Rieccoci caro lettore con un’altra infornata di libri nerissimi!
L’ordine è rigorosamente casuale, in quanto ho una certa allergia per l’ordine.
Parto da Giancarlo Liviano D’Arcangelo col suo “Le ceneri di Mike”, Fandango 2011. Libro sull’horror vacui della provincia italiana, incentrato sulla vicenda del rapimento della salma di Mike Bongiorno. D’Arcangelo costruisce un libro di fiction giornalistica prendendo il suo trenino e spostandosi sui luoghi del furtaccio, per la precisione a Dagnente, frazione di Arona, lago Maggiore. Il nostro pennella le sue pagine con una prosa ricca di descrizioni d’ambiente (il cimitero, quasi un set da fiction horror televisiva, dove potrebbe comparire benissimo Lorenzo Flaherty in tenuta bianca da astronauta) e di personaggi pronti per un cinepanettone. Il libro procede quasi a caso, senza una vera struttura. D’Arcangelo staziona nei pressi del camposanto, spia il loculo vuoto e spia coloro che lo spiano, attratti da un voyeurismo oltretombale. Poi compaiono i capannelli di curiosi, ognuno con la sua teoria sul fattaccio, dal satanismo (e a tratti, riaffiora nella storia, quella straordinaria figura umano/letteraria di Marco “Bambini di Satana” Dimitri, tirato in ballo anche per questa occasione!), all’imprenditore con l’acqua alla gola per via della crisi e in cerca di grano, fino a Berlusconi, capace di rapire la salma del telepredicatore per portarselo tra la sua gens, nel mausoleo privato ad Arcore. D’Arcangelo segue i suoi casi umani, li lascia sfogare, presentarsi al lettore in tutta la loro desolante superficialità. Esemplare il caso (ma sarà vero? Il bello di questo libro è che le persone parlano e sono esattamente come te le immagineresti, senza un briciolo di fantasia, troppo false per essere vere, o troppo vere per essere vere…) del tipo, sempre incontrato pascolando tra il cimitero e il paese, che ripercorre tutta la sua vita da immigrato del Sud Italia, ripensando ai vari show condotti dal superMike nazionale, show che hanno dato un senso al suo esistere. Un libro che rimane aperto, insomma, sospeso, interrotto. La salma verrà ritrovata, ma D’Arcangelo si ferma prima, sfuma sullo spaccato di provincia belloccio e lampadato pronto ad affogare dietro all’estasi momentanea di un nuovo caso di cronaca. Praticamente un romanzo horror sull’Italia di adesso, di questo preciso istante. Direi indispensabile!
Ed eccoci a “Savana Padana”, primo romanzo di Matteo Righetto, una delle teste pensanti del movimento “Sugarpulp”, roba sopraffina, ben presentata e pubblicizzata, con gli agganci giusti in quel di Padova, ma anche con della buona sostanza da comunicare ai suoi lettori. Righetto ha una prosa orale, impastata dal dialetto del posto, una prosa piana e piacevole.
La storia, semplicissima, galleggia tra cinesi che si comprano bar della provincia per riciclo di denaro sporco e rom, sinti del paese che adorano S. Antonio e aspettano la festa del santo per svaligiare le case del Piave. Ci sono poi carabinieri che se ne vanno a puttane e concludono pochissimo e malavitosi del Brenta che nascondono la cocaina nella statua del santo patrono. A me è piaciuto molto. L’ho trovato capace di descrivere gli intrecci, persino demenziali, di piccola criminalità e grande criminalità che si spartiscono la geografia del Nord. Un libro che ha il coraggio di essere fino al midollo di genere, di un genere che guarda al poliziottesco italiano, rivisto, corretto e aggiornato a questi giorni di fine impero.
Sempre del buon maestro Righetto (che, a questo punto, dobbiamo aggiungere alla lista degli scrittori cazzuti, ovvero: Angelo Petrella, Stefano Di Marino, Alan Altieri e altri che scopriremo) è “Bacchiglione blues”, edito dalla Perdisa Pop, una casa editrice che dedica molti libri alla causa del genere. Per “Bacchiglione” vale il medesimo discorso dell’altro. Anche qui i punti di forza sono nell’immergere la vicenda noir in una pianura padano veneta congelata tra le rive del Bacchiglione da una parte e il mare Adriatico dall’altra. I campi di soia e barbabietola fanno da cornice ai soliti destini criminali: personaggi di piccolo cabotaggio, impoveriti dall’ignoranza e dalla meschinità; immigrati, baretti di periferia e l’ombra della crisi economica che mette in ginocchio gli industrialotti del posto, costretti ad aprirsi a traffici illeciti (riciclo di rifiuti tossici) per contrastare la concorrenza cinese. Personalmente impazzisco per libri come questo, capaci, oltre a miscelare una vicenda basica fatta di sangue&pallottole, di descrivere e raccontare il mondo nel quale ci troviamo a respirare. Un grande merito, per nulla scontato. Un esempio? Prendetevi una qualunque delle fiction poliziesche uscite in questi ultimi anni. I prodotti capaci di raccontare qualcosa di scomodo e preciso si contano sulla punta delle dita. Da noi, robe come “The Shield” o “The Wire” te le sogni. In letteratura, invece, sono una realtà, grazie ai ragazzi “Sugarpulp”!
