome del cazzo viene meno, siamo tutti fottuti, mio caro compagno, fottuti e ora muoviamoci!
Uscirono, montando di nuovo sul blindato. Qualche istante dopo erano di fianco al caffé Pripyat, sulle rive di un piccolo fiume.
Il fuoco di Prometeo per gli abitanti del villaggio era stato morte, privazione, fuga.
Baranov diede l’ordine di smontare: -E chiudi dentro quel cane!- sibilò a Aleksandr. L’efreitor annuì. Toto comunque non era dello stesso avviso. Scodinzolando, cominciò ad abbaiare, quindi fece un balzo dai portelloni del blindato e si mise ad annusare il terreno.
Baranov guardava Aleksandr con impazienza. Non solo avevano una missione difficile, ora ci si metteva anche uno stupido cane!
Kostya intanto si batteva la mano sulle ginocchia, per far avvicinare Toto. Paša invece, controllava e ricontrollava i millirem sul dosimetro.
Alla fine fu Baranov a prendere il cane. Ci si gettò addosso con tutto il corpo, spaventandolo. Un istante dopo, lo sollevava per la collottola e lo scaraventava nel vano dell’bmp: -E ora chiudete i portelli!
Aleksandr e Kalkin obbedirono. Baranov annuì, poi si tolse lo zaino e ci armeggiò dentro. Solo allora, i compagni di squadra videro che lo staršina sanguinava. Toto gli aveva morso la mano destra.
Baranov prese una fiaschetta di metallo, piena di vodka; tolto il tappo coi denti, ne versò un goccio sulla ferita, quindi tagliò un pezzo di garza sterile da un rotolo e lo avvolse alla mano.
Il cane continuava ad abbaiare; d’un tratto, cercò di aprire le feritoie per i fucilieri, senza riuscirvi.
-Andiamo- disse lo staršina.
Aleksandr indossò la maschera antigas e si accinse a seguire i compagni, poi deviò bruscamente verso un’auto parcheggiata. Ce n’erano molte a Pripyat, alcune in buone condizioni. Quando il villaggio era stato evacuato, le autorità avevano detto agli abitanti che sarebbero stati via solo tre settimane. Non tornarono più. Pripyat così rifletteva la vita sospesa della sua popolazione. C’erano auto ferme accanto al marciapiede, case piene di cibo (andato a male) di medicinali, di libri…
Mentre Baranov non dava alcuna importanza agli oggetti di Pripyat, essi costituivano un boccone appetitoso per il giovane Aleksandr. Aveva cercato in più d’una automobile per trovare musicassette di canzoni salsa (per cui aveva una passione sfrenata) e in più d’un appartamento nella speranza di impadronirsi d’un buon libro, magari messo all’indice dal Partito.
La lada davanti al caffé a tutta prima non gli diceva nulla. Innanzitutto era stata chiusa a chiave dal proprietario, poi non aveva la radio. Aleksandr appoggiò la faccia al lunotto e quasi urlò per la sorpresa. Sul sedile posteriore infatti, giaceva un enorme orso di peluche, di quelli che si vincono alle fiere o al luna-park.
-Muoversi, compagno!- disse Baranov, mentre vacava la soglia della caffetteria. L’edificio era peggio ridotto del cinema: un vero e proprio rudere di acciaio e cemento, una specie di budino grigio pronto al collasso ad ogni minima vibrazione.
Aleksandr intanto, era sempre accosto alla lada. Guardava l’orsacchiotto con desiderio morboso e più d’una volta fu lì per premere il grilletto e far saltare il vetro. Alla fine, sconsolato, s’inoltrò nella giungla di rampicanti e alberi, verso il molo.
Poco dopo era vicino ad un distributore automatico di kvas, tutto arrugginito. Il Pripyat non era distante, ma il suo punto di osservazione era coperto da alti cespugli.
Aleksandr riprese a camminare. Amava l’ordine caotico del villaggio, e gli alberi cresciuti enormi, senza controllo. Amava il frusciare dell’erba ed il suo piegarsi sotto gli anfibi. Amava che insomma, Pripyat si fosse (in un certo senso) liberata dell’uomo.
In qualche pattuglia gli era capitato di vedere una volpe o addirittura di sentire l’ululato dei lupi. Lentamente la città sarebbe tornata a vivere, lentamente il terreno si sarebbe pulito e con esso il cielo e le piante. Alcuni arbusti di Pripyat avevano un bel colore rosso, per non parlare dei funghi, così grandi, colorati… così letali.
Molti alberi erano stati abbattuti e interrati quattro anni prima, all’epoca del disastro, ciononostante ne rimanevano di belli, con le chiome scarlatte per le polveri radioattive.
Senza fretta, Aleksandr andò al molo, una struttura di ferro, mezzo annegata nell’acqua e nascosta dalla vegetazione.
Rimase in ascolto. Non c’era rumore, niente, neanche il cinguettio di un uccello o lo stormire delle fronde al vento. Il posto sembrava congelato, bloccato nel tempo.
Aleksandr si appoggiò al parapetto di ferro, poi tolse la maschera e diede un bel respiro. Rammentò i mesi precedenti e l’assegnazione al battaglione chimico. Allora Baranov, che considerava la propria nemesi, lo aveva visto poco. Era raro che uno staršina comandasse la squadra, di solito il ruolo era svolto dai mladši serjant o rare volte dai sergenti veri e propri. Aleksandr, giunto a Slavutyc con la promozione ad efreitor, aveva capito subito che fra i nuovi compagni, c’era qualcosa di strano, un segreto, un incubo che passava a fior di labbra.
Si tratta di un lavoro di recupero, gli avevano detto. La sua, come altre squadre del 616esimo, avrebbero dovuto collaborare alla decontaminazione dell’edificio e del sito del reattore quattro, delle strade e alla manutenzione del sarcofago per contenere il reattore. E invece il mladši serjant Kracenko lo aveva riempito di munizioni e di bombe sino al limite della buffetteria, quindi aveva visto il suo diploma di guida sui bmp-2, schiaffandolo al blindato del plotone.
Vadim Kracenko era scomparso due mesi dopo l’arrivo di Aleksandr, in piena pattuglia. Non avevano voluto dirgli nulla; si erano limitati a guardarlo con aria grave e poi giù a bere vodka.
Tre mesi dall’arrivo e Aleksandr non aveva oltrepassato l’uscio della Zona. I comandanti, nessuno escluso, trovavano sempre un motivo per lasciarlo a Slavutyc; una volta, perfino il podpolkovnik arrivò a chiedere di mostrargli qualche passo di salsa. Aleksandr intuiva ci fosse lo zampino del padre. Era frustrato: non poteva svolgere il regolare servizio di liquidatore come i compagni (che lo guardavano sempre peggio dopo ogni pattuglia) non poteva far nulla per la Rodina. Ad ogni buon conto, passava il tempo al circolo ufficiali, insegnando a rozzi colcosiani l’arte del ballo dei compagni socialisti di Cuba o chiuso nella sua baracca, leggeva libri non precisamente sovietici.
Aleksandr stava già abituandosi a quella musica, quando Bondar scomparve e Baranov prese il comando della squadra.
Sapendo che il figlio versava in uno stato di apatia e solitudine, Anton Emilenko fece si che un conoscente d’infanzia di Saša, venisse distaccato dal suo battaglione e messo nel 616esimo. Se da un lato, Aleksandr fu straordinariamente felice di vedere Kostya Kalkin comparire a Slavutyc con la prima tradotta del giorno, dall’altro si ritrovò le zanne di Baranov a un centimetro dal collo.
Lo staršina, che voleva tutti uguali e non si curava di chi fosse il figlio l’efreitor, insistette presso i superiori che Emilenko partecipasse alle pattuglie o che gli dessero un altro uomo. Tutto in uno dei rari momenti di debolezza politica di Anton Aleksandrev, che fu costretto a cedere. Saša si ritrovò in pattuglia prima di capire cosa fosse accaduto tra i papaveri della nomenclatura.
Guidare un bmp-2 non gli dispiaceva affatto. Giù al centro addestramento era stato il primo del corso e faceva fare a quelle scatolette manovre incredibili. Con Kalkin in qualità di mitragliere poi, la squadra dello staršina Baranov si rivelò perfetta. Pilota e mitragliere si conoscevano, si stimavano e in caso di pericolo, avrebbero più facilmente protetto l’altro. Baranov doveva solo dargli un po’ di disciplina per evitare che combinassero guai. Infondo, erano poco più che ragazzi e anche lui, il figlio delle renne, non si sentiva vecchio a ventitre anni.
Aleksandr riaprì gli occhi. Ma che diavolo gli era successo? Doveva essersi appisolato sul molo. Aveva sognato lei. Camminava vestita di bianco, come un sudario etereo lungo i boschi vermigli di Pripyat.
Guardò la gamba dei pantaloni fradicia d’acqua. Era scivolato lungo il parapetto e sedeva nella pozza. Fece leva sul fucile e si rialzò, quindi tese l’orecchio. Lo stavano chiamando? Guardò in alto: il sole era sempre nella stessa posizione, dunque non doveva essersi appisolato da molto, forse cinque, dieci minuti, sufficienti comunque a far incazzare Baranov se questi aveva già terminato l’ispezione del caffé.
Cercò di strizzare i pantaloni, sperando che non aderissero troppo alle mutande. Aleksandr odiava da matti andare in giro bagnato. Sicuro, al centro addestramento gliene avevano fatte di tutti i colori (nei limiti di quel che si può fare al figlio di un grosso burocrate del Partito) e più volte era finito con l’uniforme fradicia d’acqua o peggio…
Con calma se ne tornò alla caffetteria, fermandosi di tanto in tanto e alzando il fucile. Cazzo se gli davano fastidio i pantaloni! Fece due, tre passi, poi imprecò e mise l’ak47 per terra, quindi slacciò la cintura e abbassò i pantaloni, poi tolse prima un anfibio, indi l’altro, sfilando le gambe dei pantaloni, poi si rimise gli anfibi avendo cura di allacciarli bene. Presi i pantaloni, li strizzò e fece per metterseli in spalla, quindi cambiò idea, legandoli in una sorta di grottesco pendaglio al calcio del fucile. Fece un altro passo e imprecò di nuovo. Aveva dimenticato maschera ed elmetto giù al molo.
Tornò indietro, maledicendosi ad ogni falcata. E se al molo avesse visto uno di quelli? E se per un motivo o per l’altro, fossero usciti alla luce del sole e l’avessero attaccato?
