All’alba Mino rientrò a casa sua. Il golem era stato nascosto in un’abitazione disabitata nei pressi della porta del ghetto in modo che, una volta chiusa, potesse uscire fuori a sorvegliare la zona. La notizia della sparizione dei tre ragazzi arrivò anche alla comunità ebraica e tutti furono sollevati. Alla fine, si diceva, ci si era liberati di tre giovani sulla buona strada per diventare dei balordi. Mino non disse mai una parola sulla vicenda e non raccontò mai a nessuno, neanche ai suoi genitori, del golem. Quest’ultimo non è stato visto da nessun’altra persona fuorché il suo padrone ed è ancora là, nascosto in quella casa. Ha servito la comunità senza che questa lo sapesse. Chissà perché, infatti, durante gli anni delle deportazioni naziste, nessuno degli abitanti del ghetto è stato toccato?
IL GOLEM DI MINO
<<Mino! Alzati! Farai tardi a scuola!>>. Era già la terza volta che la mamma chiamava Mino per alzarsi dal letto. Era al piano di sotto, affaccendata come al suo solito nella preparazione di biscotti e ciambelle. Il bambino sapeva benissimo che se non fosse sceso subito, pronto, con la sua divisa ordinata, le scarpe allacciate e i capelli pettinati, sarebbe salita la madre. Mino, dal suo letto, fissava la porta, in attesa, e poi fuori dalla finestra. Doveva fare molto freddo e la strada doveva essere ghiacciata. Nonostante quest’ultima riflessione si alzò e si vestì, in seguito si pettinò per bene guardandosi nello specchio: un ragazzino paffuto, con i capelli castani, lo sguardo un poco triste e le guanciotte rosse. Scese per la colazione.
<<Era ora! Stavo per venire a prenderti. Avanti, siediti lì. Mangia la torta, è stata appena tolta dal forno>>. Mino prese il tovagliolo e se lo sistemò sulle gambe. Non poteva sporcare la divisa. Bevve in silenzio la sua cioccolata calda, mentre la mamma continuava a preparare dolci. Aveva un piccolo negozietto all’angolo, i suoi dolci erano i più rinomati del ghetto. <<Non voglio andare a scuola, mamma. I miei compagni mi prendono in giro, mi scherzano…>> Mino non poté finire la frase che sua madre gli aveva già risposto avvicinandogli la cartella: era un’abitudine quella di prepararla la sera prima e lasciarla in cucina. Dopo aver dato un bacio alla mamma e sistemato il cappotto, il bambino si avviò verso la scuola, triste e immerso nei suoi pensieri. Era diverso tempo che veniva preso di mira da tre ragazzini della sua scuola, più grandi, che non facevano altro che tirargli addosso pezzi di bucce di castagna e pallette di carta bagnata. Venivano da un quartiere diverso dal suo e lui non aveva modo di difendersi. Una sera, a cena, provò a esporre questo suo problema a suo padre, il rabbino Giona. Era un uomo rispettato per la sua integrità e saggezza ed era un buon padre. Ma in quella situazione la risposta non convinse troppo il suo ultimogenito:
<<Figliolo, il mondo è pieno di prepotenti. Lasciali perdere: troveranno prima o poi qualcuno più prepotente di loro>>.
La scuola si trovava fuori dal ghetto: bisognava attraversare tutta l’isola, passare diversi ponti. Una passeggiata che Mino faceva volentieri, di solito. Fino a due anni prima veniva accompagnato dalla sorella Miriam che ora, però, frequentava il ginnasio. Mino arrivò a scuola. Da lontano vide i tre bulli che aspettavano all’ingresso, importunando chiunque passasse. Rimase interdetto pensando a cosa doveva fare. Non poteva non entrare a scuola, i suoi genitori lo avrebbero saputo e lo avrebbero punito. E poi, se non fosse entrato, dove sarebbe andato? Si avviò all’ingresso, aspettandosi i soliti insulti e scherzi. Passò dal portone e i tre bulli lo squadrarono solamente, bisbigliando fra di loro. Mino affrettò il passo. Non poteva crederci: dopo mesi di angherie finalmente era stato lasciato entrare in pace. Decise di non cantare vittoria troppo presto, la giornata era ancora lunga benché fosse iniziata bene. Pensò al consiglio che gli aveva dato suo padre: forse non era così stupido. Quasi sorrise. Entrò in classe e andò a sedersi al suo banco e lì la sorpresa: sul suo tavolino era scritto, a lettere cubitali, “sporco ebreo”. Mino rimase sconcertato, non riusciva a dire una parola. Attorno a lui si avvicinarono i compagni di classe e il loro vociare si fece sempre più forte e assordante. Mino buttò la cartella per terra e corse fuori, piangendo disperato. Sapeva benissimo chi aveva scritto quegli insulti. Non voleva che quei balordi lo umiliassero per le sue origini. Corse senza neanche pensarci troppe volte dal preside, che era un cliente affezionato della madre e lo conosceva da quando era piccolissimo. Mino piangeva, si mangiava le parole, ma il preside capì la situazione e decise di mandarlo a casa accompagnato da un bidello. Scrisse una lettera alla madre del bambino in cui consigliava che quest’ultimo restasse a casa almeno una settimana. Poi, quando Mino fu a casa sua, chiamò i tre bulli. Erano tempi difficili, pensava il preside. Non era mai stato un fascista e aveva moltissimi amici ebrei. Lo stesso fidanzato della sua prima figlia lo era e non si sarebbe sentito apposto in coscienza finché non avesse fatto qualcosa per Mino. Erano tempi in cui sentiva che si stava scatenando l’odio per gli ebrei anche in Italia, nel suo piccolo non poteva non intervenire. Perciò punì i tre bulli espellendoli subito, senza dar loro modo di difendersi.