Non passi sotto silenzio un altro libretto esile esile di qualche anno fa, un libretto delle edizioni e/o (bravi, bravissimi!) scritto da Massimo Carlotto, pure lui di Padova e padre tutelare dei neonoir veneti. Di Carlotto ho letto quasi tutto, più per riflesso condizionato che vera passione. Ma questo volumetto intitolato “Niente, più niente al mondo” lo trovo davvero splendido. Riprendo le ultime parole su Righetto. Il racconto sembra uscire da una storia triste e squallida di cronachetta alla Salvo Sottile. Una madre paranoica e consumata che ammazza la figlia. Il tutto in una periferia degradata, povera di Torino. Il racconto è un flusso di coscienza, un monologo interiore lucido e spietato, capace di illuminare la miseria e la disperazione di una vita da discount. Vita da discount, vite da discount, costrette a contare i pochi euro nella tasca prima di fare la spesa al supermercato. Vite consumate già a quarant’anni, senza la speranza di un riscatto, che è sempre quello offerto/sognato dalla scatola televisiva. La voce narrante è quella della madre. Una che si accorge di non avere altro futuro se non quello di spaccarsi, lei e il marito, la schiena per nulla. L’unica speranza rimane la figlia caruccia. Una da crescere a pane e Maria DeFilippi, nella speranza che un Lele Mora qualsiasi la noti e un Corona qualsiasi se la scopi. La dimensione da incubo è già quella di “Reality” di Garrone. Purtroppo però, la figlioletta caruccia si accontenta, non sogna i sogni del piccolo schermo e già si avvia sulla china discendente dei genitori col suo sgobbo da precaria a vita fatto di lavoro dal lunedì al lunedì per 600 euro al mese. Ripeto: la lucidità spietata del monologo è un diamante che taglia i pensieri, un’ecchimosi, un solco perpetuo tra i mortidifame e il pianeta dei benestanti. Libro morale. Come tutti i polar, vero?
Proseguo la disamina.
Tocca a “La ballata di Mila” di Matteo Strukul, altro socio fondatore del movimento “Sugarpulp” padovano. Strukul ha una scrittura simile a quella dell’amico Righetto, infatti si sente che le basi culturali sono simili e che c’è una condivisione di fondo per un certo universo narrativo di riferimento (il nuovo noir americano di Gishler e Lansdale su tutti). Strukul racconta le gesta di una killer ventenne coi dread lunghi e rossi che deve sgominare due bande criminali in quel di Padova (che, a questo punto, deve essere ufficialmente considerata la città della rinascita del noir italiano). La ragazza si chiama Mila Zago e si muove come in un videogame. Registra le sue imprese e le spedisce a una struttura di sicurezza, una lobby europea semiufficiale sulle Alpenstrasse, le Alpi tedesche, per diventare una body hunter con licenza di uccidere. Le ossa se le fa su un boss veneto, colpevole di averle trucidato il padre poliziotto e una triade cinese. Il boss ha vari rami di attività: dallo strozzinaggio, al traffico di armi, rapine a mano armata, giri di escort di lusso, eccetera. La rabbia di Mila verso il Boss (che, da ragazzina l’ha pure fatta selvaggiamente stuprare) è una rabbia edipica, in puro stile western. La ballata di Mila Zago è un western contemporaneo che cita apertamente Leone e ricorda anche la disincantata lucidità dei “Padroni della città” di DiLeo. Poi, come per Righetto, Strukul è bravo a tratteggiare il territorio veneto su cui fa muovere i suoi personaggi, intersecandoli con le nuove mafie straniere che, per infinocchiare i leghisti, imparano l’italiano alla perfezione e danno l’impressione di essere completamente integrati col territorio. I laboratori clandestini cinesi con turni da 18 ore, sono la globalizzazione cinese, l’assalto sotterraneo all’economia del Nord/Est, un modo per divorare il tessuto sociale dei luoghi in cui si insidiano. Sono questi intrecci di fondo e la felice semplicità della trama western a fare de “La ballata” un romanzo piacevole e interessante, preludio ad altri futuri massacri della nostra feroce sugarbaby. Per Strukul un esordio con onore.
