JOHN E TRIXY
di MATTEO FACCHINI
John si trovava in una situazione insolita. La sua vita era sempre andata avanti seguendo uno schema ben preciso: sveglia presto, una colazione frugale, il viaggio verso la redazione e le ore passate davanti la scrivania alla ricerca di qualche scoop da pubblicare sul The Emperor. Come avrebbe voluto che anche quella giornata fosse stata normale come le altre.
John era sospeso a metà strada tra il tetto della centrale elettrica e il marciapiede sottostante, le mani aggrappate a un piolo metallico. Era un uomo sulla trentina, alto e asciutto e, in teoria, quella salita non avrebbe dovuto essere proibitiva per lui. Se solo si fosse allenato con costanza: la vita sedentaria lo aveva rammollito e non poco.
«Io te lo avevo detto!» squittì una vocina altissima. «Non sei fatto per queste cose… ti farai ammazzare!»
Proveniva dalla piccola pixie che gli volava attorno. Capelli viola voluminosi, aura lilla emanata dalle sottili ali trasparenti. Fisico perfetto coperto da una tuta mimetica a tinte violacee e rosate. Tutto in miniatura.
«Piantala, Trixy. La situazione è già abbastanza complicata.» replicò John con la voce strozzata.
Una sferzata di vento gelido lo investì. Brividi giunsero fino al cuore delle ossa. Il freddo era pungente e le mani dell’uomo iniziavano a perdere sensibilità. Poi un tuono, qualche goccia sporadica che ricadeva verso il suolo dal cielo quasi nero.
«Ecco! Ci mancava anche questa.» mugugnò, cercando di rinfrancare la presa.
«Ma sì, che saranno mai due gocce!» esclamò Trixy, volteggiando attorno all’amico.
«Possibile che non prendi mai nulla sul serio?» domandò John, sforzandosi di riprendere la salita.
«Lo sai che è la mia natura!»
«Secondo me, è solo una scusa per irridermi sempre e comunque…»
«Ma come diamine ti è venuto in mente di seguire questa storia?»
«Non che avessi molta scelta, a dire il vero.»
La pioggia cominciò a scrosciare dal cielo, rendendo ancora più viscidi i pioli della scaletta d’acciaio.
John fissava il monitor senza convinzione. Batteva la matita sulla scrivania in un ritmo scandito e preciso, quasi ipnotico. Un pezzo. Doveva scrivere un pezzo o sarebbero stati guai. Nonostante tutti gli sforzi, la pagina rimaneva ancora intonsa, esempio lampante del deserto che aleggiava nella sua mente. Un brivido gli corse sulla nuca. Una sensazione della quale aveva imparato a fidarsi. Una premonizione, un pericolo in arrivo. Come a conferma dei suoi timori, la voce di Miss Alanian giunse quasi attesa.
«Il capo ti vuole vedere.» disse, atona e inflessibile.
John si alzò controvoglia. Sapeva che stava per ricevere una lavata di capo. La segretaria di Mister Anduviel lo fissava con sguardo gelido e impassibile. Tailleur perfetto, chignon creato ad arte per far risaltare le orecchie a punta. Il giornalista non si scompose e sospirando aprì la porta a vetri dell’ufficio del capo. Clima asettico, neanche un briciola di polvere. Mobilia minima, di legno lucido. Dietro l’enorme scrivania stava il direttore. Completo firmato, camicia firmata. Tutto firmato. Nessuna piega, nessun segno. Tutto perfetto. I capelli biondi scendevano lisci dietro alle orecchie appuntite fino alle spalle, più morbidi e lucenti di quanti John avesse mai visto. A confronto, lui sembrava un pezzente. Abito da quattro soldi, sneakers ai piedi, camicia sbottonata, tenuta assieme da una cravatta troppo larga. Capelli posticci, occhiali dozzinali.
“Perché gli elfi sono sempre pieni di soldi?”
«John Marvel.» disse Mister Anduviel, incrociando le mani sotto al naso appuntito.
«Salve, capo.»
«Cosa devo fare con te, me lo spieghi?» la voce era inespressiva, ma glaciale allo stesso tempo.
«In che senso?» replicò John, sulla difensiva.
Sapeva benissimo quale fosse il problema.
«Non hai scritto un pezzo decente negli ultimi due mesi. La mia pazienza ha un limite, lo sai?»
«Non… Non si preoccupi, capo. Ho per le mani una storia che le farà cambiare idea. Ci scommetto!» mentì spudoratamente.
«Sarà meglio. Va e finisci quello che stavi facendo.»
