1.
Un giorno un uomo, semi desto dal sogno della propria vita, decise di farne il bilancio.
Aveva una moglie dispotica e brutta, l’affitto da pagare ed un figlio ingrato.
Nulla di avventuroso, se si eccettuano le pugnalate che scambiava con i colleghi d’ufficio; ne di eccitante, salvo quando il capo vomitava fiele sull’immancabile progettista in ritardo con le consegne.
Per quanto riguarda l’amore, frasi come “Sei un cretino” e “Hai la bellezza d’un tricheco” erano all’ordine del giorno. Lui stesso era divenuto spento, grigio; un molle guscio umano. Ormai, anche davanti ad un bel paio di gambe, non riusciva a pensare ad altro che alla torta di mele con sopra il gelato che si mangiava da zio Kostas.
La vita era in perdita.
Gli sembrava ristagnasse, come del gin nella botte, ma, a differenza di quello, la vita peggiorava col passare del tempo.
Il giorno dopo, o era quello precedente (tutti uguali ormai, segnati dalla sveglia, la cravatta, colazione in piedi, metropolitana e un grigio piombo come cielo) si addormentò al lavoro, nel proprio cubicolo e…
…vide qualcosa di straordinario…
Un tempio di colonne argentee s’innalzava al centro di una piazza, sino a coprire il firmamento. Le colonne formavano alla base un parallelepipedo di dimensioni gigantesche. Alla sommità di ciascuna, figure umane e belluine creavano intrecci artistici in rilievo su capitelli di marmo.
L’uomo boccheggiò, vedendo che tutto splendeva d’argento; ogni cosa, dalle colonne, ai gradini, all’architrave.
Dentro, il pavimento brillava d’oricalco e gemme verdi, pulsanti di trizio, concentravano raggi di luce verso l’altare.
A questo punto del sogno, l’uomo si trovò ad avanzare, dapprima lentamente, poi sempre più veloce. La struttura trilitica dominava ogni cosa: l’uomo si accorse appena che attorno a lui c’erano altre persone, una moltitudine di esseri viventi che sciamava dentro e fuori strutture più piccole.
Adesso era sui gradini, deciso a spingersi verso l’interno. Sentiva come una forza aliena guidarlo verso l’altare del tempio, dove avrebbe trovato…
Un fiume di ingiurie strappò l’uomo dai suoi sogni. Il capo sputava veleno, veleno contro quel meschino omiciattolo grigio dai capelli unti e dal vestito più largo di due taglie.
Quella sera, l’uomo, dopo esser stato rimbrottato dalla moglie e schernito dal figlio, annegò il proprio bilancio fallimentare in una bottiglia di gin. Gin da settantacinque centesimi, comprato allo spaccio del porto…un intruglio che di gin ne aveva solo il colore.
La testa pesante, gli occhi velati, l’uomo cadde di schianto sul tavolo della cucina. Una mano, protesa verso la bottiglia, divenne indistinta e nebulosa. Dopo alcuni attimi, ecco le dita flettersi su uno sfondo diverso. I vicoli e le strade di una città si snodavano davanti agli occhi dell’uomo. Templi ed edifici formavano una trilogia di anelli concentrici. Nel mezzo dell’ultimo, sorgeva la piazza ed al centro di essa, il gigantesco palazzo colonnato. Dietro, oltre le mura, oltre i giardini pensili e le palme da dattero, una montagna gettava la sua ombra di dio grandioso sulle opere terrene.
Come tutto il resto, anche la mano sembrava differente. Non più una zampa informe da topo tecnologico, ma il pugno d’un uomo giovane.
Sbalordito (poiché il sogno sembrava vero) l’uomo osservò le proprie braccia. Snelle, con ossa esili e pelle scurita dal sole. In corpo gli pareva d’avere più vitalità d’un atleta, e le gambe erano lunghe, come quelle dei corridori.
Nuovamente camminava verso il tempio, ne varcava la soglia, calpestava gli oricalchi, correndo verso l’altare.
Stavolta fu la moglie a svegliarlo. Era a pochi passi dall’obiettivo, da quella fonte ove proveniva il misterioso richiamo.
