“Questo saggio è dedicato ai mad doctors con l’augurio che i loro desideri finalmente si avverino e conducano alla distruzione totale dell’umanità”
(Teo Mora, Storia del cinema dell’orrore, Fanucci 2003)
Della collana da edicola “Racconti di Dracula” delle edizioni Farca, o ERP, del baron blood Antonino Cantarella già sappiamo per aver letto (sulle pagine della Zona) del libro scritto dalla coppia da incubo Bissoli & Cozzi.
Qui vorrei, modestamente, approfondire alcuni aspetti e considerazioni che mi ristagnano nel cervello e da cui non riesco a liberarmi. Per prima cosa vorrei parlare di alcuni “Dracula”, magari della prima, ma anche della seconda edizione, quella considerata scadente anche dai pochi studiosi (Bissoli & Cozzi) che si sono dedicati alla riscoperta di queste gemme del pulp nostrano. Lo scrivo perché non sono così convinto che la seconda serie sia brutta e da buttare.
Questo il cappello introduttivo. Adesso vediamo alcuni aspetti generali.
Primo aspetto: gli autori dei “Dracula” e il loro atteggiamenti nei confronti del proprio lavoro da scribacchini dell’oltretomba.
Secondo aspetto: un legame tra i “Dracula” e il coevo cinema horror all’italiana.
Gli autori.
Compulsando il meraviglioso “La storia dei Racconti di Dracula” di Bissoli & Cozzi (Profondo Rosso Edizioni) scopriamo chi si celava dietro ai vari pseudonimi anglofobi degli autori. Ma ciò che è più interessante rilevare è l’atteggiamento di questi negri del calamaio, meglio della Olivetti lettera 22. Molti di loro, quasi tutti, sembrano/sembravano inconsapevoli o indifferenti nei confronti del loro lavoro letterario. Giovanni “Art Mitchell” Simonelli scriveva i “Dracula” su commissione del baron blood Cantarella che, di volta in volta, comunicava via telefono di cosa ci fosse bisogno, se un giallo, un horror o altro. Franco “Morton Sidney” Pratico era un giornalista alle prime armi che scriveva per la pagnotta e non per la gloria. In seguito sarebbe diventato una firma prestigiosa del quotidiano “La Repubblica” e a lui, del genere horror, non fregava molto. I libri li scriveva in fretta, una decina di capitoli in tutto in una settimana, anche quattro libri al mese. Sveno “Doug Steiner” Tozzi è una eccezione, in quanto nel suo lavoro ci credeva maggiormente, e qualche capolavoro era anche consapevole di averlo scritto. Libero “Frank Graegorious” Samale era uno psichiatra, un medico e scriveva tra una visita e un’altra e non si dava troppa importanza. Giuseppe “Red Schneider” Paci era addirittura un giudice, uno che conviveva con l’amara sintassi dei codici ed evadeva nelle brume dei “Dracula” solo per la pagnotta, come Pratico. Gualberto “Paul Carter” Titta era un attore di cinema e teatro. Aldo “Mike Chandler” Crudo era uno sceneggiatore e scrittore a tempo pieno. Anche Mario “Harry Small” Pinzauti era uno sceneggiatore e regista (di qualche spaghetti western) e, successivamente, perito balistico al foro di Roma! Mario “Daniel Scott” Ratti forse è quel Filippo Walter Maria Ratti di “La notte dei dannati”, cult trash assoluto del 1971. Max Dave, forse l’autore più conosciuto della collana, era Pino e Carlo Belli, il primo dandy conte nella Roma della dolce vita, uno morto a 49 anni perché ci dava dentro col bere. L’altro, Carlo, era il fratello ed era medico e scriveva buona parte dei libri che poi il fratello piazzava al baron blood Cantarella. Pino forse ci credeva di più, Carlo, da medico, era uno coi piedi per terra e non voleva si sapesse in giro che lui scriveva la notte quei romanzetti da pendolari.
Quindi?