A casa il rabbino Giona continuava a leggere la missiva del preside. Impossibile, pensava, che questa cosa fosse successa proprio alla sua famiglia, a suo figlio. Sapeva di quanto stava capitando in Germania, ma fino ad ora aveva creduto che il suo piccolo mondo fosse fuori da questi problemi. La mamma scaricava la tensione preparando dolci e Miriam la aiutava, singhiozzando un po’. Mino era a letto: il suo sguardo era tornato triste. Quando la mamma gli portò la cena, si sedette sul bordo del letto e pianse. Non succedeva da tempo, la mamma era una donna molto forte. Chiese scusa al suo bambino,accarezzandogli la fronte. Gli disse che pensava che non volesse andare a scuola solo per pigrizia. <<Non immaginavo tutto questo, amore mio. Chissà da quanto tempo andava avanti…>> singhiozzò. Mino la abbracciò e le diede un bacio sulla guancia.
I giorni passavano e Mino non aveva ancora ripreso la scuola: passava le sue mattinate a studiare in sinagoga col padre e il pomeriggio in negozio con la madre, coccolato dai clienti. Sembrava che avesse ritrovato un po’ di tranquillità. I suoi genitori avevano deciso di toglierlo dalla vecchia scuola: troppo pericoloso, benché riconoscessero che fosse una sconfitta. Lo iscrissero in una scuola poco distante da casa, all’interno del ghetto. D’altronde, si dicevano i genitori, questa decisione era solo un anticipazione su quelle future. In occasione di quanto successo al loro bambino, prestavano più attenzione a quanto, di poco , si sapeva circa la situazione degli ebrei in Europa. Si paventava anche in Italia l’avvento delle leggi razziali che già erano messe in pratica in Germania. Nella nuova scuola Mino doveva portare una nuova divisa: una camicia azzurrina su dei pantaloni al ginocchio, una giacchetta e un cravattino blu. Si guardò allo specchio il primo giorno: si sentiva diverso. Sperava di non incontrare nessun bullo nella nuova scuola.
Quella mattina si alzò presto, si lavò e si vestì, si pettinò e scese a fare colazione. Per l’occasione la mamma gli aveva preparato la torta al cioccolato che gli piaceva tanto e il papà, che di solito a quell’ora era già andato in ufficio, era seduto in cucina sorseggiando il caffè. Guardava il suo bambino con tenerezza, sussurrandogli frasi dolci che potessero essergli di conforto. Il primo giorno di scuola era sempre un po’ terrorizzante, soprattutto dopo una brutta esperienza. La mamma preparò sul tavolo la merenda di Mino e il piccolo si avviò verso la nuova scuola. Mentre camminava lungo la via continuava a pensare a una storiella che gli aveva raccontato suo padre. Parlava di un rabbino che, per difendersi e per tenere ordinata la sua sinagoga, creò un uomo gigante dalla terra e sulla cui fronte scrisse la parola VITA. Il mostro, il golem, difese il suo padrone, era un mostro buono, ma c’era un problema: continuava a crescere! E allora il rabbino decise di scrivere sulla sua fronte la parola MORTE. Il papà di Mino continuò il racconto dicendo che il golem sarebbe dovuto scomparire, ma purtroppo questo non avvenne e il rabbino decise di nasconderlo nella soffitta della sua sinagoga a Praga. Pareva che fosse ancora lì e Giona aveva promesso a suo figlio che sarebbero andati a cercarlo. Forse la promessa di quel viaggio, forse l’idea di crearsi un difensore da sé, fatto sta che Mino non pensava ad altro. Se fosse stato possibile avrebbe sbaragliato i bulli da solo. Ma ormai il problema era stato risolto.
La nuova scuola era decisamente più piccola di quella vecchia ma l’aspetto era sempre quello: serioso e un pochino inquietante. Mino, fermo davanti alla scala d’ingresso, con la sua cartella sottobraccio, sospirò ed entrò. Sulla porta venne preso da una persona anziana che conosceva: era la signora Rachele, la professoressa di latino, che lo accompagnò prima dal preside e poi in classe. Aveva promesso ai suoi genitori che si sarebbe occupata del loro bambino. La classe sapeva già di quanto accaduto a Mino: nel ghetto tutti lo sapevano e i nuovi compagni furono molto cordiali.