Idiota, ubriacone, buono a nulla; le parole colpirono come un maglio. Venne investito dall’alito cattivo della donna e per poco non cadde dalla sedia. Dietro minaccia, fu ricondotto a letto: se avesse potuto scorgere le linee del proprio volto, si sarebbe trovato davanti una pecora guidata dal pastore, alla tosatura.
Pianse lungamente prima di cadere in un sonno agitato.
E di nuovo la città era lì ad attenderlo, con le sue case simili a dadi bianchi dalle cupole di lapislazzuli.
Vedeva le persone uscire e riscaldarsi ai raggi del sole. Alcuni sbadigliavano, altri si stropicciavano gli occhi con forza, eppure, l’astro di luce aveva oltrepassato di molto lo zenit. Che gente era quella, dunque, che accoglieva il nuovo giorno quando il sole già discende nel cielo?
Non perse tempo con sciocche domande: il richiamo, eccolo di nuovo, quella forza impalpabile che lo attirava verso il tempio.
Solo allora si accorse d’essere anche lui in una casetta piccola, a forma di cubo, tutta dipinta di bianco. Sul soffitto erano incastonate gemme di lapislazzuli; in nicchie disposte a regola d’arte, cristalli al trizio irraggiavano la stanza di soffice luce verde.
Benché non fosse un chimico, aveva riconosciuto l’isotopo d’idrogeno: era come una sensazione, un qualcosa di già visto. Sapeva che il popolo della città usava il trizio per vivere: le cupole, i vicoli e le barche dei pescatori rubavano alla notte un po’ del suo nero dominio a causa di quell’elemento straordinario.
La scienza era forte nella terra dei sogni: piccole e stravaganti aeronavi, con le frisate d’arabeschi in bronzo, solcavano ora il cielo azzurro.
Sul ponte di una di esse, l’uomo vide una fanciulla dai boccoli scuri e dalla fronte spaziosa. Un lungo chitone ed un manto bianco evidenziavano, più che coprire, forme slanciate e gli occhi grandi, sorridenti, d’un blu intenso, oscuravano turchesi e lapislazzuli.
Lei lo guardò ed un’espressione stupefatta e nel contempo felice le si dipinse sul viso. Eppure, non fece scendere il battello al suolo, che distava non più di dieci metri, ma si chinò per scrutare meglio l’uomo e quindi, allungando il braccio esile, prese ad indicare il tempio.
Stupendosi di se stesso nell’aver rivolto un cenno d’assenso a quella donna sconosciuta, il sognatore divorò vicoli e strade che lo separavano dal tempio. I sandali di cuoio intrecciato lo portarono oltre i gradini e quindi, di fronte all’altare.
Alla sua sinistra, una processione d’uomini e donne usciva dal tempio, mentre a destra, altri abitanti del luogo incantato, vi facevano ingresso.
L’atmosfera era solenne, eppur familiare. Non c’erano preti di culto alcuno: l’altare pareva irradiare da solo sermoni silenti.
Un passo alla volta, l’uomo si avvicinò. Cosa poteva esserci di straordinario in quella tavola di pietra, retta da due piccoli blocchi monolitici?
Si fece coraggio e salì i gradini che lo separavano dall’altare.
Corrugò la fronte quando vide una bacinella di bronzo piena d’acqua.
Possibile che gli abitanti della città si recassero al tempio per bere?
Nonostante l’assurdità dei rituali religiosi nel mondo reale, non avrebbe potuto immaginarne uno più stupido.
Che facevano quei pazzi? Si lavavano, bevevano o…
D’un tratto capì: sporse la testa oltre il bordo metallico e vide…
…un uomo, un ragazzo, con lo sguardo sognante, incorniciato da capelli ricci, color bronzo.
La barba di qualche giorno regalava bellezza ad un volto che altrimenti sarebbe stato anonimo.
Lo specchio liquido era abbastanza ampio perché si potesse vedere anche più del viso.
Sulle spalle, larghe, ma forgiate per un corpo piccolo, era gettato con negligenza un mantello scarlatto ed un chitone bianco copriva il torace.
Chi era questo nuovo “io” di cui l’uomo prendeva le sembianze durante i sogni? Non poteva avere più di trent’anni, ed il fisico magro, coi muscoli ed i fasci di nervi a fior di pelle, tradiva un passato o un presente da atleta.