Cosa si evince?
Che i primi a non credere nei “Dracula” (come valore letterario) sono stati i loro autori, tutti borghesi (o ceto medio) in via di affermazione economica nell’Italia del boom; gente che scriveva per arrotondare gli stipendi ufficiali e che traeva ispirazione dai film gotici che passava allora il convento (e ne passava), oppure dal retroterra folkloristico e regionale italiano, per intenderci da quella matassa meravigliosa di storie antropologiche alla De Martino. Il fantastico o i mostri di queste storie infatti altro non sono che il perturbante, il rimosso, lo spettro di una povertà e arretratezza che l’Italia degli anni Sessanta si sente di aver appena superato, ma non è ancora certa, sicura di aver vinto. Il mostro, l’aberrazione fantastica come paura di ripiombare nella miseria, fisica e morale.
E poi.
I “Dracula” erano prodotti commerciali che tiravano dalle 4 alle 6000 copie effettive a numero su tirature da 25.000 copie, di cui una buona parte rimaneva invendute e tornavano all’editore come rese, per finire imbustate dai grossisti delle spiagge. Romanzi, lo abbiamo detto, che venivano scritti di getto, senza troppe finezze retoriche o di editing (forse non venivano nemmeno riletti, o perlomeno non tutti – piccola parentesi: questo ci dovrebbe far riflettere sulle ossessioni contemporanee che vogliono l’editor figura principe nella filiera editoriale, come dire che è più importante saper scrivere soqquadro con due “Q” e non due “C” che raccontare una storia… l’editor serve solo a mettere un filtro editoriale per far passare solamente i libri di amici di amici o figli dei figli di amici o porcate commerciali costruite a tavolino compulsando i dati di vendita delle ultime vaccate americane… – leggetevi a tal proposito il commento di Edoardo Brugnatelli, editor Mondadori, su “Nazione Indiana”).
E chi li leggeva i “Dracula”?
Le donnine nude o seminude disegnate sulle copertine da Mario Caria, Sbraga, Ventrini, Gasparri, lo stesso Pinzauti attiravano frotte di ragazzini che li leggevano di nascosto la notte, sotto le coperte, come i ragazzini americani facevano, all’insaputa dei genitori, con i “Tales from the crypt”. Oppure venivano letti dai pendolari annoiati, attirati dalle copertine pruriginose. Insomma, non certo un pubblico di intellettuali, ma gente di bocca buona, che si accontentava di qualche spavento, un po’ di violenza e una spruzzatina di sesso.
Dal punto di vista stilistico, letterario, i “Dracula” sono tutti piuttosto aderenti a uno stile da feuilleton ottocentesco trascurato, dove la descrizione è funzionale, più che alla storia, alla contingenza di tirar via pagine su pagine e finire un romance in un batti baleno. Le descrizioni ambientali, più che fisiche, e quelle architettoniche o di colore (la notte che si tinge di… o le diramazioni cromatiche del giorno) riempiono moltissime scene dei “Dracula”. Inoltre la scrittura è lontanissima da certe agilità visive del coevo cinema anni Sessanta, anche se, in certi passaggi se ne legge in controluce una qualche influenza (soprattutto verso i cromatismi barocchi di Bava: “L’alta figura di Janos si allontana con passo lento e solenne in direzione della cima del colle. Intorno a lui un alone di luce verdastra permetteva (…) di seguirne il suo cammino.” Questo stralcio viene da “Una fossa bianca di luna” di Graegorius ed è del 1965, quindi contemporaneo al Bava primo periodo). Oltre alle descrizioni, ampio ricorso a una serie di aggettivi (qualificativi), spesso aderenti al dettato del sublime poetico leopardiano, cioè tendenti alla creazione di un senso arcano, meraviglioso e indefinito, incerto, vago. Altro sullo stile: le caratterizzazioni