Aleksandr ricordava il mladši serjant Kracenko com’era a Slavutyc e come l’aveva visto dopo, nella Zona. Era stato alla sua prima pattuglia; Baranov li aveva fatti fermare nella zona sudovest, vicino a due autobus arrugginiti e li aveva fatti scendere. Iniziavano così il meticoloso lavoro di bonifica, tracciando ogni volta l’edificio “pulito” con un cerchio rosso sulla mappa dello staršina.
Era pieno pomeriggio e, visitando uno dei palazzoni, lo avevano trovato. Vadim Kracenko sembrava dormire sul pavimento, in posizione fetale. Il petto si alzava e si abbassava velocissimo, mentre le mani e il viso (uniche parti non nascoste dalla mimetica) erano piene di sangue e sporcizia. Kracenko ammorbava l’aria di urina e anzi, dopo che la squadra aveva messo piede nella stanza, tra le gambe del sottufficiale s’era andata allargando un’inequivocabile pozza.
Fino ad allora Aleksandr non sapeva niente degli infetti, ne Baranov o Molokin gliene avevano parlato. Kalkin, all’oscuro anche lui, ma dall’intuito fino, gli disse di stare indietro: -Ho il presentimento che se si sveglia succede un casino- aveva detto.
Baranov, imbracciato il fucile, si era preparato a sparare, quando…
Aleksandr lo ricordava chiaramente e si diede dello stupido per non averci fatto caso prima. Le palpebre e le labbra di Kracenko si erano dischiuse all’abbaiare di un cane (ce n’era qualcuno, randagio, nella Zona). Aleksandr aveva sempre in testa quegli occhi ciechi, quel viso familiare e orribile, stravolto da una pellicola d’odio. Si fermò. Non sarebbe tornato a prendere maschera ed elmetto, d’altronde non credeva servissero a molto contro le radiazioni.
Fece dietrofront verso la caffetteria.
Come al solito fantasticava: l’energia della salsa, il magnetismo del tango o gli eroi dei romanzi gli imbastivano una trama multicolore nel cervello, costringendolo a reazioni passive e preconfezionate col mondo esterno. Era come se avesse la testa altrove. Sempre. Andava bene al circolo ufficiali, forse, ma non nella Zona, con orde di infetti in agguato.
Chiuse gli occhi un attimo. La luce del sole gli dava fastidio. Ricordava Kracenko ed il suo frenetico artigliare e le labbra arricciate. Baranov s’era tolto la maschera e gli aveva sparato un colpo in testa. Gli infetti non morivano in maniera diversa: la scatola cranica del sottufficiale s’era aperta, dopo aver rimbalzato come un pallone.
Emilenko avanzò di un passo, poi di un altro. Ora stava davanti al Pripyat. C’era il blindato, c’era la lada…
Saša sentì l’abbaiare di Toto, un suono ritmico, fastidioso, che rompeva il silenzio. Fece un passo e scivolò. Cadde in un groviglio di rami di salice, poi rotolò giù per qualche metro in un tenue declivio. Si rialzò, imprecando e puntando il fucile tutt’attorno. Aveva le gambe piene di tagli ed escoriazioni e la schiena gli faceva male. Lentamente ritornò sui suoi passi.
-Ancora non sono usciti- disse, meravigliato dal suono della propria voce. Camminò verso l’entrata della caffetteria, poi si arrestò di colpo. La lada… ne aveva controllato gli sportelli…
Barcollando si diresse al baule, quindi lo aprì. La chiusura cedette ed il sistema idraulico fece scattare il portello verso l’alto, lentamente.
Aleksandr spalancò gli occhi: -Oh Cristo Santo…
Dentro, nuda, c’era una donna. Stava in posizione fetale, come Kracenko, ed era sporca di terra, ma bella, perfetta. Le costole si vedevano appena sotto la curva del seno e le guance formavano un arco morbido, quasi da bambino proprio sotto gli occhi chiusi.
Era una di loro, doveva esserlo. Nessuno sarebbe sopravvissuto da solo alla Zona, nessuno per tutti quegli anni. Aleksandr si tenne pronto, mitragliatore in pugno.
Toto riprese ad abbaiare ed il suono, anche se addolcito dal mezzo, raggiunse le orecchie della donna. Aleksandr vide le palpebre di lei tremare, quindi udì una raffica dal Pripyat. Le palpebre tremarono ancora.
Non ti svegliare, pensò. Non ti svegliare. Se lo ripeteva in testa, dolcemente come una nenia e prima di smettere, l’aveva già pronunciato a bassa voce due, tre volte. Come un desiderio inespresso, la voglia di qualcuno o di qualcosa gli rotolò incontrollata fuori dalla gola. Era anche lui un vampiro, ma un vampiro di che? Cosa voleva, che cercava nei libri, nel ballo, nella solitudine?
Cercava lei, lei… ecco cosa.
-Non ti svegliare.
Si udì un’altra raffica.
-Non ti svegliare.
L’urlo, l’imprecazione di Baranov, poi più niente.
Lo staršina e gli altri fluirono dal Pripyat in un turbine di grugniti e imprecazioni. Baranov aveva la mimetica sporca di sangue e, con la mano buona, reggeva la makarov d’ordinanza. Non indossava la maschera, esponendo i suoi occhi verdi, col taglio da bestia predatrice, ed il naso dritto come una spada.
Mormorava qualcosa a fior di labbra, quando gli occhi si posarono sull’efreitor. Baranov rimase lì, tra il divertito, l’incazzato e il perplesso, a guardare Aleksandr fissarlo di rimando.
Dalla sua posizione, lo staršina vedeva l’auto girata a tre quarti; il baule aperto nascondeva bacino e tronco di Saša, lasciando scoperte le gambe, gli anfibi slacciati e l’ak47 con una specie di coda di scimmia sul calcio. L’elmetto non c’era più e così la maschera, mentre i capelli del ragazzo sembravano scompigliati come dopo un focoso atto sessuale.
-Che mi venga un colpo!- ringhiò Baranov: -Hai messo l’uccello nel baule della macchina, compagno?
Saša non rispose, ma s’incamminò verso la truppa.
-Almeno le mutande le hai indosso- commentò Baranov. L’altro annuì. Fu una scena surreale con l’efreitor seminudo che avanzava, ak47 in pugno, lo staršina dalla faccia divertita ed il cagnolino che abbaiava come un pazzo, intrappolato nel bmp.
-Mi sono addormentato, compagni- disse Saša, avanzando di un passo: -Ero lì al porto e, devo essere scivolato lungo il parapetto… un colpo di sonno improvviso, compagni.
Vide gli occhi di Baranov spalancarsi e puntare poco sopra la sua spalla. Toto continuava il suo richiamo. Aleksandr si girò.
La donna era in piedi, vicino all’auto. Le braccia dal grembo, si stavano spostando verso l’alto, come i rami di un grande albero e la bocca era aperta, con un rossetto di sangue, mentre le narici fremevano piano. Gli occhi rotearono ciechi, poi lei si girò verso il latrato del cane.
Aleksandr non riusciva a distogliere lo sguardo. Se ne stava lì, inebetito col fucile lungo il fianco.
La donna cercò di camminare verso il blindato, ma non appena messa una mano fuori dall’area d’ombra, la ritirò subito con un ringhio. Era furiosa e aveva le gengive scoperte. Aleksandr fece un passo verso di lei. La donna si rannicchiò contro il baule dell’auto, senza dar alcun segno d’essersi accorta di lui.
Kalkin puntò l’ak47 verso Saša e l’infetta. Distoglieva continuamente lo sguardo, imprecando fra sé e sé.
-Fermo- sussurrò Baranov. Kostya lo guardò per un lungo attimo. Baranov annuì, come per dire “è tutto a posto”, quindi fece cenno di abbassare le armi. Aveva la pistola in mano e avanzava lento verso Aleksandr. A metà strada, lo staršina tese la mano al suo uomo, flettendo le dita con piccoli gesti.
La donna, intanto, s’era quasi del tutto messa nel baule e, afferrata la maniglia interna, procedeva a chiuderlo.
-Vieni via- sussurrò Baranov: -Vieni via- disse. Saša pareva non ascoltarlo, era come mesmerizzato dall’infetta: le guardava i seni, le mani, le dita lunghe, i denti sporchi di sangue. Allungò la mano e fece per sfiorarla; un gesto lento, che sapeva di fine.
-Vieni via…
Aleksandr ristette. La mano era di nuovo lungo il fianco; la donna richiuse il baule.
Baranov afferrò il soldato per il collo, quindi schiacciò il viso da efebo contro il suo. Gli occhi dello staršina scrutavano Saša, come se cercassero di penetrargli nella scatola cranica, guardando il cervello. Aleksandr fu spinto brutalmente, quindi Baranov puntò il mitragliatore sulla lamiera del baule.
-No! Compagno!- Molokin fece un passo avanti, liberandosi della maschera: -Compagno staršina!
Baranov si girò, poi rise: -Compagno ufficiale medico… ?
-Il capitano Sotnikov pagherebbe… pagherebbe…
-Sangue?- intervenne Kostya. Molokin sorrise: -Eh… si, pagherebbe sangue per avere quella donna.
-Io non porto la stronza a Slavutyc- replicò lo staršina.
-È il primo esemplare vivo che abbiamo- fece Molokin.
-E la Sindrome Ludovicenko?- sbottò Kalkin: -Quella non ci arriva alla base.
-Dobbiamo farle un prelievo qui.
-Ma sei scemo?- disse Kostya a Molokin. Baranov intanto, si mordeva le labbra: -E va bene- imprecò, quindi mise mano alla radio, ma ristette: -Niente da fare, non funziona.
Gli altri ascoltarono le scariche del circuito militare.
-Dobbiamo portarla ai margini- fece lo staršina.
-Avanti, leghiamo questa macchina in qualche modo- disse: -E cerchiamo di bloccare il portellone del baule- poi guardò Aleksandr: -Tu, mettiti quei cazzo di pantaloni.
Kostya Kalkin, fucile a tracolla, armeggiava con la robusta corda di nylon fornita alla squadra. Pensò con inquietudine alla casa paterna, vicino alla fermata Belorusskaya sulla Zamoskvoretskaya. Pensò al casermone dov’era cresciuto e alle foto del Mare Nero viste in casa di un cugino. Gli sarebbe tanto piaciuto andarci! Quanto mancava alla fine del servizio militare? Non potevano mica trattenerlo in quel battaglione per sempre!
Imprecò, riflettendo sulla perestroika, sulla politica di trasparenza adottata dal compagno segretario generale, sulle opinioni della gente, che ormai si facevano sentire.
Come stava bene al vecchio battaglione! Ancora una volta, imprecò per rimediare un’occhiataccia da Baranov.
Certo, era bello rivedere Saša e quasi inverosimile farci assieme il servizio militare. E morirci assieme, magari divorati da un’orda di vampiri, sarebbe stato bello?