John deglutì a fatica, poi si girò e fece per andarsene. Era incredibile averla scampata in quel modo.
«Signor Marvel, un’ultima cosa.»
“Lo sapevo” pensò, lanciando lo sguardo al soffitto.
«Se questo articolo non sarà soddisfacente, ritieni la nostra collaborazione terminata.»
Il tono era lo stesso che avrebbe utilizzato un boia.
Il monitor era inchiodato su uno dei mille blog che John era solito spulciare per trarre qualche spunto. Il mouse vagava qua e là senza un preciso scopo, i link mostravano soltanto notizie prive di fondamento, come una suggestiva teoria sul rapimento di ninfe, o ipotesi di complotti troppo astrusi per essere presi sul serio. John si piegò sulla sedia che scricchiolò malamente.
«Niente. Non c’è un dannato bel niente che valga la pena di approfondire… sono fottuto!» mormorò fra sé.
Fece per riprendere il mouse quando per errore cliccò su un banner nascosto. Subito si aprì una schermata nera e una barra di buffering in caricamento.
«E questo che diavolo è?»
Un video partì automaticamente. Mostrava una sorta di laboratorio e una sedia vuota. Il puntatore continuava ad avanzare senza che nulla cambiasse. John stava per chiudere la finestra quando una figura entrò nel campo visivo. Era una gnoma. Indossava un camice sporco con ricamato sopra il logo Zotax e occhiali rotti. Il volto era avvolto da un’aura spettrale, come se lei fosse in preda a qualche delirio. Dopo alcuni secondi iniziò a parlare, ma nessun suono provenne dalle casse. Solo allora John si ricordò che erano rotte. Incuriosito da quello che stava vedendo, si azionò subito per cercare gli auricolari. Dopo aver rovesciato a terra metà delle scartoffie sul pavimento, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Miss Alanian, trovò il cavo e inserì il jack nel suo alloggiamento. Una volta indossate le cuffie, udì la voce da cartone animato di quella che sembrava una scienziata.
«…non è uno scherzo. Vi prego, prendetemi sul serio. Qui succedono cose strane! Mi impediscono di uscire! So che c’è una connessione tra i blackout che hanno interessato la città e gli esperimenti che si svolgono qui sotto. Ho poco tempo, stanno per venire a prendermi. Sono la Dottoressa Jingling e vi chiedo aiuto!»
La gnoma non aveva fatto in tempo a terminare la frase quando comparve nell’inquadratura della webcam un’ombra massiccia e veloce che si avventò sulla povera malcapitata. Un colosso alto più di un troll. La colpì con un pugno possente che scaraventò a terra lei e la videocamera. Prima che il segnale si trasformasse in una serie di strisce grigie e nere, John poté vedere chiaramente il sangue scorrere sul pavimento.
«Ma che diamine?!» sussultò sul posto.
Il giornalista cercò di ricaricare la pagina, ma ogni tentativo si risolse con un nulla di fatto. A prima vista, quello strano video era sembrato uno di quei viral lanciati per la promozione di qualche film. Eppure una strana sensazione si stava facendo strada attraverso le membra di John. Il solito sesto senso che lo indirizzava verso un nuovo scoop. Doveva indagare. C’erano stati effettivamente degli strani blackout nella città ultimamente, ma la compagnia elettrica aveva glissato con comunicati di certo non esaustivi. Valeva la pena fare un tentativo, ma non poteva svolgere quel tipo di lavoro in redazione. Doveva andare da lei.
Le vie di Main Street erano affollate come sempre nell’ora di punta. John camminava speditamente lungo il marciapiede, lo spolverino che si sollevava a ogni minima folata di vento. I grattacieli intrappolavano quell’arteria della città in un quadro composto da cartelloni pubblicitari, megaschermi e giardini pensili posti in cima agli attici. Taxi, autovetture e cavalli meccanici occupavano l’intera carreggiata, un ingorgo continuo dalle otto alle diciannove. Arrivato all’incrocio con la Magnus Road, il giornalista svoltò a destra, ritrovandosi la strada sbarrata da nani operai intenti a sistemare le tubature della fognatura.
«Hey, fratello. Di qui non passi. Devi fare il giro da Emperor’s Groove.» fece uno di quelli, la barba rossiccia unta di nero in più punti.
«Guarda, devo proprio andare in quel palazzo…» rispose John, indicando un fabbricato poco distante che doveva avere almeno cinquant’anni.
«Negativo, fratello.» ribatté il nano, incrociando le braccia.
“Dannazione… non posso perdere mezza giornata così.”
«Posso darti qualche banconota per il disturbo. Potrei usare quella passerella e ne guadagneremmo tutti!»