Stava ancora lambiccandosi il cervello, quando, nonostante fosse sempre proteso sullo “specchio”, l’immagine cambiò. L’uomo fece spallucce: nei sogni potevano capitare fatti bizzarri, perché dunque averne paura?
Ecco che la visione si trasferiva nel sottosuolo. Buio e angoscia permeavano ogni cosa. Sull’acqua immota venne dipinto qualcosa di gigantesco: una struttura di torri, cunicoli e passerelle. Ecco cilindri metallici mandare impulsi al radium, mentre enormi colonne Tesla s’impennavano dalle profondità abissali fino a trenta, forse quaranta metri sopra i camminamenti. L’uomo vide congegni bizzarri, alimentati da quelle che sembravano batterie radioattive. Gigantesche ampolle, piene di isotopi instabili, facevano spola tra i livelli inferiori e quelli superiori della struttura. Si potevano udire il mormorio e le vibrazioni del metallo, il ribollire di liquidi sconosciuti alla razza umana e sirene distanti, come nelle antiche fabbriche del diciannovesimo secolo. Il tutto dava una sensazione di perversione opprimente, un qualcosa di orrendo, come i cattivi presagi.
Fu allora, in quel medesimo istante, che l’uomo si svegliò.
Ed il suo urlo di dolore venne udito in ogni parte dell’isola.
2.
-Perché piangi?- chi aveva parlato era un vecchio. Il cranio calvo, la barba bianca, mise una mano sulla spalla dell’uomo, accostando il proprio viso a quello di lui.
L’uomo provò a rispondere, ma le parole non riuscivano ad uscire, ferme, bloccate, da un groppo alla gola.
-Hai guardato nello specchio?- domandò l’altro.
Questa volta l’uomo annuì.
Il vecchio fece un sorriso stanco: -Anch’io sognavo, come te e come tutti noi- disse: -Una vita brutta, nel corpo di un uomo che non era me stesso- continuò: -Questa, la punizione della nostra razza per la superbia e l’arroganza che mostrammo agli dei.
-Smettila!- ruggì l’uomo, scostandosi dal tocco dell’altro: -Io vengo da…da un luogo ed un tempo diversi- disse.
A questo punto, il vecchio gli afferrò un polso con forza: -Tu sei figlio di Thera!- disse: -Come ognuno di noi!
-Che luogo è questo di cui dici?- fece l’uomo.
L’altro spalancò gli occhi e aprì la bocca, mormorando parole che risuonavano come una profezia.
-Quando i continenti di Lemuria e Mu vennero inghiottiti dal mare, solo noi prosperammo nell’alba dei tempi.
-Avevamo la scienza e la tecnica necessarie per diventare più forti degli imperi che splendono sotto il sole d’oriente: tutti i gingilli volanti su cui si posa il tuo occhio non sono nulla in confronto a ciò che costruimmo.
-La montagna di fuoco ci proteggeva meglio dei tre cerchi di mura ed il porto…oh! Il porto di Thera era pieno di vascelli e mercanzie provenienti da ogni parte del mondo!
Il vecchio fece una pausa, abbracciando la piazza, il tempio e le case dai tetti azzurri.
-Dovevamo espanderci- riprese: -Mettemmo insieme il più grande esercito mai visto.
L’uomo si prese le mani tra i capelli: come poteva essere tutto ciò? Un sogno, più vero degli altri, lo aveva dunque in potere?
-C’erano falangi di soldati- disse il vecchio: -E giganteschi vascelli ad oscurare il cielo; macchine d’assedio vibranti di radium ed altri orrori che nella nostra stoltezza chiamavamo “meraviglie”.
-La spedizione partì, veleggiando oltremare. Distruggemmo e razziammo le altre lande emerse- il vecchio scosse la testa: -Non c’erano limiti alla nostra sete di conquista.
-Fin quando gli dei videro che era abbastanza…ed una montagna d’acqua venne abbattuta su Thera…e noi, messi a dormire…
L’uomo rabbrividì: gli era così difficile accettare le parole del vecchio, poiché sapeva, negli abissi dell’anima, che quella storia era verità, verità pura.
-Gli dei ci fecero sognare incubi e vite distorte, ove eravamo perdenti, reietti, falliti.