-Ho finito, compagno- disse, dando un colpetto con l’indice alla lamiera del baule. Baranov annuì, poi terminò di stringere il nodo al parafango della lada.
-Avanti pasticcino- disse lo staršina, puntando il dito su Aleksandr: -Dai gas, ma piano.
Saša annuì. Era frustrato. Baranov lo chiamava spesso con quel nomignolo davanti ai compagni per sottolinearne l’incompetenza, l’inettitudine. Aleksandr era per lo staršina un pasticcino, un bimbo piccolo e frignone, assolutamente fuori luogo in campagne militari.
I pantaloni nuovamente indosso, Saša s’arrampicò sul bmp-2, ingranò la marcia e spinse piano l’acceleratore. Il cingolato stridette e avanzò, sotto gli occhi vigili di Baranov. Il cavo di nylon si tese, il parafango tenne e la lada ebbe un sussulto in avanti. Dal baule si sentirono lievi scosse, ma niente più. Almeno il proprietario l’aveva messa in folle.
-Avanti!- lo staršina si sedette sul cofano dell’auto, pronto a intercettare qualsiasi minaccia. Kostya era nella sua posizione di cannoniere, mentre Paša Molokin stava sul tettuccio del bmp, rimuginando sulla donna e su cosa avrebbe significato per la ricerca medica.
Saša si portò verso sud, evitando di far prendere troppi scossoni alla macchina, quindi accelerò una volta sulla strada asfaltata.
Baranov spazzava l’orizzonte con il mitragliatore. Non gli era piaciuto dover interrompere la missione così presto e tutto per quella stronza di vampira. Sentiva un’incredibile rabbia crescergli dentro; rabbia contro l’esercito, che gli dava coscritti inutili, rabbia contro gli infetti, rabbia contro la durezza dei sovchoz… si sentiva stanco; chiuse gli occhi un attimo, per riaprirli subito dopo.
Non che odiasse Saša, ma quel ragazzo era cresciuto nel modo sbagliato. Da quando Baranov aveva messo piede a Mosca, non si faceva che parlare di Anton Emilenko e della sua attività di commissario per le fabbriche d’armamenti. Il padre di Saša teneva le forniture militari per le palle e alcuni dicessero che fosse ad un soffio dal diventare maresciallo dell’Unione Sovietica. Glasnost, l’odiata politica di trasparenza, gli stava mettendo i bastoni fra le ruote, un bene: chi si credeva di essere quel direttore di fabbrica? Voleva fare una scalata alla nomenclatura? Voleva diventare il prossimo Soviet Supremo?
L’auto sobbalzò su una buca e dal baule si udì un forte colpo. Quella maledetta, pensò Baranov. L’avrebbe ammazzata, le avrebbe aperto la testa con una 7,62 cazzo!
Intanto, il bmp rallentò. Erano nei pressi della barriera più vicina: una cancellata piena di ruggine col simbolo Stop inchiodato sopra.
-Fermi qui!- disse Baranov a Kostya. L’efreitor fu lesto a ripetere l’ordine nel compartimento guida. Dopo qualche secondo, il cingolato si fermò.
Baranov scese, si sgranchì le gambe, quindi provò la radio; c’erano meno scariche: -Qui Baranov- disse: -Rispondete.
Scariche.
-Ti riceviamo compagno.
Lo staršina grugnì di soddisfazione: -Prendete un elicottero, metteteci sopra il compagno ufficiale medico Sotnikov e una siringa per prelievi, poi spediteli qui all’istante!
Poteva sembrar facile, la situazione: si prende la siringa, si prende il medico, si prende l’elicottero… Baranov aveva fatto i conti però senza l’oste della burocrazia sovietica.
La siringa in questione doveva venir fatta uscire dal dipartimento sanitario militare di Slavutyc senza che ciò giungesse alle orecchie del comandante di battaglione che non aveva ancora autorizzato il prelievo di niente su nessuno, tanto-meno un vampiro. Per fare uscire la siringa ci voleva un modulo specifico con timbro e firma dell’ufficiale sanitario, più controfirma dello zampolit (il commissario politico) preposto alla sezione medica. Oltre alla siringa, per svolgere un semplice emocromo sul posto e all’ombra (viste le sospette proprietà del sangue vampiro alla luce) il compagno Sotnikov aveva bisogno di una provetta di tipo specifico, un dispensatore di reagenti, una micro pipetta per trasferire il liquido da un contenitore all’altro, una centrifuga portatile e magari un piccolo incubatore.
Per tutte quelle cose avrebbe dovuto compilare un modulo separato (uno per ciascuna) con suddetta controfirma dello zampolit. Ora, l’uomo in questione aveva tra i suoi doveri quello di riferire al comandante di battaglione (e nel contempo, controllarne la fedeltà verso il Partito) la prima cosa che avrebbe fatto dunque, sarebbe stato il presentare i sei moduli in triplice copia al podpolkovnik; questi avrebbe notato la richiesta di fuoriuscita di materiale medico dalla base, con conseguente domanda di rito all’ufficiale medico capo.
Sotnikov aveva una bella gatta da pelare. Corrompere lo zampolit? Neanche a parlarne. Lev Fedorovic Nikitin aveva un passato nelle forze speciali del ministero dell’interno, i temutissimi Omon, il cui motto “noi non conosciamo pietà e non ne chiediamo” la diceva lunga sulla loro attitudine. Più semplice sarebbe stato tentare col podpolkovnik. Sotnikov era a conoscenza del ricatto operato dal capitano Pavlov della terza compagnia nei confronti del superiore a causa di certi fondi stanziati dall’Amministrazione Centrale per la barriera di contenimento in una parte della Zona di Alienazione.
Sotnikov si decise su due piedi; mandò a chiamare Pavlov da un attendente e lo ricevette nel suo studio di rappresentanza (che usava solo nelle occasioni speciali e aveva cura di tenere chiuso a chiave). Sapeva che un gran tavolo da riunioni e la vista di scaffali pieni di coste (i libri in verità non c’erano) avrebbero impressionato l’ex operaio di fabbrica della Ciuvašja, convincendolo ad includere la fornitura sanitaria per il prelievo come moneta di scambio. Pavlov esattamente era nato a Ceboksary, sul Volga, che inglobava l’antico villaggio di Budayka, patria del capitano Ciapayev. Del prode condivideva anche il nome, ma se Vassily Ciapayev aveva ispirato il folclore sovietico per la sua rettitudine e per il coraggio, ben diverse erano le virtù di Pavlov. Si diceva fosse coinvolto in ogni sorta di traffico illegale nell’esercito e che, per il giusto prezzo, riuscisse a procurare qualsiasi cosa a qualsiasi offerente. Il compagno ufficiale medico lo sapeva bene: non gliel’aveva procurato il capitano quel bellissimo samovar per le occasioni speciali? E non aveva domandato al capitano quando a Slavutyc cominciava a scarseggiare la carta-igienica?
Pavlov si presentò puntuale con la piatta sottobraccio ed il naso dritto verso l’ufficiale medico. Era magro, piccolo, con spalle larghe da nuotatore. Il cranio sembrava perfettamente tondo, con due occhietti vispi e azzurri appena sotto la linea frontale, divisi da un naso minuscolo, all’insù.
-Compagno ufficiale medico- salutò, increspando le labbra in un sorriso. Non era sorpreso dalla chiamata di Sotnikov, lo staršina Baranov infatti dipendeva dalla compagnia del capitano e dal plotone del tenente Konstantinov il quale Griša Konstantinov, retto e pieno di coraggio come il nuovo uomo sovietico, aveva subito trasferito la chiamata al proprio superiore. Probabilmente, se Griša fosse stato più furbo e meno Uomo Nuovo Sovietico, avrebbe scavalcato Pavlov e mandato lui un elicottero e sempre lui un paramedico qualsiasi del battaglione a tempo di record. Adesso invece l’operazione di recupero sarebbe diventata una specie di baratto, un mercanteggiare fra ufficiali sovietici a colpi di samovar e coste di libri leninisti.
-Ufficiale medico capo- fece notare Sotnikov: -Mi hanno recentemente promosso- continuò, facendo segno alle stellette da capitano.
-Venga compagno, si sieda- l’ufficiale medico fece un ampio gesto verso la poltrona davanti al tavolo, quindi tirò fuori una bottiglia di stolicnaja da un cassetto chiuso a chiave.
Pavlov intese e afferrò uno dei bicchieri che gli passava l’altro. Uno a zero per te, pensò. Hai mostrato la tua grandezza in questo gesto di finta magnanimità. Ti sei voluto presentare come il grande ufficiale, più grande di Pavlov.
Si toccò il naso, come faceva sempre prima delle battaglie. Pavlov era stato sottufficiale carrista in Afghanistan; lui ed il suo t-72 avevano ammazzato più mullah che l’intero esercito sovietico.
-Allora, compagno- disse, dipingendosi il volto in un gioviale sorriso: -Come andiamo di corpo? Bene? La usa sempre la mia carta-igienica?
Sotnikov per poco non inghiottì la sigaretta che stava fumando.
-È proprio di questo che le volevo parlare…- la boria dell’ufficiale medico sembrava scomparsa; trangugiò la vodka in un sorso, quindi ne verso dell’altra: -Si… ecco…
-Ne vuole ancora?- domandò Pavlov.
-Che cosa?
-Carta-igienica, compagno!- ruggì il capitano con un gran sorriso: -Carta-igienica!
-Oh, no, io… – e Sotnikov si toccò piano lo stomaco, come se gli facesse male. Che la sua carta-igienica avesse quegli effetti lì?, pensò Pavlov.
-Compagno Pavlov- disse Sotnikov.
-Compagno Sotnikov- disse Pavlov.
-Compagno- ripeté Sotnikov, come se il dirlo una volta di più aumentasse la sua possibilità di vittoria: -Mi piacerebbe prelevare un campione di sangue infetto- mormorò, col tono come di chi parlasse di andare alla settimana bianca.
-Sangue infetto?- domandò Pavlov, guardandosi distrattamente le unghia: -Sangue infetto proveniente dagli infetti?
L’altro annuì, timido.
-Gli infetti che i miei liquidatori stanno segretamente liquidando?
-Proprio… uhm…
Pavlov si piegò in avanti, sbattendo quasi con la faccia sul naso del medico: -Quegli infetti?- le sopracciglia arcuate, gli occhi che parevano esser più piccoli; Pavlov fece un sorriso, poi si abbandonò allo schienale della poltrona: -Quali infetti compagno?- disse, allargando le mani e unendosele in grembo: -Quali?
Il riso di Sotnikov partì adagio come un vecchio ural zeppo di problemi al motorino d’avviamento, per poi rombare, raschiando sollievo dal fondo del petto.