psicologiche dei personaggi sono sempre minime, da marionette, e questo è tutt’altro un difetto per i generi, anzi. A proposito riporto fedelmente un lungo e illuminante passo di Gianfranco Galliano sulla forma del genere: “Genere è una parola magica, di grande importanza, perché fa in modo che anche lo spettatore più sprovveduto metta da parte, almeno entro certi limiti, l’aspetto identificativo o peggio imitativo che assume quando si trova di fronte a un film che proponga tranches de vie in cui riconoscersi, o modelli da imitare: il genere, grazie alla sua inverosimiglianza, rispolvera l’aspetto del gioco autoreferenziale dell’arte (…) il Luigi Montefiori “cannibale” di conigli sia veramente un giusto rimedio, malsano quanto basta, per reagire ai miserabili dibattiti che prendono a pretesto l’arte per parlare dei problemi che per l’arte sono solo un pretesto, dimenticando che il primo passo per trattare gli individui come marionette è proprio trattare i personaggi come individui. Col genere, insomma, il punto di partenza esistenziale – qualunque esso sia – viene compiutamente bruciato e ricostruito solo come entità aliena con la quale non ci può essere emoscambio neppure nei casi più gravi, a meno di non voler restare folgorati da un sangue artificiale, quello della finzione, che non sarà compatibile col nostro.”
E che rapporto intercorreva tra i “Dracula” e il cinema del periodo [1]?
Ci fu questo rapporto?
Si, certo.
Nel 1957 c’è la rinascita dell’horror di celluloide con la Hammer e il “Dracula” di Fisher. Il film arrivò in Italia nel 1958 e fu un successo bestiale. I produttori italiani fiutarono l’affare e nacque il gotico dei vari Bava, Freda, Margheriti. Gli scrittori dei “Dracula” conoscevano questi film, alcuni ci lavorarono come Simonelli, stretto collaboratore di Margheriti.
Nei ’70 le cose cambiano un pochino e forse sono i film horror ad andare dietro ai “Dracula” e ai geniali e dilaganti fumetti horror porno di Renzo Barbieri e soci. Oltretomba, Sukia, Zora, Jacula, Vampiro, Lo scheletro, Vampirissimo, L’aldilà, Frankenstein calcano ancora di più la mano del gore, del grottesco e del sesso, sempre più esplicito. Film come “Il plenilunio delle vergini”, “Il sesso della strega” o “Riti, magie e segrete orge nel 300” cosa sono se non dei “Racconti di Dracula” su pellicola. E un “Dracula” di celluloide è anche il tardo e bellissimo “Bloody Psycho” di Leandro Lucchetti, scritto appunto da Giovanni Simonelli.
E un cerchio si chiude.
Un cerchio di sangue.
Passiamo ora a qualche “Dracula”.
IL SEGRETO DI NOSTRADAMUS di Max Dave.
Parte col protagonista che è un medico condotto spedito in un villaggio nero della Scozia, un posto di folklore e superstizioni che si tagliano con il coltello. La prosa è mostosa, descrittiva, il plot lentissimo, dilatato su pochi eventi, quasi nessun colpo di scena. Il medico racconta la vicenda, poi muore pazzo in un manicomio e la voce narrante diventa, senza soluzione di continuità, quella del pulotto locale in bicicletta. In mezzo c’è il solito castello maledetto, un fantasma femminile materializzato dalla profezia di Nostradamus (come lo spettro di Crookes). La donna spettro è concreta e ci si può fare all’amore. Poi dappertutto si respira un profumo acre di aldilà, un posto simile a quello che, dieci anni dopo, avrebbe descritto Fulci. Sentite: “Mi trovai a vagare in un mondo grigio, senza forma né suoni… Sapevo di essere morto e in me era rimasta una struggente nostalgia di ciò che era stata la mia vita… Oggi so che tutti coloro che muoiono di morte violenta per secoli non riescono a togliersi questo dolore… forse è una forma di espiazione…”.
LA BARA SULLA RIVA di Red Schneider.
