Con “L’ultima trovata – Trent’anni di cinema senza Elio Petri” (280 pagine; 16 euro; Edizioni Pendragon), il curatore Diego Mondella raduna un gruppo di autori (Della Casa, Giusti, Zagarrio, Spagnoletti, D’Agostini, Zanello, Chiesi, Cotroneo, Caldiron, Rossi, Monetti, Marelli, Savatteri, Dottorini, Cairola, bajani,Abbate) per realizzare un’antologia di scritti finalizzati a ricordare Elio Petri, cineasta impegnato ingiustamente sottovalutato dalla critica. Ne viene fuori un buon testo, con tutti i limiti dei lavori antologici, poco uniformi e frammentari, ma che ha il suo punto di forza in un interessante apparato di interviste agli amici e in una stupenda conversazione tra Elio Petri e Dacia Maraini. Degni di nota il capitolo Eliopensiero e una completa filmografia. Il libro ci fornisce lo spunto per parlare di un regista da noi sempre amato e sul quale abbiamo scritto qualcosa a proposito di Un tranquillo posto di campagna, Il maestro di Vigevano e Todo modo.
Elio Petri (Roma, 1929 – 1982), cinefilo sin da giovane, appassionato frequentatore di cineclub, comincia a occuparsi di politica seguendo le convinzioni della sinistra parlamentare. Unisce le due passioni quando assume l’incarico di critico cinematografico per L’Unità e subito dopo inizia una fruttuosa attività di sceneggiatore e aiuto regista a fianco di Giuseppe De Santis. Il soggetto di Roma ore 11 (1952) deriva da un’inchiesta giornalistica del futuro regista, convinto sostenitore del neorealismo nel periodo 1940 – 1960, poi transfuga verso un cinema meno sovietico e più attento alle esigenze del pubblico. Ricordiamo Elio Petri sceneggiatore di lavori popolari come L’impiegato (1959) di Gianni Puccini e I mostri (1963) di Dino Risi. La prima prova dietro la macchina da presa è L’assassino (1961), un thriller anomalo che racconta l’omicidio dell’amante di un antiquario e la relativa indagine poliziesca, ma il vero scopo del regista è quello di analizzare la mediocrità umana e l’ambiente in cui viviamo.
Il debutto di Elio Petri mostra un cineasta padrone del mezzo espressivo dopo un apprendistato fatto di documentari, critica, sceneggiatura e aiuto regia. Regista impegnato ma votato ad accettare le regole produttive, consapevole che si possa far trapelare messaggio e ideologia anche attraverso la struttura di un giallo. Il suo tema portante sarà quello dell’alienazione dell’uomo contemporaneo all’interno di una società che uniforma e banalizza.
I giorni contati (1962) è ancora più esplicito nel narrare la voglia di fuga dall’omologazione, da un quotidiano sempre uguale che annichilisce e distrugge la creatività. Il protagonista scopre sin dalla prima sequenza di avere i giorni contati perché vede un morto in autobus. Elio Petri subisce l’influenza della nouvelle vague, ama raccontare i problemi che affliggono la società contemporanea, gira anche cinema di genere ma solo per trasmettere un messaggio politico. Da questo film Petri comincia a fare uso del piano sequenza secondo la lezione di Antonioni, modificando il montaggio e inserendo nuovi elementi visivi e sonori che rappresentano la sua cifra stilistica. I tempi cominciano a essere dilatati, i gesti quotidiani del protagonista sono ripresi con attenzione. Il maestro di Vigevano (1963), interpretato da Alberto Sordi, tratto da un romanzo di Mastronardi, è un buon lavoro commerciale, come Peccato nel pomeriggio, episodio di Alta infedeltà (1964), girato con Salce, Monicelli e Rossi. La decima vittima (1965) è cinema fantastico allo stato puro, sceneggiato da Flaiano, Guerra e Salvioni sulla base del racconto di Robert Sheckley, girato all’Eur e interpretato da un ottimo Marcello Mastroianni. L’alienazione è sempre in primo piano in una società del futuro dove il potere mediatico mette in scena squallidi giochi al massacro. Petri comincia a collaborare con Gian Maria Volontè, che diventa il suo attore di riferimento a partire da A ciascuno il suo (1967), una pellicola contro la mafia tratta dal romanzo di Leonardo Sciascia. Ugo Pirro diventa il suo sceneggiatore di fiducia e ne condizionerà la poetica futura. In questo periodo Elio Petri studia la condizione dell’uomo nella società contemporanea, anche se nella pellicola Un tranquillo posto di campagna (1968) la riflessione è limitata alla figura dell’artista che non trova tranquillità nel mondo circostante. Altri temi prediletti da Petri sono il rapporto tra uomo e autorità, configurata nel datore di lavoro che aliena l’operaio e lo conduce verso la follia, ma anche nella giustizia che assolve sempre se stessa. La vita politica italiana diventa il nodo centrale del suo cinema e una visione critica del sistema accompagna uno stile che diventa sempre più ermetico.
Petri gira pellicole importanti come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) – Oscar per il miglior film straniero – e La classe operaia va in Paradiso (1971) – Palma d’Oro a Cannes. Le pellicole del registra romano sono raffinate, colte, ridondanti e fin troppo intellettuali, ma riescono a mantenere un equilibrio grazie alla valida denuncia sociale e alla recitazione di Gian Maria Volontè. La denuncia antigovernativa di Elio Petri perde forza con gli ultimi lavori, a partire da La proprietà non è più un furto (1973), film molto politico, confuso e di complessa interpretazione, sia per lo stile con cui è girato che per una recitazione teatrale molto sopra le righe. Todo modo (1976) è la trasposizione di un altro romanzo di Sciascia, ma è girato secondo un registro grottesco che ne stempera la forza polemica di denuncia nei confronti del potere. Ricordiamo Ciccio Ingrassia in un’intensa parte drammatica e Gian Maria Volontè nei panni di un uomo politico molto simile ad Aldo Moro. Gli ultimi lavori di Petri sono il televisivo Le mani sporche (1979), tratto da un lavoro di Sartre, e Buone notizie (1979), un atto di accusa intriso di pessimismo contro il potere dei media.
Il cinema di Elio Petri è stato spesso accusato di eccessivo intellettualismo, di ermetismo e di scarsa concessione allo spettacolo per inseguire un discorso politico. Resta comunque un cinema importante in un panorama di scarso impegno che caratterizza i nostri anni Settanta cinematografici, perché ha saputo mettere il dito nella piaga e denunciare i mali di un Paese ostaggio della mafia e di una classe politica corrotta. Non solo. Si tratta di un cinema ispirato da molti autori del teatro dell’assurdo, gente come Ionesco, Beckett, Borges e Sartre, caratterizzato dal suo essere antirealista, se non addirittura iperrealista e surreale.