«Stai forse tentando di corrompermi?» esclamò l’operaio, livido in volto.
«Beh, non l’avrei proprio definito così il mio tentativo di…»
«Nessuno può corrompere un nano!» tuonò l’altro mentre i suoi compagni si voltavano verso il giornalista con volto torvo.
“Ma perché tutte a me! Mi rimane solo quella carta… perché devo fare sempre quella cosa quando non voglio?”
Nel frattempo gli operai avevano formato una linea e stavano avanzando pregustando già un bel pestaggio. Fu in quel momento che John pronunciò tre parole in una strana lingua e immediatamente scomparve dalla vista dei nani. Quello che aveva parlato strabuzzò gli occhi e tentò in tutti i modi di scovare dove il giornalista fosse finito, ma di lui non c’era più traccia. Mentre imprecava, la passerella alle sue spalle traballò e poco dopo la porta del palazzo si aprì da sola, come mossa da una mano invisibile.
L’incantesimo terminò nell’atrio, fortunatamente vuoto. John era completamente ricoperto da uno strato di sudore che aveva inzuppato parte dei vestiti. Il prezzo che la magia richiedeva per chi non aveva studiato a fondo le regole per controllarla.
«Dannazione!» mormorò il giornalista, rabbrividendo al contatto degli indumenti umidi.
Senza pensare ad altro, prese una porta laterale e cominciò a risalire una scalinata. Arrivato al settimo piano si addentrò in un corridoio abbastanza sporco e si fermò davanti alla terza porta sulla destra. Suonò il campanello e attese che la serratura elettronica scattasse. Senza indugiare oltre entrò nella stanza: un piccolo loft mezzo vuoto, occupato soltanto da un grandissimo tavolo poggiato contro la parete. Sopra di esso era costruito una specie di plastico molto simile alla casa di una bambola. John avanzò e si sedette sull’unica sedia, proprio davanti a quello che sembrava un ufficio in miniatura.
«John! Arrivo!» fece una voce squillante proveniente da una sezione coperta del complesso abitativo.
Da essa emerse una pixie che indossava soltanto degli shorts e un top rosa.
«Ciao, Trixy.»
«Ti ho visto, prima in strada! Hai lanciato un incantesimo! Tu sei completamente fuori! A parte che se ti avessero visto i poliziotti saresti finito dentro, poi, comunque, non sei assolutamente in grado di controllare gli incantesimi! Ma ti è dato di volta il cervello? Cioè, se io fossi in te, eviterei di sbandierare in giro il fatto che la tua famiglia discende dagli antichi maghi, sai quelli che hanno fatto quel casino tanto tempo fa, che poi secondo me è tutta una montatura… in ogni caso, non me lo aspettavo proprio, direi che sei proprio un incosciente…»
«Ti prego! Basta!»
«Che caratteraccio che hai.» ribatté la fatina, volando verso la scrivania dell’ufficio: uno smartphone poggiato su quattro sostegni. «Vabbé, bando ai convenevoli. Che ti porta qui?»
«Ho bisogno del tuo aiuto. Devo scrivere un pezzo e penso di avere una buona storia fra le mani.»
«Su, su, su. Vai avanti, non abbiamo mica tutto il giorno.»
«Ho solo pochi elementi, ma la storia gira intorno a una compagnia chiamata Zotax e ai recenti blackout della fornitura elettrica. Ho per caso visionato un video in streaming di una certa Dottoressa Jingling: una gnoma che lavorava per la Zotax. Credo che sia stata uccisa da qualcosa.»
«Piano! Non correre! Zotax hai detto?» John annuì.
Trixy accese lo schermo del dispositivo e iniziò a muovere velocemente le braccine, passando da un motore di ricerca all’altro a una velocità quasi impensabile. Gli occhietti viola si muovevano a scatti davanti alle pagine fino a che non si fissarono su un sito in particolare.
«Eccola qui. Zotax limited inc, è una multinazionale. Si occupa di forgiatura di metalli, creazione di minuteria per orologeria di alta precisione e udite, udite, ha diversi stabilimenti di smistamento dell’energia elettrica.»
«Sono sicuramente loro.» disse John, visibilmente soddisfatto. «Ce n’è qualcuno in zona?»
«Solo uno, ma secondo questi documenti è chiuso dal mese scorso per restauri.»
«Guarda caso proprio quando sono cominciati i blackout.»
«Tombola!»
«Direi che dovremo fare loro una visita.»