-Quali? Già, quali?
-E sentiamo, perché le serve far uscire equipaggiamento sanitario dalla base, eh?
Sotnikov, che rideva come un pazzo, si batté una mano sulla coscia. Annusava il problema, percependo (appena, dopo il quarto bicchiere di stolicnaja) il trabocchetto di Pavlov.
-Ah, ah! Perché mi servono!?- rise.
-Ah ah! Perché le servono?- domandò il capitano.
-Ah ah! Ma per… uhm, per… (e qui tirò fuori la prima cosa che gli passava per la testa) per vaccinare le lepri bielorusse albine.
Pavlov divenne brutalmente serio: -Le lepri bielorusse albine?- domandò.
-Beh…- Sotnikov, pensando che l’altro fosse stranito per l’aggettivo bielorusse, si precipitò a spiegare: -Uhm, sconfinano… vengono dal pezzetto di Russia Bianca qui sopra, fino alla Repubblica Socialista d’Ucraina.
Pavlov alzò un sopracciglio: -Sconfinano?- disse.
-Si compagno- l’ufficiale medico rispose con labbro tremante. Era serio, d’una serietà mortale: -Si- disse, versandosi un altro bicchiere di vodka: -È qualcosa che mi tengo dentro da un po’.
Pavlov assentì: -Capisco- poi fece schioccare le labbra: -E lei ha il sospetto che queste lepri siano… uhm, siano…- si bloccò più volte, come se avesse qualcosa di talmente terribile sulla lingua da non volerlo lasciar libero.
-Siano… ?
-Siano- annuì Pavlov, come per finir la frase.
-Imperialiste?- azzardò l’altro.
-Precisamente- fece Pavlov: -Ha il sospetto che siano lepri imperialiste?
Sotnikov annuì: -Addestrate dalla CIA.
-Addestrate dalla CIA- ripeté il capitano, quindi si alzò: -Bene- disse: -Io credo che il compagno podpolkovnik non abbia nulla in contrario ad un’innocua analisi del sangue sulle lepri bielorusse imperialiste.
-Lei crede?
Pavlov annuì e fece per andarsene, ma Sotnikov lo bloccò: -E… compagno capitano…
-Si?
-Crede sia possibile avere un elicottero?
Oltre che di samovar e carta-igienica, Pavlov aveva le mani in pasta con quelli della Voyenno-Transportnaya Aviatsiya, l’aviazione dell’esercito.
-Compagno- sparò Pavlov, come stesse per fare una dichiarazione alle Repubbliche Sovietiche: -Pensa che le sue lepri idrofobe (imperialiste compagno, imperialiste) uhm, pensa che le sue lepri imperialiste staranno comode su un mi-8?
A Sotnikov brillarono gli occhi: -Eccome!
-E pensa che, diciamo per errore, potrebbero capitare nella mia compagnia milleottocento fiale di tetraciclina prodotte in Francia da questa (e Pavlov tirò fuori un foglio accuratamente piegato in quattro) ditta?
Sotnikov rimase a bocca aperta: -Milleottocento… ?
-Trattamento anti-pneumonite, somministrazione per endovenosa- annuì Pavlov. L’ufficiale medico gemette. Pavlov era impegnato anche nei traffici illegali d’antibiotici? Se no, a che cosa gli servivano milleottocento fiale di tetraciclina?
-Non fiale sovietiche, compagno- puntualizzò Pavlov: -Ma di questa ditta.
Sotnikov deglutì: -E… la benzina?
-Ho già firmato un ordine per milleottocento litri di carburante- replicò il capitano, agevolando un altro foglio a Sotnikov, con tanto di timbri rituali/ufficiali.
-Un litro per fiala?
-Un litro per fiala, compagno.
A disagio, Sotnikov annuì.
-Bene- fece il capitano: -Grazie della sua ospitalità, compagno- si mise la piatta sul cranio calvo e poi dette un’ultima occhiata all’ufficiale medico: -Che tecnicamente non è tale.
-Si spieghi- fece Sotnikov.
-Tutto ciò che vedo qui non è suo, ma dello stato; l’ospitalità che mi viene data è da parte dello stato, visto che anche lei, compagno, ne rappresenta un pezzo.
La mente di Sotnikov stava per deragliare; borbottò un frettoloso e fuori-luogo “non c’è di che”, prima di rivolgersi ad un documento sulla sua scrivania.
Fu quindici minuti più tardi che il comandante di un mi-8 dell’aviazione dell’esercito si vide spuntare Miša Pavlov con la giacca dell’uniforme sulle spalle e sigaretta accesa tra le labbra: -Compagno comandante- esordì il capitano, tenendo all’altro una pamir nel portasigarette di metallo. Il pilota la prese, chiedendosi che ci fosse dietro l’offerta di uno che non aveva mai offerto niente in vita sua.
-Ci sarebbe da andare a prendere un campione di sangue- esordì il capitano.
-Ah- fece il pilota: -E dove?
-Mah, qua vicino, roba da dieci, quindici minuti.
-Ah- fece il pilota: -E chi paga il carburante?
-Ma è dono dello stato, compagno- fece Pavlov: -Le pare che quelli dell’Amministrazione Centrale la lascerebbero volare senza o peggio vorrebbero che lei, per il suo servizio alla Rodina, pagasse alcunché?
A questo punto il pilota era già confuso; Pavlov cercò di riordinargli le idee: -Qui c’è il dottore- disse, indicando un trafelato Sotnikov che correva fuori dalla base: -E lì le sue suppellettili mediche. La Rodina le da cinquecento bei litri per il serbatoio.
-Cinquecento?- sbottò il comandante, mentre accendeva la sigaretta: -Ma se se ne andrà via mezzo serbatoio solo per il decollo! La mia Sigi è bella vecchia, compagno.
-Sigi?
-Sigrid, l’elicottero. Lo… anzi la chiamo così.
-Senta Konovarin, sa com’è, no? I tagli all’esercito, la glasnost e noi militari a farne le spese.
-Lo so compagno, ma…
-Gliene do altri mille di tasca mia, altri mille, compagno.
-E che cosa… ?
-Non sarebbe bello se i miei poveri soldati della terza avessero dei nuovi sottobicchieri, magari bordati d’ottone, per i loro samovar?
-Sarebbe bellissimo- sbottò il pilota con un velo di disgusto: -Bellissimo.
-Bene- Pavlov strinse il braccio dell’altro in gesto d’amicizia: -Ecco che arriva il dottore- poi indicò ad est: -Ed ecco i compagni con la benzina.
Fu a pomeriggio inoltrato che il pachiderma volante dell’esercito superò la foresta radioattiva, abbassandosi lungo il confine della Zona.
-È in arrivo un fronte freddo da sudovest- dissero da Slavutyc in cuffia.
Il pilota Konovarin guardava annoiato gli uomini sotto di lui. Era una giornata bastarda per volare, ancor di più con tutti quelle nuvole in arrivo. C’era un bmp fermo lungo il muro di cemento e quattro uomini in piedi sulla sua corazza. Dietro veniva una vecchia utilitaria.
Uno degli uomini fece segno al pilota verso il baule dell’auto.
-Indica la lada, capitano- fece il secondo pilota all’ufficiale medico.
-Si, lasciatemi lì sopra il tettuccio e atterrate oltre la barriera.
-Non c’è abbastanza spazio, compagno. Atterriamo al di là.
-Ma…
-Niente ma- disse il comandante: -Ora si prepari a scendere.
Sotnikov fu aiutato da uno dei suoi paramedici a calarsi lungo una fune militare; quando fu sul tettuccio della lada, cominciarono a passargli l’equipaggiamento.
Baranov lo guardò: -Compagno, sono tre ore e quarantaquattro minuti che aspettiamo- disse.
-Beh, avete detto che vi serviva un elicottero, eccoci!
-Dopo tre ore e quarantaquattro- intervenne Molokin.
Sotnikov fece finta di non udire, poi guardò l’elicottero spostarsi al di là della barriera di cemento e atterrare.
-È qui?- domandò, felice come un bimbo davanti al più bel giocattolo della sua vita.
Baranov annuì.
-Aprite, aprite, aprite!- disse. Lo staršina fece un’alzata di spalle e ordinò che si sciogliessero i nodi.
-Aprite, aprite, aprite!- fece ancora il medico. Fu Kostya a far scattare la serratura. Il portellone schizzò verso l’alto e ne uscì un ringhio e una bocca insanguinata che tentò di mordere l’ufficiale medico.
-Chiudete, chiudete, chiudete!- esclamò Sotnikov. E chiusero.
-Ora come cazzo lo prendiamo il campione di sangue?
-Ce lo dica lei, compagno- sbottò Kalkin.
-Beh, io… ecco…
L’idea venne a Molokin: -Pratichiamo un foro nella lamiera del baule, poi ci infiliamo la siringa (sperando che miss vampira non rompa l’ago) ed il gioco è fatto.
Baranov sbuffò, poi disse: -Uhm, si. Mi sembra una stronzata, ma non abbiamo niente di meglio.
Si fecero lanciare da Konovarin un cacciavite, con cui martellarono impietosi la lamiera rossiccia. Dal foro, scintillava l’occhio giallo della vampira.
-Quante siringhe abbiamo?- domandò Molokin.
-Una- fece Sotnikov, alzando le spalle. Baranov imprecò.
-Mi faccia vedere- disse Paša. Sotnikov aprì la borsa: dentro vi teneva, bene in ordine, un microscopio, alcuni vetrini, delle pipette, contenitori per reagenti chimici e la siringa. Molokin annuì, poi staccò l’ago e fece un cenno a Baranov: -La fiaschetta di vodka- disse: -Me la dia, compagno.
Baranov annuì e Molokin versò un po’ di liquido nella siringa, impedendo col dito che scappasse.
-Non le farete… insomma…- Saša balbettò qualcosa, zittendosi allo sguardo omicida di Baranov.
-Ora datemi… un foulard.
Il medico trasse dalla tasca il suo fazzoletto e Paša lo legò più volte attorno alla siringa: -Così non la romperà coi denti- disse: -Ora, faremo passare la siringa dal buco e lei la morderà all’istante, dopodichè, con mano ferma, le daremo da bere la vodka. Che ve ne sembra?
-Ovviamente una grandissima…
-Ha idee migliori, compagno Baranov?
-No.
-Allora, procediamo- Molokin tenne la siringa, calandola piano nel buco. Li raggiunse un ringhio, poi ci fu uno strappo, ma l’efreitor tirò, schiacciando lo stantuffo: -Ha bevuto!- disse: -Porca miseria se ha bevuto!
-Altra vodka- disse Molokin. Baranov gli porse la fiaschetta.