-Io sono un…- cominciò l’uomo. Voleva aprire gli occhi nella sua realtà grigia e aggrapparsi a qualsiasi cosa di familiare, tangibile, fosse anche il piatto del giorno da zio Kostas. Pian piano, come una cantilena, cominciò a mormorarne il prezzo.
-Era un sogno, un brutto sogno- fece il vecchio: -Sebbene io non ti conosca, posso dire che sei un bravo giovane, saggio e con tutta la vita davanti. Va’ e vivila, dunque!- disse il vecchio.
Ma ancora l’uomo non accennava a calmarsi: -E la macchina?- ruggì: -Che mi dici della macchina?
I lineamenti del vecchio vennero stravolti come da un colpo di pennello: -Tu l’hai vista?
-Si- rispose l’uomo: -Ho visto colonne nere mandare lampi elettrici e ampolle di radio balenare verdi nel buio più profondo!
-Allora va’, torna a casa e non parlarne con nessuno!- barcollando, il vegliardo fece per andarsene; l’uomo lo trattenne: -Aspetta! Che vuoi dire?
-Lasciami!- sibilò l’altro: -I miei figli devono ancora esser svegliati! Bisogna ch’io corra al tempio! Lasciami ti dico!- e con uno strattone, si liberò e fuggì via.
Solo, per le strade risplendenti di trizio, l’uomo vagò senza meta, oltre il tempio, oltre la piazza e giù, verso il mare.
Giunse al porto, ove giganteschi vascelli rollavano pigri fra le onde. Gemme al trizio erano poste sulla prua a guisa di occhi e cilindri verdi, vibranti di radium si potevano scorgere sul ponte, in cima a torrette metalliche.
Si diresse a est, lontano dai moli e giù, per le viuzze su cui s’affacciavano cupole di lapislazzuli. Passò accanto ad una villa, bianca come la spuma di mare. Aveva un portico sormontato da colonne e l’architrave imprigionava una luna appena abbozzata in cielo. C’erano giardini pensili al piano superiore; bellissime foglie di colore vermiglio, cadevano come singole farfalle sanguigne.
Doveva essere autunno. I venti parlarono di soli distanti e terre lontane che l’uomo ricordava di aver visto eoni addietro.
Sulla spiaggia, prospiciente alla casa, un’onda s’infranse, lasciando lacrime di corallo.
L’uomo inspirò: aria fresca gli ripulì i polmoni. Era tutto così stupendo, così bello…perché, dunque, sentiva il petto schiacciato come da un orribile presagio?
Il vento gli scompigliò i ricci e fece danzare le pieghe del mantello.
Ebbe paura; la paura dell’ignoto, l’orrore di affrontare una nuova vita, bellissima e terribile.
-Sono solo un uomo- disse, mentre la brezza inghiottiva le parole.
-Faccio…faccio il progettista e…- balbettò: -…mi piace il piatto del giovedì alla tavola calda e…- non riuscì ad andare avanti.
Con la testa china, si sedette all’ombra del portico, rimirando il mare.
Una siepe a cinque passi di distanza, sfoggiava gli ultimi frutti d’autunno: sembravano mele, ma d’un rosso e d’una grandezza come non ne aveva mai vedute.
Si alzò e ne prese una. Il primo morso gli iniettò nel corpo un succo denso, di fuoco, dal sapore asprigno. L’uomo si leccò le labbra e rise. In mezzo a quell’apocalisse, dopo aver scoperto che la sua vita era un sogno ed il sogno, la vita, gli pareva buffo sentire il gorgoglio della pancia che brontola.
Mentre così rideva, tempestando il frutto di morsi, ecco, da dietro una colonna, apparire lei…
Ora che poteva contemplarla da vicino, ora che lo specchio nel tempio lo aveva destato dai sogni, gli parve una creatura bellissima e timida, sfuggente, come un alito di vento.
Il viso era piccolo, con la bocca appena delineata ed il naso dritto. La fronte spaziosa e le mani, del colore delle pesche, avevano dita lunghe e affusolate.
Fece un sorriso appena abbozzato, timido, quasi avesse paura delle proprie emozioni.
-Non è bellissima?- mormorò, guardando la luna impennarsi sul mare.
L’uomo annuì.
-Stanotte splenderà più delle lampade del tempio- fece lei.
L’uomo ne ammirò il corpo disegnato dalle pieghe del chitone e ascoltò la brezza farle danzare i capelli.