«Eh, senza pass mi sa che non andremo da nessuna parte… come vuoi presentarti? Salve sono John Marvel e vorrei visitare il vostro stabilimento per confermare la mia tesi sul fatto che siete invischiati in un complotto atto a sfornare cali di corrente in città… Ah! Dimenticavo l’omicidio!»
«Piantala! Certo che ci serve un pass…»
«E dove vuoi trovarlo?»
«C’è solo un posto…»
Il sole morente stava per cedere il passo a una notte senza luna. Nubi temporalesche si profilavano all’orizzonte, promettendo scrosci improvvisi annunciati dai tuoni in lontananza. John e Trixy erano appena scesi da un taxi che li aveva abbandonati sul ciglio di una strada della città bassa. Sporcizia intasava i lati dei marciapiedi e i neon dei locali a luci rosse creavano uno strano gioco di flash che risultava quasi ipnotico.
«Forza, andiamo.» esordì John, scuotendo la testa nuovamente di fronte alla tuta mimetica dell’amica.
Trixy, per una volta intimorita, non disse nulla e si limitò a svolazzare intorno al giornalista, spandendo in lungo e in largo la polverina scintillante che cadeva dalle ali. Continuarono per diversi minuti, sotto gli occhi delle prostitute di ogni razza e colore che avevano cominciato a gremire la fitta serie di vicoli intorno alla strada principale. Infine giunsero in una zona scura; i lampioni non funzionavano più, oppure qualcuno li aveva danneggiati di proposito per tenere i suoi affari loschi al segreto. In un angolo si alzava un caseggiato di mattoni dall’aspetto fatiscente. Davanti alla porta di ingresso sostavano due enormi orchi vestiti di pelle e borchie. Le zanne giallastre grondavano bava e qualche altra sostanza non ben definita. John si avvicinò, forse un po’ troppo abituato a questo genere di situazione.
«Dobbiamo vedere l’oracolo… è in casa?» domandò, porgendo ai due un paio di snack ipercalorici.
Senza degnarlo di una risposta, la prima delle guardie gli strappò i dolci dalle mani e se li mise in tasca. Il secondo, invece, fece cenno di proseguire. Una volta entrati nell’edificio, Trixy respirò a pieni polmoni.
«Mamma che tanfo… stupidi orchi. Farebbero di tutto per qualche zucchero trattato.»
«Trixy, fa la brava… vieni, dobbiamo scendere.» replicò John, imboccando una serie di scale che si perdeva nello scantinato. Una volta di sotto, l’uomo aprì una pesante porta di ferro e si trovò di fronte al quartier generale dell’Oracolo. Una semplice cantina intasata da schedari lerci e materiale hi-tech. Un goblin incappucciato li attendeva, il naso adunco che fuoriusciva di diverse dita dalla stoffa nera.
«John Marvel… sei venuto a portarmi i soldi che mi devi?» domandò con voce roca e sgraziata.
«Sì, e ce ne sono altri se mi farai un favore.» rispose il giornalista, prendendo un rotolo di banconote e lanciandolo al suo interlocutore.
Il goblin lo prese al volo e si sfregò le mani.
«Cosa ti serve?»
«Un pass per un centro della Zotax. Sono sicuro che sai di cosa si tratta.»
«Mmm… e cosa mi darai in cambio, ammesso che io abbia quello che tu cerchi.»
«Te l’ho detto. Soldi.»
«E se io volessi quella pixie che ti porti dietro?»
«Scordatelo, brutto verrucoso!» intervenne Trixy, alzando i pugni.
«Fai il bravo, Oracle, ce l’hai o no.»
«Va bene, va bene. Dopotutto sei un ottimo cliente. Sì, credo di avere un pass, ma tu devi farmi il favore di non chiedermi come ne sono entrato in possesso.»
Un brivido corse lungo la schiena di John.
Infiltrarsi nella centrale elettrica non era stato difficile. Grazie a qualche trucchetto di Trixy, le guardie erano state distratte quel tanto che bastava a John per sgusciare attraverso le recinzioni senza essere visto. Il pass rimediato da Oracle aveva fatto il suo dovere, garantendo l’accesso a ogni livello della struttura. Tutti gli indizi portavano verso il basso. Fasci di cavi in tensione si dirigevano nella stessa direzione, come i fili di una ragnatela che convergono verso il centro. Il giornalista e la sua piccola amica li seguirono, sfruttando gli angoli ciechi delle telecamere per non attirare l’attenzione. Fortunatamente l’area sembrava quasi sgombra, l’ora tarda era di certo un vantaggio. Il corridoio terminava sulle porte di un ascensore. La pin pad posta a fianco brillava di una luce bluastra nel buio cupo. John non esitò e strisciò il pass nella fessura. Luce verde, porte aperte. I due compagni entrarono e con cautela l’uomo premette l’unico tasto presente sulla pulsantiera. I cavi cigolarono e l’ascensore iniziò a scendere ancora più in basso, nel cuore della terra.