1966, ancora un “Dracula” prima season, uno di quelli che Bissoli da Cerea salva. E infatti è magnifico. Irlanda. Atmosfera a 1000, folklore locale, situazioni da Lovecraft della maturità, con gli abitanti, i primitivi del posto abbigliati con le solite tare lombrosiane. E poi le superstizioni ombrose, dure da smorzare. La paura e l’usanza di adagiare le bare di giovani fanciulle, morte per mali misteriosi, sull’arenile dell’Oceano, così che le acque se le prendano e le portino via. E l’immagine della bara che galleggia sulle onde è potentissima, una premonizione di quel che sarà “Levres de Sang” del poeta Rollin. E’ il cinema exploitation anni Settanta horror erotico calato dentro un romanzetto nero da edicola della stazione.
IL TESORO DEI CAVALIERI NERI di Guy de Saint Sever.
1972, un “Dracula” tra quelli della second season considerata scadente. Guy de Saint Sever, alias Gualberto Titta. Copertina di Mario Caria con la solita pin up discinta con mutandine nere e vitino a vespa, una mano in primo piano che brandisce un piede di porco e, sullo sfondo, delle nicchie con dei teschi. Ok. Incipit atmosferico. Pirenei. Neve abbondante, tormenta. Il solito paesino dell’ombra, Maubourg, isolato dal resto del mondo. Un medico condotto, la sua mogliettina borghese e inquadrata, una svedese mignotta che arriva a scombinare tutto, Ursula, un nipote fustaccione ed ex parà, una ragazzina medium e delle teste di templari mummificate e riposte nelle cripte di una vecchia chiesa. Presto gli elementi gotici si amalgamo con furia trash (quella che non piace all’ecumenico Bissoli, fedele all’atmosfera senza eccessi scopofili e gore); il furibondo istinto del sesso avviluppa, come pioggia mielosa, la morale cattolica perbenista (diciamo democristiana) del mediconzolo, che subito si fotte Ursula e poi si tormenta per il tradimento verso la moglie. La vicenda prosegue con intrighi strani e la provincia puritana che trema sotto strani delitti, squartamenti gore pre-Clive Barker (“il taglio netto, preciso come un colpo di bisturi, incideva la carotide, in profondità… il muscolo sterno-cleido mastoideo era troncato con politezza chirurgica”). Le teste dei templari sono una sottile citazione filosofica delle “Operette morali” del racconto di Federico Ruysch, in quanto, anche qui, si dice, si tramanda che, in una certa data di ottobre, in una certa notte, a una certa ora, le teste dei cavalieri si mettano a favellare. Magnifico. Ancora pura exploitation letteraria pulp da edicola degli anni di piombo!
DIECI BARE E UN SEPOLCRO di Art Mitchell.
Un castello medievale su un’isola scavata dal vento incessante, dieci ospiti bene (cioè ricchi, di alto lignaggio, beautiful people ecco) chiamati da un conte misterioso, il conte Annmoore, uomo dal casato risalente alla Guerra delle 2 Rose. Il clima ci fa pensare a “7 femmine per un sadico” di Michael Lemoine, anche se il plot di base è quello di “10 piccoli indiani” rivisto in chiave horror sovrannaturale, coi personaggi chiusi dentro un incubo che mescola vampirismo (declinato con originalità, per crederci basta leggere i dialoghi sul sonar e gli ultrasuoni) e bibliofollie. Passaggi segreti, cunicoli, sepolcri, insomma sembra di vedere su carta un gotico alla Polselli prima maniera. Mitchell/Simonelli è qui al meglio della sua arte. La scrittura è curata, scorrevole, anche ironica nel taglio dei dialoghi. Si avverte che Simonelli, tra tutti i vari scrittori “improvvisati” dei Dracula, è uno che di letteratura ci capisce. La sua pratica con le sceneggiature, con le scalette, i trattamenti lo aiuta nel distribuire bene i personaggi, gli avvenimenti. Libro molto bello e godibile. In coda al volume un paio di vignette umoristiche da giornaletto porno, un paio di avvisi al lettore e una pubblicità del rasoio a due lame Gillette. Era il 1973, chapeau!