Ci volle anche la bottiglia di stolicnaja che s’era portato dietro Sotnikov per stordire la vampira.
-Ora dorme- annunciò Molokin.
-Bene compagni!- disse l’ufficiale medico (un po’ brillo per aver attinto anche lui alla stolicnaja).
Kalkin si mise in bocca una sigaretta: -Ma, toglietemi una curiosità… si possono fare gli esami del sangue se uno beve alcool?
Tutti si guardarono l’un l’altro.
L’ufficiale medico imprecò: -Glielo prendiamo lo stesso il sangue- fece, mettendo l’ago alla siringa, quindi tolse il fazzoletto e affondò il metallo nella carne della vampira. Ne venne fuori una provetta rosso scura e normalmente densa. Sotnikov la trattò con degli anticoagulanti e poi la mise nella centrifuga.
-Bene- disse: -Ora andiamo!
Tutto eccitato, l’ufficiale medico mise la provetta dentro la borsa che diede a Kostya: -Me la tenga un attimo, compagno- poi fece un fischio a Konovarin. Qualche momento dopo, il grosso mi-8 si alzava in aria come un calabrone. Il paramedico buttò la scala di corda a Sotnikov, che la prese con gioia: -Ci vediamo alla base, compagni!- l’ufficiale, raggiante nella divisa gallonata, salutò impeccabilmente Baranov e gli altri, poi si rivolse a Konovarin: -Oggi saremo testimoni di una svolta storica!
Salirono a diversi metri, virando di bordo.
Dal bmp Kostya alzò una mano: -La valigetta!
Qualcuno poi disse che il compagno ufficiale portava iella. Irreprensibili, ateissimi sovietici tirarono fuori tutta una serie di aneddoti in cui era coinvolto Sotnikov e il verdetto fu uno soltanto: l’ufficiale medico capo era uno iettatore.
Il problema fu alla scatola di trasmissione. I mezzi militari sovietici quand’erano vecchi voleva dire che avevano prestato servizio per minimo dieci anni; quell’elicottero non faceva eccezione.
Una nube di olio lubrificante schizzò nel cielo, lasciando gli ingranaggi sguarniti ad asciugarsi subito. La luce di controllo sul quadro comandi, allarmò Konovarin mentre le ruote dentate finivano di esistere.
Senza neanche il tempo d’imprecare, Konovarin abbassò la leva di potenza dei motori, ma una pioggia di schegge perforò la prua del velivolo. La trasmissione era saltata.
Il secondo pilota comunicò un messaggio di soccorso, mentre veniva bombardato dagli attrezzi medici di Sotnikov. La mini-centrifuga schizzò in avanti, beccando Konovarin in pieno sul casco.
Al diminuire dei giri nel rotore principale, il secondo armeggiò coi controlli.
Riponeva tutte le sue speranze nel disaccoppiatore automatico: entrando in funzione, avrebbe permesso al rotore di girare in maniera autonoma e a lui (visto che Konovarin sembrava svenuto) di riprendere un minimo di controllo.
Quando vide la spia del disaccoppiatore lampeggiare sinistra sul quadro, cominciò a chiedersi se tra loro non ci fosse uno iettatore.
Troppo tardi.
Da sotto, Baranov vide l’elicottero tornare indietro a razzo, come avesse dimenticato qualcosa e poi scendere giù verso il centro di Pripyat.
Ci fu un botto e tanto, tanto fumo.
Baranov provò subito di chiamare i soccorsi; la radio come al solito mandava scariche. Pensa, si disse, pensa. Il posto di guardia più vicino era a qualche isolato a sud: una caserma della milizia ucraina, rinforzata da uomini dell’esercito: -Andiamo- disse Baranov: -Lei la si lascia qui.
Saša mandò un gemito.
-Dove andiamo compagno?- fece Kalkin.
-A consegnare quella maledetta fiala- rispose lo staršina.
-A consegnare quella maledetta fiala- ripeté guardando le nubi all’orizzonte.
In quattro e quattr’otto sganciarono la lada e salirono sul cingolato. I tre sportellini aperti davanti agli occhi, Aleksandr diede gas come mai prima, facendo cantare i trecento cavalli del motore. Silenziosamente, piangeva.
Giunsero così su una larga arteria fiancheggiata da pali della luce. Un cancello semiaperto, aveva agganciato addosso il simbolo ottagonale con la parola Stop. Più in là, c’era la caserma della milizia, un cubo di cemento in pieno stile socialista, con tanto di fiat 124 mascherata da lada color carta da zucchero.
Gli agenti non vivevano lì, ma dentro una grande roulotte trasformata in centro operativo appena fuori dal cancello. Con loro c’era un’unità di militari, per lo più soldati di leva, con un grosso fuoristrada autosoviet.
Quando videro arrivare il bmp a tutta velocità, si gettarono fuori dalla roulotte, armi in pugno.
Baranov sgusciò fuori dalla torretta: -Compagno Baranov, 616esimo chimico- disse. Subito si fece avanti il tenente che sovrintendeva al centro operativo. Salutò Baranov, riconoscendolo come uno dei liquidatori.
L’unità della milizia era proprio quella dove Sotnikov aveva recuperato la cagnetta per l’esperimento Sindrome Ludovicenko, Laika. Poco dopo il saluto del tenente a Baranov, Laika balzò fuori dalla roulotte, in risposta ai guaiti di Toto. Alcuni uomini della milizia tentarono di richiamarla; Laika balzò su un monticello di terra, per poi schizzare dall’altra parte della barriera, in piena Zona.
-Laika!- chiamò un milizioniere: -Laika!
Toto, frattanto, era saltato dal buco del boccaporto e scodinzolava allegro sul vano motore del bmp. Ci volle un secondo perché si lanciasse giù in strada e prendesse a giocare con il pastore tedesco.
Infastidito, ma con la propria missione bene in testa, Baranov strappò la cartelletta dalle mani di Kostya e la tese al tenente: -Compagno- esordì: -Qui c’è un recipiente per analisi con sangue infetto. Devi portarlo a Slavutyc e metterlo nelle mani del commissario politico della sezione medica Nikitin.
-Compagno- disse il tenente: -Non abbiamo alcun mezzo per giungere a Slavutyc al momento.
-Come sarebbe a dire? E quel veicolo?- indicò il fuoristrada.
-È la benzina, compagno. Ce ne passano talmente poca che…
-Allora chiamate subito un elicottero… uhm, forse meglio di no… chiamate un trasporto dalla base. Nel frattempo…- Baranov fece un segnale a Molokin: -Compagno ti sei guadagnato l’onore di analizzare per primo il sangue infetto. Aprite il cancello: il compagno Molokin viene con voi.
Benché il tenente fosse di grado superiore a Baranov, conosceva la fama dello staršina di perfetto prototipo sovietico. Baranov era quanto di meglio ci si potesse aspettare dal marxismo-leninismo. Era coraggioso, rispettava gli ordini e avrebbe fatto di tutto per la Rodina.
-Compagno Baranov io… – balbettò Paša Molokin.
-Senta, ha il campione di sangue, ha il microscopio di quell’idiota… ora io non sono un accademico, ma credo che basti, no?
Paša annuì.
-Allora fili a studiare!- ruggì Baranov: -Noi abbiamo una missione di salvataggio da compiere.
Mentre uno dei soldati apriva il cancello e Molokin passava, Kostya si trovò con tutte le forze a desiderare d’essere al posto del compagno.
Baranov abbaiò ordini su ordini e in men che non si dica, la squadra fu a bordo del cingolato, diretta verso il centro di Pripyat.
Molokin invece fu portato alla roulotte, dove fu lasciato solo con la provetta ed il microscopio.
L’efreitor non aveva idea di cosa cercare, ma un mucchio su come cercarlo. Lì dentro potevano esserci fondamentalmente due cose: una, un virus; due: un germe. Non poteva spiegarsi altrimenti nella testa dell’Uomo Nuovo Sovietico l’esistenza di simili mostri succiasangue. Vampiri delle leggende? Roba per i pope ortodossi. Ma allora come spiegare l’aglio? Come spiegare la Sindrome Ludovicenko? Certo, era incredibile il fatto che i vampiri crepassero subito dopo aver attraversato la barriera. Bum!, morti; precisi come un orologio svizzero.
Andiamo per tentativi, si disse Molokin. Mise una goccia di sangue sul vetrino e regolò il diaframma. Nonostante fosse eccitato, anzi avesse un po’ di paura per ciò che poteva scoprire, la mano rimase ferma nel reggere il microscopio. Là, nel sangue di quella donna, fluttuava un bacillo incolore, una specie di bastoncino con minuscoli flagelli lungo tutto il corpo. Molokin ammiccò, poi scosse la testa e sorrise. Era quello il problema? Ne aveva visti a migliaia all’università. Li potevi creare come niente, bastava prendere un po’ di terra non sterilizzata, mischiarla con acqua in una provetta e metterla in contatto con del Mannitolo Sale Agar, comunemente chiamato “Terreno di Chapman”. Poi si collocava il tutto ad incubare a temperatura ambiente per almeno un giorno, dopodichè ecco la coltura di bacilli pronta.
Se quella roba era un bacillo appartenente al phylum dei firmicutes, allora avrebbe dovuto reagire positivamente alla Colorazione di Gram. L’esame si basava sulla colorazione con violetto di genziana o violetto di nicolle fatto reagire per almeno tre minuti e sul lavaggio con una sostanza mordenzante, ossia che favorisce la penetrazione del colore nella struttura che dev’essere colorata.
Paša trovò l’occorrente per l’esame nella valigetta di Sotnikov, quindi passò alla seconda fase. Bisognava lavare il materiale con una soluzione decolorante e infine con acqua. Usò l’alcol etilico. Alla fine ottenne dei bacilli colorati di viola scuro e quindi Gram positivi. Vide che ogni bacillo era rigonfio ad una delle estremità e interpretò questo risultato in maniera molto semplice. Quel bastardo produceva spore di resistenza in risposta a condizioni ambientali squilibrate: temperature non ottimali, scarsa presenza di nutrimenti, di acqua. La spora veniva espulsa dopo una lisi della parete cellulare e si trovava in uno stato di metabolismo molto lento, quasi impercettibile. Fino a che le condizioni esterne non si fossero rivelate ottimali, la spora sarebbe rimasta in tale stato. Le variazioni positive dell’ambiente circostante avrebbero prodotto nella spora la sua attivazione, idratazione, una fase di crescita e una di sviluppo.
Molokin sbottonò e si tolse il giubbotto della mimetica. Faceva caldo lì dentro e lui non riusciva a concentrarsi.