-Ti ho aspettato tanto- disse, dopo attimi di silenzio. I suoi occhi erano ancora perduti, perduti a fissare le onde del mare, ma i pensieri e le parole nascevano vicino a colui che amava.
-Mi sono svegliata molto prima- disse lei: -Disattendendo il programma della macchina.
A quelle parole, gli occhi dell’uomo si chiusero come fessure: -La macchina…- mormorò.
Lei fece segno di “si”: -Prima dovevano svegliarsi i guerrieri, gli strateghi…
Lo sguardo di lei fu come linfa blu nel deserto arido dell’anima.
-È stato l’amore per l’oceano a mistificare la macchina- disse: -Anche mio padre e le mie sorelle, inutili allo sforzo bellico, si sono svegliati prima dei militari- la donna tornò a guardare oltre le colonne bianche, oltre la spiaggia dei coralli.
-Ciò significa che il suo programma non è onnisciente e che può essere alterato o forse distrutto- disse.
-Hai visto le navi da guerra, giù al porto?- domandò la ragazza, dopo qualche attimo di silenzio.
-Si- rispose lui: -Nere, spaventose.
-Thera ne ha centinaia, spinte da motori al radium, armate fino ai denti.
Ancora una volta, lasciò che fossero gli alisei a rapire l’eco delle proprie parole.
-Veleggiano sull’acqua come nei cieli.
-Come il battello su cui ti ho vista arrivare?
La ragazza annuì: -Sfruttano lo stesso sistema di propulsione, su una superficie più grande.
-Chi le comanda?- domandò lui.
-Il re di Thera; un uomo che vuole riprendere l’antica conquista nel punto in cui gli dei l’hanno interrotta.
Lui gettò la mela oltre le colonne: -Beh,- disse: -Io non voglio.
La ragazza fissò meravigliata quel giovane che le stava innanzi: -Chi sei per dire ciò? Nessuno di noi può affrancarsi dalla volontà del re.
Lui stette a contemplare quel viso bellissimo per un tempo che parve infinito.
-Sono semplicemente me stesso- disse: -Non più vittima di un incubo.
-Cerca di comprendere!- fece la ragazza: -Gli dei ci hanno messo a dormire e noi abbiamo assorbito come vampiri i sogni degli uomini. Li abbiamo visti evolversi, cambiare e ci siamo creati degli alter ego nella vita moderna.
-Ma a causa della tremenda sconfitta che ancora portiamo dentro, siamo solo stati capaci di sognare vite grigie, mostruose, da incubo.
Lui scosse la testa: -Smettila di parlare- disse: -Smettila di parlare; per me è già difficile sapere che la vita che pensavo reale è un sogno…
L’afferrò sotto la nuca e attirò quella bocca piccola, sublime contro la propria.
3.
Dal turchese al nero, dall’ametista del tramonto, al blu profondo della notte, c’era un che di sublime e al tempo stesso decadente nel cielo.
Arroccato nel mezzo dei tre anelli, il tempio si stagliava contro la superficie scura della montagna.
L’uomo e la ragazza stavano abbracciati in un letto duro, fatto di pelli d’animali ed esposto alla brezza salmastra.
La luna, gigantesca e pallida, stava ad osservarli dal centro delle tenebre.
I capelli neri, affondati sul petto di lui, disegnavano serpentine spirali contro la pelle abbronzata dal sole.
La ragazza era bellissima, più che mai: aveva gli occhi chiusi e pareva dormire.
-Non ricordi il tuo sogno?- domandò lui, d’un tratto.
Lei si strinse ancor più contro il suo petto e lo abbracciò, con un ché di felino.
-No- disse: -Tra tutti noi, solo tu rammenti.
-E come può essere?- fu la replica dell’uomo.
-Non ne ho idea- rispose lei: -Ma è un bene.
-Perché?
-Perché tu ricordi e sai cose che noi ignoriamo…
-…hai pensieri saggi, si, sei perfino più saggio del re.
Lui sospirò: -Nel sogno ero un fallito, la mia vita piatta e…bevevo un orrore chiamato gin!
La ragazza sorrise, poi gli baciò il collo: -Per questo sei più umile di tutti gli altri: rammenti la miseria del sogno e ne fai tesoro.