I SATANISTI di Jeremy Selenius.
Jeremy Selenius (???) è uno con le palle quadre. Scrive benissimo e ha un lessico decisamente più vario rispetto a molti colleghi. Forse pecca un pochino nel plot (scontatello), ma questo “I satanisti” (seconda season 1-5-1974) non è male. Anzi. Comincia con una specie di litania-invocazione a Satana. La prosa è abbastanza moderna, meno mostosa rispetto al periodare dei Paul Carter e Frank Graegorius: le frasi sono spesso minime, allacciate tra loro da un uso insistito di domande retoriche e climax. Le scene dei sabba ricordano molti film satanici pecorecci del periodo e il demone femmina sembra uscito di peso da quel capolavoro all’incontrario che è “I riti erotici della papessa Jesial” di Mario Mercier (anche se, la mia, è pura suggestione, infatti il film di Mercier è dell’anno successivo). Insomma, ingroppate sataniche, un castello, una fanciulla illibata capitata tra gli adoratori scoperecci, un bosco eterno e immobile e una zingara gitana che fa tanto Lina Romay in un Jess Franco movie (pace all’anima loro!). Eccovi alcuni passaggi: “Il deliquio dei sensi, a lungo torturato dall’attesa, esplose con sempre più accanimento, quasi che la rabbiosa voglia di rompere ogni legame morale fosse andata di pari passo con la voglia di rompere, profanare, le altrui carni con reciproca soddisfazione”. Debbo continuare?
QUALCUNO TORNA INDIETRO di Daniel Scott.
Dal volume di Bissoli & Cozzi leggo che, forse forse, Scott è il regista Filippo Walter Ratti. Come sarebbe bello se fosse vero. Pregherei il Cozzi di sfrugolare tra le sue amicizie nella gang del cinema e trovare conferma. Comunque tenere tra le mani uno dei lavori dello Scott è sempre pregevole. L’uomo, in effetti, ma potrebbe benissimo essere una suggestione, scrive così come il Ratti regista filma le sue opere. Le atmosfere dei romanzi di Scott rimandano a film sleasy, sudaticci (leggi gotici da sottoscala) come “La notte dei dannati”. Questo romanzetto è uno dei tanti (ma avrei potuto parlare anche del magnifico “La frusta di fuoco”, che miscela vampire erotiche, cascami ottocenteschi e cavalieri ciechi) dello Scott. La storia di questo “Qualcuno torna indietro” è una specie di Harmony con venature spiritiche. Si discetta di trasmigrazione dell’anima e amore oltre la vita. In certi momenti non si capisce nemmeno più cosa si legge, di cosa si parla, tanto la vicenda scivola nel grottesco (credo involontario), ma che importa? A pagina 121 si legge una specie di pubblicità della collana. Riporto. “Il SURREALE che potrebbe essere anche realtà. L’IMPOSSIBILE che potrebbe diventare possibile. L’AL DI LÀ che potrebbe invece essere tra noi. Una lettura avvincente che Vi farà pensare e che Vi affascinerà sempre di più”. Mano ignota, sulla mio copia del 1980, ha vergato sulla medesima pagina con un lapis scolorito dal tempo. Però la scritta è ancora leggibile e attraversa in obliquo l’intera pagina. Dice. “Sono Onan l’onanista e ho bisogno del Vostro aiuto! Grazie!”. Ciao caro amico Onan, chissà se hai risolto il tuo problema, se sei ancora vivo?
IL CASTELLO INFERNALE di Irving Mathias.