Seguitò lo studio del bacillo sottoponendolo al test per l’enzima della Catalasi. Il bacillo rispettava sicuramente le condizioni di vita degli aerobi obbligati; il suo metabolismo era basato sull’utilizzo di ossigeno molecolare come accettare finale di elettroni. Questo in poche parole voleva dire che toglier l’aria al bacillo lo avrebbe sottoposto a stress ossidativo e ucciso.
Molokin si grattò la testa, quindi diede una sonora imprecazione. Insomma, quei cosi sarebbero morti se tenuti in un ambiente sottovuoto? E la Sindrome Ludovicenko? Si alzò di scatto; come mai il germe non era ancora morto?
-Siamo fuori dalla Zona- balbettò: -Siamo fuori dalla zona!
Tornò a guardare il vetrino. Niente, il germe era ancora lì e nuotava nel sangue coi minuscoli flagelli.
Ma perché il corpo ospite moriva? Che diavolo succedeva fuori dalla Zona di Alienazione? Dagli esperimenti supersegreti di Sotnikov aveva appreso come gli esemplari tradissero asfissia prima della morte. Forse privi di una qualche sostanza sprigionata dal terreno della Zona, i bacilli andavano in stress ossidativi? Ma certo! La risposta doveva essere proprio nel terreno di Pripyat e nella sua composizione radioattiva. Sicuramente anche lì vivevano bacilli lunghi qualche micron che interagendo con quelli del vampiro impedivano al germe originario di andare in stress ossidativo.
Molokin avrebbe avuto bisogno di un altro campione e magari un po’ di terreno di Pripyat. Ma dove trovarli se non nel villaggio fantasma? E quante possibilità di sopravvivenza aveva un uomo solo, privo di veicoli blindati a Pripyat dopo il tramonto?
Molokin imprecò. Doveva esserci un’altra soluzione, doveva!
Terreno, dove trovare il terreno e sangue… dove il sangue…
-Ma certo!- batté un pugno sul tavolo, facendo sobbalzare il microscopio. Ridendo, si tolse un anfibio e raschiò via un po’ di terriccio. Sperava di non aver calpestato troppa terra fuori dalla Zona. Si alzò e saltellando senza una scarpa, andò a vedere fuori. Un lungo nastro d’asfalto si dipanava dal villaggio sino alla roulotte. Bene, l’unica contaminazione con l’area sicura era avvenuta tramite l’asfalto.
Mise il terriccio sul vetrino, dopo averlo fatto reagire con le adeguate sostante chimiche e, regolando il tubo ottico e lo specchio, si diede da fare. Eccone qui un altro, anaerobico e Gram negativo. Questo qui non aveva bisogno della respirazione cellulare per sopravvivere.
-Diavolo!- imprecò Molokin. Che voleva dire tutto ciò?
Il suo sguardo annebbiato dal sudore, si spostava ora dal vetrino al tavolo, dal tavolo ai guanti…
-Un momento!- disse.
Qualcuno aprì la porta della roulotte: -Ha chiamato?- fece un militare.
-No compagno, e chiuda la porta!
-Sissignore.
-Quelli del cinema- disse: -Quelli della caffetteria- continuò, dopo che l’altro se ne fu andato: -Mi hanno sporcato di sangue l’uniforme, i guanti…
Prese una pipetta e succhiò via una goccia di liquido dai guanti. Straordinariamente si coagulava in maniera più lenta del sangue non infetto.
Lo mise su un nuovo vetrino, regolò il tutto e…
-Kurva mat’!- imprecò. Quello che splendeva di viola ai reagenti non aveva l’aria di un semplice bacillo, sembrava più una sorta di fagiolo grosso qualche decina di micron.
-Che roba…- disse Molokin. I vampiri uccisi al cinema e alla caffetteria dunque presentavano un’infezione sanguigna totalmente diversa da quella della donna. Le cose erano due: o il bacillo trovato nel sangue di lei non aveva a che fare coi vampiri o esistevano infetti di due categorie diverse.
Quella roba che aveva sotto gli occhi era sicuramente una protocisti parassitaria. Nella fattispecie era di un tipo non mobile, che formava spore come gli altri bacilli.
L’efreitor aveva già visto qualcosa di simile nel Toxoplasma gondii, un parassita che viveva nei gatti e in altri animali a sangue caldo e poteva causare la toxoplasmosi nell’uomo. Quel piccolo verme infettava il cervello dei ratti (per esempio) modificandone il comportamento e rendendoli meno paurosi dei gatti. Il topo veniva quindi ucciso e mangiato dal felino che s’infettava con la carne contenente cisti del parassita.
Molokin tornò a guardare nel vetrino. Aveva sotto gli occhi la prova che quella roba potesse vivere negli uomini. D’altronde, le somiglianze biologiche fra uomo e topo erano abbastanza strette. Era proprio quella cosa maledetta a modificare il comportamento umano? Molokin si passò una mano fra i capelli. Bisognava ordinare delle analisi più approfondite per trovare il collegamento tra il bacillo nel sangue della donna, quello nel terriccio della Zona e la protocisti di Toxoplasma.
Molokin si fece dare un blocnotes ed una penna, poi iniziò a scrivere gli appunti delle proprie analisi. Una volta finito, mise tutto nella cartelletta di Sotnikov.
Dannazione, ma dov’era quel trasporto?
Sulla lavagna c’era scritto “Non ritorneremo. Addio. Pripyat, 28 Aprile 1986”.
-E invece purtroppo siete tornati- commentò Kostyantyn, accendendo l’ennesima sigaretta: -E continuerete a tornare- aggiunse: -Cazzo.
Si trovavano in uno degli asili del villaggio a pochi metri dal luogo d’impatto. L’elicottero era caduto poco fuori e Baranov vi aveva trovato dentro il corpo dei piloti e di altri due uomini.
Lo staršina non sapeva quanta gente ci fosse a bordo, ma quel genere di velivolo aveva una capacità di carico incredibile.
Da quell’angolazione, in mezzo all’incrocio, il mi-8 gli sembrò un’enorme balena arenata.
Baranov sarebbe tornato indietro, lasciando stare la missione, se non avesse visto le impronte sul terriccio e gli schizzi di sangue. Qualcuno era uscito dall’elicottero dunque! Ma chi?
Il fatto che non fossero impronte a carrarmato, da anfibi, poteva suggerire solo una risposta: il medico. Sotnikov era schizzato via dal portellone e vagava per le strade fantasma di Pripyat. Secondo Baranov doveva essere da qualche parte nell’asilo: le tracce guidavano proprio lì.
Lo staršina sospirò, quindi diede un occhio all’orologio. Erano le 11:44; lui e i suoi si trovavano nella Zona da più di cinque ore. Sorrise. Gli pareva di sentire Paša Molokin con i suoi stramaledetti millirem. Quanti ne avevano accumulati finora? Potevano fare più male di una sigaretta?
Guardò l’edificio, poi dette un occhio alla sua carta. Lì l’asilo era segnato con un cerchio rosso; si in effetti ricordava di averci già messo piede. Doveva averlo bonificato dunque… meglio stare attenti. Non era la prima volta che quelli sconfinavano.
-Andiamo- disse, con un cenno ai due efreitor.
Laika abbaiò come in risposta e Baranov le dette un’occhiataccia: -Con questi cani ci sentirà chiunque- disse.
Toto nel frattempo correva e scodinzolava. Laika si mise ad annusare una testa di bambola piena di polvere. Dopo un attimo starnutì.
Baranov sganciò la maschera antigas dall’alloggiamento sul giubbotto tattico e fece per indossarla.
L’asilo era un quadro di polvere, macerie e giocattoli rotti. Baranov inciampò in uno xilofono, quindi vide un’automobile blu a pedali. Teneva la pistola davanti a sé, con la sicura sganciata. Quelli potevano farsi vivi in ogni momento.
Emilenkoavanzava come perduto nel mondo dei sogni. Non aveva voglia di trovare l’ufficiale medico, ne di andare in cerca degli infetti. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era lei. Nella testa rielaborò le immagini del suo ritrovamento, cercando di dare un esito diverso. Ora lei non rientrava nel baule, avvinta dalla voce di Aleksandr. Ora si parlavano, lei cercando gli occhi di lui con le sue iridi cieche.
-Fa’ smettere quei cani, Dorothy!- il ruggito di Baranov lo spaventò.
-D… Dorothy?
Baranov annuì: -Come quella piccola stronza del libro che leggi.
Aleksandr non rispose. Non c’era niente da rispondere.
Baranov lo prese per la gola: -Porca miseria fa’ smettere i cani!- ruggì: -Guarda che combinano!
L’efreitor si girò. Toto, benché minuscolo, cercava di montare Laika.
Dall’altra stanza li raggiunse Kalkin. Rideva della grossa; in braccio lo staršina gli vide un batuffolo di pelo.
-Che diavolo è?
-Un gattino- rispose Kostya. In quel momento si udì “miao”.
-Siamo i guardiani di uno zoo?- fece Baranov: -C’è scritto “zoo per randagi e vampiri” qua fuori? C’è scritto!?
-No ma…- balbettò Kalkin.
-Bravo! No che non c’è scritto e lo sai perché?
Kostya scrollò le spalle.
Baranov fece un gesto come per cacciare le mosche: -Andiamo- disse: -Sono le 12:10; abbiamo già perso troppo tempo.
Il gattino miagolò di nuovo, poi fece una rapida torsione, sgusciando dalle mani di Kostya. Toto, dopo essersi preso un morso da Laika, iniziò ad abbaiare alla vista del gatto.
-Fallo smettere!- urlava Baranov. Aleksandr lo guardò, con espressione ebete.
-Ascolta- disse lo staršina: -Da quanto ho capito, gli infetti vengono attratti da suoni acuti e ad alta frequenza. Coi cani appresso, ci localizzeranno all’istante, lo capisci?
Aleksandr annuì.
-Ora dovete mettervi le maschere- e così facendo sganciò la sua e la diede a Saša: -E sparare a colpo singolo, va bene?
-Sissignore- fece Kostya. Aleksandr, dal canto suo, era frastornato. Continuava a pensare alla ragazza e gli ci vollero parecchie urla di Baranov per capire che lo staršina gli stava parlando.
-Inastate le baionette- disse Baranov. Lui mise la sua, una larga e tozza di fabbricazione polacca. Sentiva nell’aria la febbre della caccia.
“Miao” fece il gatto, scappando. Toto si rimise ad abbaiare e così Laika, trasformando quel piano dell’asilo in una vera e propria bolgia.
Aleksandr si passò una mano fra i capelli, erano sporchi, intrisi di sangue. Tirò fuori la baionetta e la mise sotto la canna del fucile, quindi si fece scivolare il balteo a tracolla.