I mesi passavano e Mino aveva davvero riacquistato la felicità e la tranquillità: aveva dei nuovi amici e studiava con profitto come non accadeva da tempo. Un pomeriggio, dopo la scuola, decise insieme ai suoi nuovi amici di andare in un negozio fuori dal ghetto per prendere delle bilie. Aveva chiesto il permesso la sera prima alla mamma che, benché fosse preoccupata, decise di accontentare il figlio a patto che tornasse a casa prima che diventasse buio. Mino era felice: con i suoi amici si attardò nei vicoli davanti alle vetrine, nel ghetto non erano così ricche, e non si accorse di essere osservato. I tre bulletti della vecchia scuola, che dopo l’espulsione sostavano tutto il giorno sui muretti del centro, lo avevano visto con i suoi nuovi amici. Il ragionamento che avevano fatto era stato semplice: non c’era più nessun preside a difendere quel ragazzino. Decisero di seguire le loro vittime, senza fretta, e appena capirono che questi stavano tornando nel ghetto, li rincorsero urlando e chiamandoli “maledetti ebrei” e li picchiarono. Tutto si svolse in pochissimo tempo. I ragazzini, sanguinanti e piangenti, tornarono nelle loro case.
Il rabbino Giona visitò uno ad uno gli amici di Mino. Era triste e arrabbiato, sapeva di non poter fare niente per sistemare la situazione ma voleva lo stesso provare a portare un po’ di conforto. Mino, nel suo letto, si faceva mille sensi di colpa. Se non fosse stato per lui i suoi amici non sarebbero stati picchiati, forse era meglio se non si faceva vedere più in giro nel ghetto. Aveva paura che anche i suoi vicini potessero picchiarlo, perché era stato lui la prima volta a denunciare i bulli e questi, per ripicca, avevano fatto la festa a lui e ai suoi amici… Mino prendeva in considerazione qualsiasi aspetto e conseguenza di quanto successo, anche quelle che oggettivamente erano assurde.
<<Se ci fosse qualcuno con me, qualcuno che mi difendesse sempre!>> sospirava. Si addormentò alla fine, ma il suo sonno fu agitato da vari incubi. Il giorno dopo non andò a scuola, era sabato, e passò buona parte del tempo alla sinagoga. Aveva partecipato alla funzione e aveva sentito l’affetto della comunità per lui e per i suoi amici. Era come se tutti gli abitanti del ghetto fossero stati picchiati e chiunque venisse interpellato proponeva un’azione contro i bulli. Mentre Mino aspettava suo padre per tornare a casa, sentì il vecchio signor Milani accennare alla storiella del golem vendicatore: ne rimase colpito. Suo padre invece sorrideva mentre l’arzillo vecchietto sosteneva con foga la necessità di quei pupazzi di fango alle porte del ghetto. Mino chiese a suo padre se il golem esistesse davvero: non poteva mentire, dato che dovevano andare a cercare quello del rabbino di Praga! Il rabbino Giona se la cavò dicendo che si trattava di una leggenda e che anche lui ne aveva sempre solo sentito parlare.
Quella notte Mino non dormì affatto. Una vecchia tradizione non presupponeva una bugia, pertanto sul golem e sulla sua creazione poteva esserci qualcosa di vero. Rigirandosi nel letto concluse che poteva provarci: avrebbe difeso lui e i suoi amici e magari anche vendicarli. Si vestì velocemente. Scese in giardino senza accendere le luci, in modo da non essere scoperto e poi, con la terra, creò un pupazzo piuttosto tozzo e con una grossa testa. Sulla sua fronte scrisse la parola VITA. Mino pensò che forse era necessaria qualche formula magica, ma purtroppo non ne sapeva neanche una. Tirandosi in piedi si pulì i pantaloni e si diresse verso la porta di casa. In quel momento sentì alle sue spalle un rumore, una specie di verso, che lo fece girare di soprassalto: non poteva credere a quello che vide. Il suo pupazzo tozzo era in piedi davanti a lui, enorme, con gli occhi spalancati.
<<Ci sono riuscito!>> gridò Mino. Il golem non parlava, stava solo lì davanti e aspettava l’ordine del suo padroncino. Il bambino rifletté. Ora poteva vendicarsi di quanto successo. Ma come? Ci avrebbe pensato lungo la strada che portava fuori dal ghetto.
I tre bulli abitavano in un quartiere poco distante dalla vecchia scuola e Mino lo sapeva: decise di andare lì. Appena fu sotto la finestra del primo fece nascondere il golem, poi iniziò a tirare sassolini alla finestra del ragazzo, che subito si svegliò e si affacciò fuori. In quel momento Mino lo insultò e lo invitò a scendere, perché doveva dirgliene quattro e il bullo, sorridendo, si vestì subito. Appena arrivato sul marciapiede non poté fare a meno di esclamare: <<Non ne hai avute abbastanza?>> e Mino subito chiamò il golem. <<Mangialo!>> gli comandò e il golem prese per la testa il ragazzino urlante, gliela staccò e piano piano lo divorò. Finito tutto, la stessa scena si ripeté anche per gli altri due ragazzi.
04/01/2010, Roberta Lilliu