Il vampiro come figura principe, ricorrente all’interno della collana. Le radici del vampiro nella letteratura italiana non sono casuali. Così, alla carlona, ricordo il buon Capuana Luigi col suo racconto “Un vampiro”, che, dall’impronta positivistica scivolava verso un fantastico puro, cioè arte. Anche il decadente Enrico Boni aveva scritto la novella “Vampiro” del 1908. Emilio Praga fa spuntare vampiri donna in “Dama elegante”. Arrigo Boito ricorre all’immaginario vampirico in “Re Orso”. Altro scapigliato innamorato del Baudelaire de “Les metamorphoses du vampire” è Iginio Ugo Tarchetti. Il salto è poi di oltre mezzo secolo (se si saltano i “Dracula”) col Furio Jesi di “La casa incantata” e “L’ultima notte”, o Alberto Abruzzese con “Anemia”. Negli Ottanta, un contributo importante arriverà da Gianfranco Manfredi, ex cantautore impegnato e di sinistra dei Settanta. Tutto questo per dire che il vampiro è con noi da sempre. I “Dracula” lo amplificano e ripropongono in tutto il suo fulgore narrativo. “Il castello infernale” ne è un esempio alto, con tutta la prima parte volta a costruire pezzo dopo pezzo l’atmosfera. Sentiamo la fame, la paura, il freddo e il pesante maschilismo merceologico degli uomini. Poi le carte si sparigliano e la donna, qui Hannelore, diviene la vera eroina capace di guardare in fondo all’abisso. Il vampiro è poi figura anomala, tormentato e dubbioso, anticipatore dell’immenso Spike del serial “Buffy l’ammazzavampiri”.
LA STIRPE DEI LICANTROPI di Harry Small.
Qui la fonte letteraria è il Landolfi de “Il racconto del lupo mannaro” del 1939. Poi Harry Small ci spiega le origini antropologiche del mannaro in un incipit splendido ambientato tra cavernicoli bavaresi. Seguono zoofilia, antroposofia steineriana e qualche spruzzatina di Lombroso (perché gli scrittori dei “Dracula”, nel tratteggiare i personaggi, sembrano attingere a piene mani dalla fotografia penale dei casellari giudiziari). La bellezza folkloristica del romanzo non è scalfita dalle incursioni hard. L’omicidio-stupro dell’infermiera Frida ne è un esempio folgorante. Il mostro ferino ha voglie bestiali da soddisfare. “(…) il ventre villoso, palpitante e muscoloso del mostro le aderì ai glutei indifesi in un bestiale assalto ed un grido rauco le sfuggì dalla gola contratta, quando sentì la prepotenza dell’uomo-lupo squassarle le viscere (…). Ancora il finale, sospeso in brandelli di eterno che si rifanno al magistero di Leopardi. “Fuori, nel silenzio e nella luce spettrale dell’ultimo plenilunio, gli umani si aggiravano alla ricerca di mostri oppure ridevano scettici, senza pensare affatto (…).
Bene.
Si potrebbe continuare, ma ho l’impressione di aver abusato della gentilezza del Boss Longoni e della vostra. Vi lascio il piacere di cercare i “Dracula” nei mercatini dell’usato. Ne potrete comprare a mucchi senza spendere cifre assurde. Di questi tempi è importante.