-Prendi- Baranov, in uno dei suoi rari scatti di gentilezza, gli porse la fiaschetta di vodka. Da buon comandante, aveva imparato a memoria i pregi e i difetti dei suoi uomini. Sapeva, per esempio, che Aleksandr era un ragazzo intelligente, bloccato da anni di vita nella bambagia. Sembrava un burattino con tutti quei suoi “grazie” e “prego” e “scusa”. Baranov sospettava che il padre non gli avesse dato le armi per difendersi nella vita di tutti i giorni, perciò s’era preso lui il compito di formarlo come si deve. Non sarebbe diventato un cacciatore nenet, ma almeno Baranov avrebbe potuto dargli armi più affilate per farsi strada fra i lupi.
Aleksandr reagiva bene ad una modesta quantità d’alcol. Sorprendentemente, invece di divenire brillo e confuso, si tramutava in un individuo dal cervello fino, uno che aveva la risposta giusta al momento giusto e, ancora meglio, sapeva prendere la decisione giusta nell’attimo critico.
Aleksandr prese la fiaschetta e bevve tre sorsi di vodka, poi si asciugò la bocca con le mani.
-Bene- grugnì lo staršina.
Avanzarono, con Laika e Toto che inseguivano il gatto.
Infondo alla stanza si dipartiva una rampa di scale ormai distrutte, uno sperone di cemento che schizzava verso l’alto, fermandosi a metà. C’era circa un metro e mezzo fra l’ultimo gradino ed il soffitto del piano superiore.
Baranov avanzò lentamente. Vedeva chiare le impronte delle scarpe di Sotnikov e qui e là, gocce di sangue. Erano sui gradini in piccole macchie rotonde, ancora dense come se il liquido non avesse rotto la tensione superficiale. Baranov dedusse che dovevano esser cadute da un’altezza minima, altrimenti si sarebbero distese su una superficie maggiore, coronandola di schizzi. Probabilmente Sotnikov camminava piegato in avanti e magari (come suggerì l’impronta del piede destro, strascicata) era ferito ad una gamba.
Baranov fece i gradini adagio, quindi si fermò. Guardava l’orlo del pianerottolo, chiedendosi come facesse un uomo in quelle condizioni ad arrampicarsi o saltare.
-C’è qualcosa di strano- mugugnò.
Guardava la sezione di profilati a fori spuntargli viva davanti agli occhi. Un lembo di qualcosa era agganciato ai bordi taglienti. Vicino, c’erano strisce di sangue.
Baranov riconobbe il lembo come un pezzo di tessuto, tessuto di pantaloni militari. Era verde scuro e sporco di sangue.
Sbuffò, guardando giù un attimo, poi sentì un ringhio e vide Laika trottare dalla stanza affianco. Quando portò di nuovo gli occhi verso l’alto, vide due iridi gialle che lo fissavano. Capì troppo tardi quel che avevano combinato gli infetti. Udendo Sotnikov, attirati dal rumore ad alta frequenza delle pale d’elicottero, avevano atteso che s’arrampicasse sui gradini, poi lo avevano afferrato e tirato sul pianerottolo. Perché non erano semplicemente scesi da basso?
La luce del sole, pensò Baranov, mentre sparava al primo.
Sotto di lui, Saša e Kostyantyn lo videro sparire in una nube di ringhi e ululati. Numerosi bang sonici d’arma da fuoco li raggiunsero.
Baranov vuotò il primo caricatore, poi afferrò l’ak47 colpendoli con la baionetta. Facce bianche che rifuggivano il sole, occhi gialli che roteavano ciechi. Avevano cercato di morderlo ed erano solo riusciti a lacerare lo spesso giubbotto tattico. Lui non dava e non chiedeva pietà, battendosi come un demonio, ma quelli tornavano alla carica sempre più numerosi come un enorme ragno pieno di mani e bocche protese verso di lui.
Per questo li odiava. Lui era un cacciatore, abituato in ambienti ostili, fra prede e cacciatori suoi pari. Poteva lottare con una tigre, con un lupo. Perfino quelle bestie sapevano quando dare forfait, perfino loro seguivano certe basilari regole. Era scritto tutto nel libro della sopravvivenza. Quando il tuo avversario è più forte, più scaltro, ti nascondi, lecchi le ferite e poi torni alla carica. Questo faceva un predatore.
Quelle bestie no. Erano la massa e agivano come un virus. Avrebbero attaccato comunque, intraprendendo qualsiasi azione ben oltre le loro forze, le loro possibilità. Sarebbero morte senza un lamento; avrebbero ucciso senza trarne piacere, senza saziarsi, solo per bere un po’ di sangue e infettare qualcuno in modo che il demone che bruciava loro dentro si propagasse.
Baranov continuò con la baionetta, quindi fece partire la prima raffica, poi la seconda. Da sotto i due efreitor vedevano le vampe balenare nel buio.
Kostya toccò il braccio di Aleksandr: -Oh cazzo!- disse: -Guarda!
Sentirono un rombo lontano, poi le goccioline notate da Kalkin si trasformarono in temporale.
-Piove- disse Saša.
Toto ringhiò, mentre già il primo infetto si sporgeva sulle scale.
-Baranov!- urlò Aleksandr.
-Vieni via, idiota!- gli disse Kostya. Dall’alto si sentì ancora qualche vampa.
Baranov era stato morso. Lo avevano addentato alle gambe, qualcuno di quelli che credeva di aver ucciso. Forse gli ho solo tranciato la spina dorsale, pensò. Bastardi.
Continuava a sparare, trascinandosi contro il muro. L’istinto gli avrebbe detto di lasciarsi cadere dal buco del pianerottolo, cercando l’aiuto dei compagni. Baranov si trattenne. Forse i ragazzi sarebbero riusciti a salvarsi, forse…
Ma quanti cazzo ce n’erano!?
Con la coda dell’occhio vide Sotnikov. Il medico aveva la giacca insanguinata e artigliava il giubbotto dello staršina.
Povero bastardo, sopravvivere ad un incidente d’elicottero per finire mangiato da quelli!
Baranov premette il grilletto e gli staccò la testa. Gocce di sangue gli entrarono nel naso, negli occhi.
Vaffanculo, si disse. Tanto ormai…
E poi si mise a ridere. Eccola, la massa sovietica che tentava di succhiargli il sangue! Lui individuo, proprio perché tale, doveva soccombere.
Sparò ancora e ancora, mentre i bossoli cadevano giù dalle scale.
Che avrebbe fatto sul letto di morte, sarebbe diventato imperialista?
-Kurva mat’!- e sparò.
Al piano inferiore dell’asilo, Kostya si trascinava dietro Aleksandr. Corsero fuori, seguiti dai due cani.
Gli infetti sgusciavano da ogni strada, verso l’edificio. Probabilmente era come diceva Baranov. Sentivano i rumori acuti, ad alta frequenza.
Il bmp! Dovevano arrivare al bmp!
Corsero come pazzi, sparando colpi singoli a quelli che si facevano troppo vicini.
-Cristo non voglio morire!- disse Kalkin: -Non voglio!
Saša invece non parlava.
In men che non si dica, l’abbaiare di Toto cominciò a calamitarli verso di loro.
-Mandalo via!- Kostya fece partire un colpo, mancando il terrier. Laika si mise a ringhiare.
-Mandalo via!- disse l’efreitor.
Aleksandr gli diede uno spintone, poi falciò una donna che stava per abbrancarlo. Altri infetti corsero loro incontro, schizzando pioggia. In cielo, nubi grasse venivano pugnalate dai lampi.
Erano soli, uomini in un posto grigio attorniati da belve.
La mente di Aleksandr lavorava proprio in modo strano. Nell’ora della morte, gli venne da pensare all’inizio di un libro che aveva letto tempo prima. Era Zanna Bianca; nei primi capitoli parlava di due uomini e una muta di cani che attraversano il nord. Attaccati dai lupi, cercano di difendersi come possono, mentre le belve usano una femmina come esca per attirare i cani e mangiarli. Alla fine, solo e senza più pallottole l’ultimo superstite inizia a provare interesse per il proprio corpo, “quel corpo a cui non aveva mai badato un granché”. Henry, il protagonista, si sentiva vivo nell’ora della fine. Guardava il movimento dei muscoli, l’agile flettersi delle dita, provando tenerezza “per quel suo corpo che lavorava in modo così stupendo, regolare, delicato”.
Baranov sparò, falciando l’ultimo vampiro. L’avevano ridotto male; il giubbetto stracciato faceva intravedere occhielli di carne sanguinolenta. I bastardi gli avevano morso le gambe, le braccia, addirittura erano arrivati a mangiarsi parte degli anfibi di cuoio duro. Non sapeva quanto ci avrebbe messo la cosa a fare effetto, ma ogni minuto in più nel mondo degli esseri pensanti doveva regalarlo ai suoi uomini. Con determinazione si trascinò alla finestra, quindi inserì un nuovo caricatore nella pistola.
I ragazzi erano circondati, mentre dei cani neanche l’ombra. Saša s’era messo schiena contro schiena con Kalkin e sparava raffiche. Dovevano guadagnare l’accesso al bmp.
Baranov puntò e sparò, uccidendo un infetto, poi fece fuoco su un altro e un altro ancora. Beccò un ragazzino che correva come un matto a due passi da Kostya.
Era stanco e cominciava a non vederci bene. Si chiese come sarebbe stato da infetto; quando sarebbe morto di fame per la mancanza di cibo. Stupidamente, pensò con disgusto che quelli si pisciavano addosso. Lui era un cacciatore, diamine e prima di tutto, un sovietico. Non poteva scomparire in mezzo a quei mostri.
Il piede gli cedette, ma lui si tirò su. Quando finì il caricatore, ne inserì un terzo… l’ultimo.
-Toto!- Saša lanciò un flebile grido, mentre già Kostyantyn si metteva le cuffie, tirando giù l’amico per il boccaporto. Avevano guadagnato il bmp grazie a Baranov; Kalkin non si sarebbe lasciato sfuggire la salvezza per uno stupido cane.
-Accendi questo cazzo di motore!- urlò.
Aleksandr si scosse, un momento dopo il bmp schizzò lungo la strada, travolgendo gli infetti come bambole. Aleksandr teneva le feritoie aperte, nonostante sangue malato potesse schizzargli in faccia… ma per questo c’era la maschera. Da sopra, Kostya sparava come un matto. La mitragliatrice pk falciò qualsiasi cosa e le sue urla gli lambirono la paura che aveva nel cuore, trasformandola in rabbia.
Poi lontano, mugghiante, si udì il corno di Baranov.
Nella testa piena di vodka, Aleksandr se lo immaginò lì, sul pianerottolo dell’asilo, come Orlando con l’olifante che guarda la pistola e dice “Durlindana non lascerò che tu cada nelle mani del nemico!”.