-Ma,- fece l’uomo, perplesso: -La bacinella nel tempio, è…
-Vuoi sapere se è collegata alla macchina?- disse la ragazza.
Lui annuì.
-Si, è parte di essa…
Egli mandò un sospiro e rimase a fissare la luna.
-Perché, se ci ha strappato dall’incubo, continuo ad avere una sensazione di orrore nei confronti della macchina?- domandò dopo qualche istante.
-Essa ha i suoi scopi, che sono di guerra e di conquista.
-In altre parole- replicò l’uomo: -Avremmo dovuto continuare a dormire?
Lei staccò la magnifica testa dal petto dell’uomo e prese a fissarlo con quei suoi occhi blu.
-Il mondo…le terre emerse- disse: -Si sono evolute, ci hanno dimenticato…
-…che diritto abbiamo di sorgere dal nulla e annientarli con le nostre armi?
-Terre emerse, sorgere; che vai dicendo?- domandò l’uomo.
Lei avvicinò ancor più il proprio volto al suo: -Tremila anni fa occupavamo un luogo che non è più nostro. Non rammenti, dunque, i fasti del palazzo di Creta, le cui luci vedevamo sorgere a meridione, o le mura della giovane Ilio?
Lui chiuse gli occhi: -C’è qualcosa nella mia testa…delle fiaccole…si, vedo scorrere del vino e i corpi delle danzatrici volteggiare assieme ai tori.
-È, o meglio era, il regno di Minosse.
-Ma perché…- replicò l’uomo: -Non ho ricordi della mia vita qui…a Thera?
Lei lo baciò: -Un’altra falla nel programma- disse.
Egli prese a giocare con i riccioli bruni di quella creatura bellissima che sentiva sua più di ogni altra cosa al mondo.
-Parlami…- esordì d’un tratto: -…parlami della macchina.
La ragazza sospirò, cominciando una litania di parole remote, come se stesse chiamandole dai profondi abissi della memoria.
-Si trova da qualche parte, al centro della montagna.
-La montagna?- disse lui.
-Si, dietro la città- rispose la ragazza: -…da’ potere agli eserciti di Thera. Le sue navi, i cannoni al radium, tutto funziona grazie alla macchina.
-Allora è lì che devo andare…bisogna spegnerla!- l’uomo era così determinato che per un attimo lei ebbe paura, paura di perderlo un’altra volta.
-Non dici sul serio- obiettò.
Lui sorrise: -No…- mentì, prima di baciarla, quando la luna vibrava sui loro corpi intrecciati.
Il guscio vuoto, flaccido, dalle zampe pelose; quella parodia d’uomo che progettava fibra ottica nel suo ufficio pollaio, sotto lo sguardo bruciante di un capo arrivista, era morto, sepolto, come avrebbe dovuto da tempo. Il midollo indomito, l’anima non plasmata, come una meteora scesa giù dai cieli allo stato grezzo, aveva forma d’uomo primigenio.
Trovò un sentiero, arroccato fra le pendici del monte e lo prese. La terra era nera, piena di ciottoli informi e rocce laviche. Un’unica, solitaria ascesa, fiancheggiata, di quando in quando, da ulivi rinsecchiti i cui rami si protendevano verso il basso come mani di vecchi moribondi.
Ascoltava le vibrazioni del terreno e le più piccole mutazioni del vento. I ricordi, quelli che non erano venuti a galla terminato l’incubo, si destavano nel subconscio, indicandogli la via. Sentiva, con le dita dei piedi, il respiro della macchina. Essa era là, chiusa da qualche parte sotto una pelle di terra. Un mostro senza nome, che aveva potere sull’isola intera. Le navi, i cannoni, i terreni fertili ed il sole, il mare, i pesci dell’acqua; ogni cosa apparteneva alla macchina. Questo l’uomo non lo sapeva, era un’intuizione, la risposta data dal subconscio alle sue domande.
4.
Giunse alla fine del sentiero. In alto, più di quanto le capre di montagna non s’inerpicassero, c’era una caverna buia, abilmente nascosta fra massi scoscesi.
Infilata la mano in una nicchia, l’uomo toccò qualcosa. Dalla debole iridescenza che ammorbava le tenebre, doveva essere un quarzo di radium. Vibrò a contatto con la pelle. Per un attimo le rocce tremarono e uno dei massi si scostò di mezzo metro, cosicché l’uomo riuscisse a passare.