Davide Rosso
[1] DELIRANTE PROCLAMA TERRORISTICO: e che connessione c’era tra i “Dracula” del baron blood Cantarella e l’Italia del periodo, l’Italia degli anni Sessanta? Elenchiamo alcune date e alcuni titoli. Mero nozionismo scolastico, s’intende. I “Dracula” partono nel 1959 con due titoli programmatici: “Uccidono i morti?” e “La tomba di Satana”. Parallelamente l’Italia di fine anni Cinquanta conosce la trasformazione del lavoro agricolo, con l’intervento delle prime macchine in sostituzione dell’uomo; i flussi migratori ridisegnano tumultuosamente le geografie produttive, nascono visioni del futuro segnate da un trionfante ottimismo; i flussi vanno al nord, timbrano il cartellino ed entrano nelle fabbriche; intanto i bimbi conoscono una scolarizzazione di massa; una belle epoque inattesa è alle porte, ma i quadri mentali fascisti e pre-fascisti non si dissolvono come gelati al sole e permangono nella pelle di una cultura conservatrice e arcaica, la stessa che fa da sfondo a quasi tutte le storie morali dei “Dracula”. Ingranano i Sessanta. “Dieci bare e un sepolcro”, “Cervello che cammina”, “Una bara per due”, “Il fiume di sangue”, “Abisso maledetto”, “L’amante del loculo tre”, “La vecchia poltrona”, “Il fu mister Washington”, “Satana è donna”, “Il profanatore”, “La nebbia che uccide” abbelliscono le edicole. Fuori il paese moltiplica frigoriferi e automobili. Dai castelli e dalle lande dei “Dracula” si passa al milione e mezzo di televisori venduti nel 1963. Il mondo rurale dei “Dracula” esiste ancora, ma cresce, si moltiplica l’attrazione verso il mondo urbano, verso la £. Milano, Torino, Bologna, Padova sono i centri del nuovo miracolo. La televisione catechizza le coscienze, il Concilio Secondo ci dà i rudimenti su ciò che è bene e ciò che è male e la FIAT ci dà il pane. Spostiamoci nelle edicole del mezzogiorno. I “Dracula” arrivano a fatica, ma arrivano. “La dama in nero”, “Il golem”, “L’uomo che non poteva morire” e i nuovi giovani scoprono di stare meglio dei loro genitori, ma si sentono in difficoltà, intolleranti nei confronti di un mondo privo di sviluppo e prospettive; si sentono anti-clericali, anti-governo e non hanno tempo per leggere “Terrore al castello”, “Il castello delle rose nere”, “Vampyr il mostro di sangue”, “Una fossa bianca di luna”, “L’organo dei morti”; i giovani preferiscono leggere Marx e scopare, scoprire l’ebbrezza della resistenza tradita; Tambroni, invece, scopre il manganello nelle piazze (e lui i “Dracula”, da impettito moralista democristiano li legge eccome…). FIOM-CGIL, più salari, più consumi, più investimenti, le richieste dei sindacati riguardano il salario e l’orario; durante gli scioperi, alla testa dei cortei ci sono i giovani, nelle ultime file i vecchi operai sporcaccioni con una copia arrotolata di un Max Dave nella tasca sudicia di grasso. La violenza poliziesca si abbatte sull’Alfa Romeo. Aldo Moro sfrutta la situazione per un governo di salute pubblica e la sera si legge pacioso, e di nascosto, “La bara sulla riva”. Dura lex + vecchie strutture + nuova società. Nel Mezzogiorno, dicevamo. L’illuminazione elettrica manca nelle borgate, i paesi sono davvero invasi dall’ombra, i nuclei abitativi frazionati dalle emigrazioni di massa. L’ENI, l’ALFA, le catene di montaggio, MIRAFIORI, PORTO MARGHERA, IGNIS, BORLETTI, NECCHI, PIAGGIO, ARISTON, flessibilità, paternalismo e costo basso del lavoro spingono il paese verso il futuro. Adriano Olivetti immagina un altro paese. Poi muore nel 1960 e fa in tempo a leggersi pochi “Dracula”. Gli sciacalli dello sfruttamento umano senza limite, invece, non muoiono, quelli rimangono, la classe operaia nasce e partecipa alla febbre del boom. Le canzonette estive celebrano il rito di passaggio da una stagione a un’altra, supportano la liturgia delle ferie pagate, del diritto di usufruire del tempo libero per continuare a spendere; il paradigma anticomunista, frattanto, è