Forse funzionava come il veleno dei serpenti. Benché Baranov non fosse stato mai morso, sapeva che più morsi uguale a più quantità di veleno, uguale a insorgenza rapida.
Che il cane fosse infetto non lo aveva scioccato minimamente. Quando Toto l’aveva morso alcune ore prima, nella testa di Baranov s’era formata l’idea della morte. Non sarebbe diventato uno di quelli; avrebbe fatto il proprio dovere e si sarebbe ucciso da guerriero. Questo perché la mente di Baranov non funzionava come quella di un uomo civile. Lui era cresciuto nelle terre inospitali della penisola di Yamal e nella ancora più inospitale Armenia. La vita per Baranov era stata spazi infiniti coperti di neve, era stata il tanfo delle renne, il dormire sotto le stelle con un’arma automatica in mano e difendere le greggi sovietiche dai lupi; il non sapere cosa fosse un letto.
Avevano morso quello stupido cane la mattina stessa; perché non si fosse ammalato, Baranov non sapeva dirlo, ma nel corso delle pattuglie gli era capitato di vedere animali domestici sgusciare lungo le strade di Pripyat con un’aria talmente vigorosa da fare invidia a lui stesso.
Probabilmente gli animali erano portatori sani. Del fatto che Toto fosse contagiato non aveva dubbi. Come spiegare il piccolo squarcio sulle natiche e i morsi del vampiro simili a punture d’ape? Strano che Saša non se ne fosse accorto.
Baranov fece una smorfia, poi baciò il corno che era stato del padre di sua madre, quindi dette un occhio alla pistola e ne sentì il calcio zigrinato sul palmo. Presto prima che mi manchi la forza, pensò. Non uccideva sé stesso, ma l’abominio, il virus, quella bestia che non pensa come un predatore, né come la preda.
Mise la canna in bocca e sentì che la guerra era già in corso dentro di lui.
Non si chiese come fosse morire. Sparò.
Kostyantyn tagliò letteralmente in due un uomo, quindi imbracciò l’ak47 e fece fuoco contro una mano protesa ad un metro dal suo fianco. I bastardi si arrampicavano sul veicolo in corsa.
Sparò ancora col mitragliatore, poi Saša prese una curva a settanta all’ora e per poco lui non venne sbalzato via. Ma che diavolo fa quel pazzo?, pensò.
Stava tornando indietro! Con orrore Kostya vide tutta una massa d’infetti riversarsi lungo le strade bagnate di pioggia. Esseri nudi come larve bianche o coperti di stracci. Le costole visibili sotto la pelle, le braccia scheletriche per la denutrizione. Li fece a pezzi col mitragliatore di bordo, poi urlò nella cuffia: -Brutto stronzo!- disse.
-I cani!- rispose Saša.
-I cani un cazzo! Torna indietro, usciamo da qui!
-I cani!- ripeté Saša.
-Ci ammazzano porca puttana, ci ammazzano!- urlò Kalkin: -Ma solo io sono normale qui?
Ora Aleksandr rallentava. Kostya divenne isterico: -Ma che fai?- sibilò. L’altro aveva fermato il bmp e si preparava ad uscire dal boccaporto. Un attimo dopo era fuori sotto la pioggia.
-Saša!- Kalkin urlò, mentre già troncava i primi infetti. Si mise alla pk lasciandola tuonare. Come si guida quel coso? Non doveva essere poi troppo diverso da una macchina…
Già gli infetti si assieparono. Kalkin imprecò. Per raggiungere l’abitacolo di guida avrebbe dovuto strisciare sul vano motore, vicino agli artigli di quegli stronzi. Sparò tutt’attorno, facendo volare dita, mani, in alcuni casi braccia, poi staccò una granata dalla buffetteria e tolse la sicura.
In un attimo, si fece il quadro della situazione e capì che Aleksandr era perduto.
Lui poteva ancora farcela. A sinistra si apriva una larga strada asfaltata e più in là ecco il muro di cemento.
Sono cento, centocinquanta metri, pensò. Non avrebbe perso tempo a cercare di raggiungere l’abitacolo per mettersi ai comandi di un mezzo che nemmeno conosceva. Con un piano bene in testa, tirò le ultime raffiche, poi lasciò andare la granata a frammentazione dove si assiepavano gli infetti e saltò. Si mise a correre ad una velocità incredibile, poi udì il botto. Urlò per la paura, per la disperazione. Sembra più grande il pericolo quando giunge alle spalle, quando ti insegue e non lo puoi vedere, ma Kostya non si girò, non si fermò: corse e basta.
La parete era a quanto… cinquanta metri?
Staccò un’altra granata, tolse la sicura e se la buttò alle spalle, poi si mise a contare: uno, due, bum!
Erano vicini. Ebbe un sussulto quando un ringhio gli rimbombò accanto.
Aveva l’ultima, la prese, staccò la sicura ma tenne premuta la levetta. Doveva lanciare la granata, poi tentare un salto mai visto. Non c’era una grata, non c’erano appigli, solo una maledetta faccia di cemento. Inspirò, lasciò la granata, poi schizzò in alto. Bum! L’ululato degli infetti moribondi gli martellava le orecchie.
Per poco il balteo dell’ak47 non gli tagliò la gola mentre il fucile rimaneva impigliato nei tondini di ferro sporgenti. Kostya raschiò con gli anfibi, poi allungò una mano afferrando un tondino e fece forza.
Ce l’aveva fatta! Con un sospiro si lasciò cadere dall’altra parte, avendo cura di rimuovere il mitragliatore dal nido di tondini.
Una volta a terra, non si fermò neanche per riprendere fiato, ma giù a correre e correre e correre.
Era salvo. Salvo.
Niente e nessuno, neanche lo spettro di finire nei gulag, l’avrebbero fatto tornare là dentro.
Saša notò che gli infetti si comportavano in modo bizzarro. Invece di andargli addosso, invece di artigliarlo e cercare di succhiargli il sangue, si limitavano a ringhiare divisi in due ali. Era come se stessero ai lati di un corridoio con lui in mezzo.
Guardando a sinistra, vide l’asfalto della strada e più in là, il muro di cemento.
Non aveva fatto caso al destino di Kostya, ne agli scoppi di granata. Non aveva paura, non era triste per la vicinanza della morte. Aleksandr era curioso; interessato a quel che lo aspettava alla fine del “corridoio”.
Forse lei era… ?
Aveva ancora la maschera e i capelli biondi ne uscivano fuori come fili di grano piegati dal vento.
Fece un passo, poi un altro e finalmente la vide. Era lei, lei che non riusciva a togliersi dalla testa.
Saša si sentì una crisalide che buchi il guscio d’ovatta in cui è germogliata.
Guardò la donna e gli parve che lei sorridesse.
Era la regina, se quei mostri anarchici si potevano definire sudditi. Per lei stavano buoni e attendevano.
Il cervello non registrò quanto fosse pericoloso stare lì, ne gli fece fare dietrofront.
Aleksandr si tolse la maschera e la gettò agli infetti.
Lei sorrideva!
Fuori dal perimetro, Pavel Molokin addentò una salsiccia all’aglio, annaffiandola con un sorso di borš. Aveva le mani unte e unti erano pure le pagine del blocnotes.
Guardò la salsiccia, le dette un morso poi la annusò. L’aglio, l’aglio.
Eccolo qui, pensò. Con la baionetta tagliò un pezzo di salsiccia, poi la aprì e ne estrasse il minuscolo cuore d’aglio. Doveva fare qualcosa al sangue infetto, per forza. Altrimenti tutte le collane d’aglio che gli aveva ordinato di confezionare Baranov… ?
Spappolò il pezzetto in una minuscola poltiglia, quindi ne mise un poco sullo stesso vetrino del sangue di lei. Regolò il diaframma e…
Niente. Non succedeva niente.
Bevve del borš, poi staccò un altro pezzettino d’aglio.
Qualcuno urlò, poi ci fu il distinto rumore di sassi sul muro. I soldati sparavano coi loro ak47.
Molokin sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Il cuore gli parve trasformato in un blocco di gelatina molle.
Si alzò e prese il mitragliatore. Aprì la porta della roulotte e vide l’inferno. Quelle bestie sciamavano dappertutto. Erano centinaia.
I militari aprirono un fuoco di sbarramento, ma quelli continuavano ad avanzare. Paša vide i cani-lupo della milizia lanciarsi sugli infetti ringhiando.
Ma com’è possibile?, pensò. E la Sindrome Ludovicenko?
-La Sindrome!- disse, sparando: -Bastardi dovete sottostare alle regole della Sindrome!
Il fucile vomitava piombo.
-Bastardi!- Molokin aveva il viso rigato di lacrime. Forse la sua collana d’aglio li avrebbe tenuti lontani… forse… ad alitar loro in faccia… con tutto l’aglio che aveva mangiato…
Ancora una raffica. Paša continuò a sparare finché la canna non si surriscaldò e dallo spegni fiamma uscirono vere e proprie lingue rosse.
In quel momento desiderò avere un dio, qualcuno diverso dal Politbjuro e dal Partito. Tutti gli uomini del mondo avevano una forza sovrannaturale a cui votarsi nell’ora della morte. Lui no. Era sovietico.
Marx diceva della religione: “è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli”, un oppio che Paša avrebbe voluto fumare in quell’attimo.
Sparò l’ultima raffica, poi le zanne dei vampiri spazzarono via tutto: l’uomo, il soldato, l’Accademia Militare Kirov.
Kostya si fermò molto dopo, davanti ad un’apparizione. C’era nella foresta ucraina, un vecchio vagone ferroviario dipinto di bianco e sormontato da una cupola color turchese. Sulla sommità, la croce di Sant’Andrea splendeva umida di pioggia.
Kostya cadde in ginocchio sui gradini della “chiesa”, poi si girò e si segnò tre volte alla maniera ortodossa.
I primi raggi sventravano le nubi, inchiodandosi alla terra in grandi colonne di luce.
Kostya si mise a piangere: -Dio mio, Dio mio- diceva: -Dio mio.
Il sangue ribolliva, uscendo dalla bocca, dagli occhi come stesse friggendo in padella. Dopodichè, la pelle degli infetti cominciò a chiazzarsi, poi cadde in tante piccole scaglie morte, mentre loro si contorcevano a terra.
Aleksandr non comprese, non riuscì a capacitarsi che lei fosse morta.
Aveva vissuto tutta la vita all’ombra del padre, tutta la vita cercandola e ora…
Cadde in ginocchio, poi le passò un dito sulle labbra e la vide com’era, come la ricordava in foto.
FINE
Ogni riferimento a persone esistenti o fatti realmente accaduti è puramente casuale
19/06/2009, Marcello Nicolini