Occhi di trizio, come ne aveva visti sulla prua delle navi, guidarono la discesa agli inferi.
Tutto era un palpitare, un vibrare: i suoni si fondevano in fantasmagorie di luci lontane ed echi metallici.
Dopo quello che gli parve un tempo infinito, l’uomo si trovò sui camminamenti inferiori. Erano queste passerelle che correvano da un congegno all’altro, fiancheggiate da mura metalliche, venate di luce.
Colonne Tesla si ergevano dal nulla come megaliti confitti nella terra da mano divina, mentre giganteschi lampi blu partivano da un punto lontano centinaia di chilometri.
Mentre camminava, l’uomo vide una nave da guerra, immensa e nera, venir sollevata come fosse un giocattolo da braccia meccaniche e tenuta così, a mezz’aria.
La scena avveniva a centinaia di metri di distanza, eppure quel vascello corazzato, dagli occhi radioattivi, incombeva su di lui come il più orrendo dei mostri.
Le torrette sul ponte girarono e la nave sparò. I proiettili di radium si perdettero nel nulla. Doveva essere un collaudo o qualcosa di simile; gli ingranaggi della macchina stavano provando l’efficienza di uno dei giocattoli di Thera. Ancora una volta, la nave sparò ed i lampi verdi balenarono e si spensero nel buio.
Nella vuota immensità, essa stava lì, a colpire il niente.
L’uomo continuò lungo la passerella.
Un bizzarro, opprimente richiamo, dritto dal subconscio, lo guidava verso il cuore della macchina.
C’era una pedana rilucente di quadri comando e consolle metalliche. Tre leve uscivano dai pannelli, vicine ad altrettanti quarzi di radium.
L’uomo si avvicinò e col palmo della mano, fece per sfiorare una leva; istantaneamente, dalla nave distante centinaia di metri, si udì un cigolio metallico. Qualcuno o qualcosa aveva girato le torrette verso l’intruso.
Una voce, pacata, ma allo stesso tempo dura, terribile, si levò dal niente.
-Cosa vuoi fare?- disse.
L’uomo volse lo sguardo verso il cielo.
-Chi sei?- domandò a sua volta.
Luci blu si accesero e fu tutto un vibrare di impulsi.
-Chi sei?- ripeté l’uomo.
Stavolta il nulla rispose: -Io- disse.
…la macchina!
L’uomo inspirò: -Devo spegnerti.
Essa parve divertita: -Perché?
L’uomo puntò il dito contro la nave sospesa a mezz’aria: -Progetti ordigni di morte- disse.
La macchina stette in silenzio per lungo tempo. Che fosse sconfitta da un semplice scambio di battute? Si poteva ora, armeggiare con le leve? I cannoni al radium puntati contro di lui, gli dicevano che i pannelli, le consolle dovevano essere il cuore della macchina.
L’uomo deglutì. Trovarsi a discutere con quell’intelletto gelido e malvagio lo precipitava nella bocca della paura.
Il silenzio lo atterrì, ma quando la macchina volle nuovamente parlare, fu come se l’incubo si fosse fatto più orrendo. Quella voce perversa, umana eppure aliena, lo faceva impazzire.
-Sei tu il progettista- disse la macchina: -Mi hai insegnato a costruire a dare forma alle cose.
Una nota di dubbio s’insinuò nella mente dell’uomo: -Che vai dicendo?
-Mi hai creato tu…sei il re, il re di cui ognuno parla- fu la sentenza della macchina.
Egli scosse la testa: -No…no- balbettava: -Non è possibile!
-Si invece.
-Mi hai messo insieme pezzo per pezzo ed io, fin da piccola, ho aiutato te a rigenerare quello che chiami corpo, in modo che potessi continuare l’opera.
-Abbiamo creato navi da guerra e vascelli che sfidassero i venti e ancora cannoni e bombe radioattive…ogni cosa per il bene di Thera, per la sua espansione!
-No!- disse l’uomo: -Io sono diverso…io, io…
Ma la macchina sembrava perduta in antichi ricordi…
-Quando l’acqua ci inghiottì, io eressi una barriera protettiva. Ho creato il sole e la luna; ho creato la brezza e le maree; le mie arti hanno salvato migliaia di uomini!