spinto dagli Usa, fanatici calvinisti dotati di atomica; piuttosto leggiamoci “L’alito freddo del vampiro” o “Sudario nuziale” sotto l’ombrellone o in una pausa della catena, ma mai permettere il progressivo sganciamento dagli Usa sul piano internazionale e chi ci prova è fottuto (Enrico Mattei? Ti fischiano le orecchie?). Il governo Tambroni è incazzato, ha come amici l’MSI, bella gente di Salò. L’azione del governo è alimentare l’idea della congiura rossa. Bisogna creare l’allarme. Alzare lo scontro civile = 1968. Jean Luc Godard, Valle Giulia, Giuliano Ferrara, Pasolini, poliziotti e studenti, i pugni in tasca e il Vietnam, l’uomo a una dimensione e i capelloni, mondo beat, onda verde. Tutti contro la scuola. E mentre si scopa per i corridoi, i vecchi laidi bidelli leggono col cazzo in mano “Il fiore di carne”, “Anima nera”, “Dracula anno 2000” e spiano le giovinette beat mentre destrutturano i piselli dei compagni rossi. Studenti e operai uniti nella lotta, quale lotta? Si critica tutto, anche i manicomi e la fabbrica viene vista per quello che è realmente, un mostro caldo e infernale. Ma le guerriglie urbane, gli attentati terroristici, le manifestazioni sediziose hanno un impatto psicologico sull’opinione pubblica perbenista e molti cittadini preferiscono non buttarsi nelle braccia della sinistra, preferiscono il sapore del regime forte, dello stato-chiesa, dei settimanali pacati e dei Dracula imbustati sulle spiagge, comprati mentre la moglie parla con la vicina d’ombrellone e i figli rompono i coglioni a qualcun altro… Siamo nei Settanta, e il comunismo è nefando. Pure i Dracula muoiono e rinascono in seconda serie, altra veste grafica. Moro va e viene dal governo e pure Goran ritorna dall’inferno. Red Schneider, Frank Graegorius, Morton Sidney e altri aspettano di prendersi il loro posto nel pantheon del perbenismo borghese e mentre aspettano arrotondano con 4 Dracula al mese; infine è tutto un arroccarsi sulla destra, un deflagrare a Piazza Fontana, alla guerra civile latente delle BR (noiosi operai e intellettuali sociologi dal dettato arido, deliranti proclami terroristici, slogan BR, radicalizzazioni espressive di gente che non ha mai letto un rigo di Doug Steiner). Nel 1974 c’è un clima pesante, da Cile di Pinochet e per svagarsi meglio scendere all’edicola e comprarsi “Autopsia Endstrom”; la sensazione forte è di un disfacimento cruento, di un’occasione sprecata; Berlinguer ricerca la DC, la DC ricerca Berlinguer, e l’abbraccio sarà mortale per entrambi, il palazzo si svuoterà. Nei 55 giorni prima di via Caetani, prima della Renault rossa, il paese mancato rimane alla finestra a guardare come paralizzato. Ai funerali privati nel cimitero di Torrina Tiberina, il corpo di Moro viene tumulato con una copia gualcita dall’edicola dei “Risorti di Wuttemberg” infilato di straforo dal becchino Franco Garofano; contemporaneamente il funerale di Stato – senza il corpo – si tiene in S. Giovanni in Laterano e le immagini televisive di quella cerimonia, con Papa Paolo VI e tutti i notabili della Repubblica accalcati tra i rossi paramenti accanto alla bara dello stato; di sguincio si vede uno sul fondo che legge “Psicoterror” ed è Bettino Craxi. Un mondo crollerà. Un’altra illusione arriverà. Ma questa volta i “Dracula” non ci saranno. Max Dave è morto da un pezzo. Gli altri sono diventati dei bravi borghesi, hanno trovato il loro spazio nell’intrattenimento che conta e hanno fatto abiura del loro periodo da scribacchini. Ora guadagnano di brutto. Hanno case, conti in banca, status symbol, benessere, Canale Cinque e la Fininvest. Anche i terroristi si sono risvegliati annoiati e qualunquisti, al massimo ecologisti, spenti dallo spegnersi dell’onda economica che li aveva prodotti. Ora la recente crisi economica ci riporta su una tangente conservatrice e anche i “Dracula” possono riposare nella tomba, o marcire in qualche bustina estate 3 per 2…