Passiamo a Romano De Marco e al suo libro d’esordio “Ferro e fuoco”, pubblicato per la prima volta nella collana prestigiosa dei “Gialli Mondadori” nel 2009 e poi ripubblicato meritoriamente dalla Pendragon nel 2012. Si tratta di un romanzo robusto ispirato alle vicende della Uno Bianca, con una banda di rapinatori assassini che mettono, appunto, a ferro e fuoco Roma, anziché la Romagna. A dover mettere il sale sulla coda ai killer (denominati dalla stampa i “cavalieri dell’apocalisse”) il capitano dei “caramba” Rinaldo Ferro, uno che è stato cresciuto in Giappone e ha imparato tutto quello che un essere umano può imparare per spezzare le ossa a chiunque. Oltre a Ferro, anche le altre caratterizzazioni sono molto spinte, stile ultra macho con venatura intimista (della serie: anche i duri hanno un’anima!). L’intreccio del romanzo è solidissimo e rimanda alla gloriosa stagione del poliziottesco che fu. E’ sempre un piacere leggere libri così, capaci di rinfrescare il panorama letterario di genere. De Marco è bravissimo soprattutto nel costruire la trama, infittendola, nei punti giusti. L’unico neo, a mio sindacabilissimo avviso, è la lunghezza del libro, che lo appesantisce, rivelando una scrittura eccessivamente presa dalla resa visiva di quel che racconta, adattando il tessuto narrativo a quello del cinema. Ne esce un racconto troppo tecnico, senza spazi, momenti di analisi letteraria, atmosfera o divagazioni anarchiche. Ecco, se c’è proprio qualcosa che manca è l’atmosfera. La Roma che fa da sfondo alla storia è anonima, atemporale. Al Governo potrebbe esserci Craxi come Berlusca, potrebbe esserci la crisi, il precariato come il paese del bengodi, tanto sarebbe ininfluente. A De Marco piace l’action e ci annega dentro senza un attimo di sosta. Potremmo dargli torto? Complessivamente ho preferito le rappresentazioni del tessuto sociale di Righetto e Strukul, ma con questo non voglio assolutamente dare una lettura negativa del libro. Ci siamo capiti. Compratelo!
Facciamo un piccolo passo indietro e torniamo a un altro ragazzaccio della “Sugarpulp band”, tale Carlo Callegari, altro padovano scrittore polar, autore del romanzo “La banda dei tre”, edito dalla Fanucci nella nuova collana “Nero italiano”. Si tratta di una storia assimilabile, per gusto, stile e velocità, ai canoni del movimento letterario sugar di cui abbiamo parlato. “La banda” propone le peripezie di uno sbirro infiltrato sotto copertura costretto a frequentare un’umanità delittuosa dai nomi pittoreschi : il nano, il boa, ecc. Con questi metterà in piedi un colpo ai danni di alcuni mafiosi russi e finirà in massacri e pallottole. Callegari è bravo a tenere un registro ironico e tragico al medesimo tempo, dipingendo la discesa nel maelstrom dell’ennesimo sbirro fuori controllo. La prosa è una panoplia criminale fatta di slang e io narrante completamente immerso nel flusso adrenalinico degli eventi. Parole calibro 35. Action e sfondi made in Italy al 100%. Consigliato ai malati di poliziottesco.
E chiudiamo questa lunghissima tornata di pagine con il pezzo forte, quello che mi è piaciuto di più. Monica Zornetta, anche lei figlia del nord/est come i ragazzi sugar, anche lei esperta di cose del nord/est, torna con un volume per la Dalai Editore, “Ludwig” cronaca giornalistica (ma con elevatissima dignità letteraria) delle gesta del duo neonazista Furlan/Abel. Il libro ricostruisce bene le atmosfere e gli intrecci di quell’Italia precipitata nel ’77 e i primi ottanta. Ci muoviamo tra il Veneto, Trento, Milano e la Germania, negli anni in cui avviene di tutto. Muore Moro, esplode nei cieli di Ustica il Dc9, vengono ammazzati come cani il poliziotto Boris Giuliani, Giorgio Ambrosoli, Mattarella, Pecorelli. Giusta Fioravanti ha dimesso da un pezzo i panni del bimbello televisivo e ci dà dentro coi Nar, Licio Gelli e la loggia P2 sprogettano la Res publica a loro immagine e somiglianza. A questi casini, si aggiunge una serie lunghissima di delitti atroci commessi ai danni di prostitute, religiosi presi a martellate, omosessuali, spettatori di cinema porno bruciati e ragazzi danzerecci che scampano per miracolo a un altro rogo. Delitti siglati da un fantomatico Ludwig. Chi è Ludwig? Cosa vuole? Cosa cerca? Chi sono Marco Furlan e Wolfgang Abel? Cosa si nasconde dietro i loro deliranti slogan da ultimi eredi del nazismo? Gott mit uns. Deliri. Sangue. Roghi. Monica Zornetta ci restituisce con precisione uno dei brandelli tra i più neri e squallidi della nostra storia. Un libro molto denso e coinvolgente. Nerissimo, come solo la realtà riesce ad essere. Anche qui, comprate gente, comprate!
Bene, il vostro umile cronista si ritira: ho speso troppo tempo per vergare queste notarelle veloci e superficiali; ora debbo rimettermi al giogo del padrone; il piacere della lettura lascia posto alle luci da obitorio del grande mega iper super market outlet store flessibile…