Ancora una volta, la macchina smise di parlare.
Dal nulla di tenebre, un raggio scarlatto attraversò l’aria, baciando l’uomo sulla fronte.
-So a cosa pensi- disse la macchina: -Ti leggo nella mente.
-Mi spegnerai e correrai da lei- mormorò, senza emozione: -Scapperete, affiorando in superficie e continuerete la vostra vita tra gli uomini di oggi.
-Rammento i miei sogni- fece l’uomo: -…e potrei mimetizzarmi. Nessuno scoprirebbe che vengo da quest’isola maledetta!
Le luci della immensa macchina vibrarono: -Dunque tira le leve- disse: -Spegnimi, se ne hai il coraggio!
Senza esitazione, l’uomo afferrò la prima leva e tirò.
Fuori, a Thera, la luna vacillò e si spense; il mare impazzì, rattrappendosi fino a decine di metri dalla costa.
-Stai distruggendo tutto- disse la macchina, con voce pacata: -Li metterai a dormire, ognuno di loro…si, perfino quella ragazza che hai ingannato nell’alba dei tempi, fingendoti un semplice cittadino, nascondendole ciò che sei..
-Chi?- urlò l’uomo: -Chi sono io?- disse.
-Il costruttore, colui che ha creato ciò che ti circonda- rispose la macchina: -Lo scienziato che ha permesso a Thera di non spegnersi come Lemuria e Mu!
L’uomo tirò la seconda leva.
I vascelli volanti precipitarono e le navi da guerra si spensero. Uno ad uno, gli abitanti dell’isola caddero addormentati, mentre i loro cuori al radium pulsavano piano, sempre più piano.
-Hai tolto potenza a tutto- disse la macchina: -Mi sento debole…
L’uomo cadde in ginocchio, mancando la terza leva.
-I vostri corpi, che io ho ricostruito, perdono energia…
-…funzioneranno al minimo, sfruttando generatori di riserva, finché non mi sarò ricaricata a sufficienza…
-…allora si alzeranno…e io guiderò i loro passi verso il tempio, come ho già fatto una volta.
-…non puoi scappare!- disse la macchina: -Ti addormenterai prima…
Il raggio scarlatto che sondava la testa di lui si spense.
La mano dell’uomo cercò l’ultima leva.
-Neanche tu, mio creatore, puoi essere così pazzo da tirarla.
-Perché?- biascicò lui.
-È l’omega; è la fine: toglie potenza a tutto.
-Anche alla cupola?- fu la domanda dell’uomo.
-Si.
La mano si allungò verso l’interruttore.
-Non mi spegnerai del tutto- disse la macchina: -Sognerai d’essere un altro uomo finché io non ti sveglierò…
-…sarà un ciclo continuo.
Forse neanche gli dei, tremila anni prima, avevano avuto la forza di spegnerla del tutto. La macchina aveva prosperato al minimo, covando odio verso i suoi antichi distruttori.
Improvvisamente, con l’ultimo spasmo d’energie, i ricordi sopiti tornarono a galla.
Tremila anni prima era stata la sua mano a tirare quelle stesse leve. Vedendo la macchina fuori controllo, l’uomo aveva cercato di spegnerla…
Afferrò l’ultima leva.
Stavolta era finita, la macchina sarebbe rimasta in silenzio, per sempre.
Avrebbe distrutto la sua creazione, assieme all’intera isola.
Con la mano dolorante e un sorriso sulle labbra, fece per spingere la leva verso il basso.
1.
Un giorno un uomo si svegliò dal proprio incubo. Era a casa, la luce filtrava dalle finestre e tutto sembrava quiete, tutto sembrava pace.
Accanto a lui, una ragazza bellissima dormiva con la testa affondata nel cuscino. L’uomo ne toccò la chioma lunga, nera e le braccia esili. Lei aprì gli occhi, illuminando la vita dell’uomo con due perle turchesi. Lo baciò e gli carezzò la fronte: -Hai sudato stanotte- disse: -…la febbre è scesa.
Lui la guardava pieno d’amore: -Lena,- mormorò: -…ho fatto un brutto sogno…
Lei lo baciò di nuovo: -Era solo un sogno,- disse: -…un brutto sogno.
12/08/2009, Marcello Nicolini