«John…» sussurrò Trixy, che già da qualche tempo aveva smesso di emanare quella fosforescenza rosacea di cui tanto andava fiera.
«Sì?»
«No… Niente.» il tremito delle ali parlava per lei.
Le porte si aprirono di scatto. Di fronte a loro si allargava un enorme hangar sotterraneo. In lontananza parecchi gnomi in camice stavano lavorando su alcuni costrutti bizzarri. Colossi fatti di metallo, ingranaggi, carne e sangue. Anche da quella distanza John non poteva sbagliarsi. Erano corpi di ninfe, quelli installati a forza dentro quelle armature che non avrebbero mai e poi mai consentito la vita al loro interno. Ecco qual era il collegamento. Le ninfe sul blog, il banner nascosto. Tutto tornava.
«Usano la loro magia… Bastardi! Il sangue magico alimenta quei mostri.» mormorò John, facendo scatti su scatti con la fotocamera da dietro alcune casse.
Nello stesso momento suonò una sirena. Il rumore dell’energia convogliata dai cavi saturò l’aria con un fruscio magnetico e poco dopo le luci cominciarono a sfarfallare in ogni dove.
«Ed ecco spiegati i blackout.» riprese Trixy, tirando la manica dell’amico. «Ora possiamo andarcene?»
Il giornalista annuì e tornò nell’ascensore. Colpì il pulsante con un po’ troppa foga, ma le porte si richiusero prima che qualcuno notasse la loro presenza. Man mano che salivano, la tensione si andò stemperando, anche la pixie aveva ripreso un po’ del suo canonico colore. Uscirono di soppiatto e si diressero verso il corridoio. Risalirono i piani senza che nessuno si facesse vivo, ancora un paio di svolte e sarebbero stati fuori. Dopo il terzultimo angolo, il volto butterato di un Troll si parò loro davanti. Indossava la divisa della sicurezza e sgranò gli occhi, incredulo e minaccioso. Senza pensarci troppo, John lo colpì con un pugno. Unico risultato: il polso ferito.
«Tu, brutto microbo maledetto, cosa…» ringhiò quello, pronto a caricare, quando Trixy gli spruzzò in faccia un getto della polverina che emetteva dalle ali. Il troll iniziò a starnutire all’impazzata, spandendo muco verdastro sul pavimento.
«Scappiamo!» gridò la pixie, volando a gran velocità.
I due non avevano fatto in tempo a uscire che l’allarme risuonò per tutto il complesso. Mosso dal panico, John fece l’unica cosa che gli sembrò sensata al momento. Vide una scaletta sulla destra e iniziò a risalirla, cercando di raggiungere il tetto dell’edificio. Proprio a metà della scalata, uno dei pioli cedette sotto al suo peso e cadde nel vuoto. Il giornalista riuscì ad aggrapparsi in qualche modo; la fotocamera non ebbe la medesima fortuna. Si sfracellò al suolo, andando in mille pezzi.
“Addio scoop e addio lavoro…”
«Io te lo avevo detto!» tuonò Trixy. «Non sei fatto per queste cose… ti farai ammazzare!»
«Piantala, Trixy. La situazione è già abbastanza complicata.»
In quel momento, un tuono annunciò l’imminente pioggia. I due ebbero ancora uno scambio di battute, poi John riuscì a farsi forza e risalire verso l’alto. Una volta sul tetto erano in trappola, zuppi in mezzo alla tempesta.
«Un piano perfetto, oserei dire.» sentenziò la pixie guardando le luci che circondavano ormai l’edificio.
«Trixy… c’è un modo, ma credo che non ti piacerà.» disse John a denti stretti.
«Non vorrai mica…»
John esclamò due frasi nella lingua della magia. Dopodiché si accasciò al suolo, privo di forze. In quel momento il corpo di Trixy mutò. I muscoli si gonfiarono e l’altezza raddoppiò, per poi triplicare e così via. Dopo pochi secondi, la pixie era alta quanto cinque orchi messi uno sopra l’altro.
«Ti odio quando lo fai!» gridò con la voce distorta dalla trasformazione.
Senza dire altro, prese l’uomo in una mano e spiccò un balzo verso l’alto. Quattro battiti di ali e la centrale era ben distante. Le urla delle guardie e il rumore degli spari si perdeva man mano che si allontanavano. Poi Trixy udì un insulto che forse non avrebbe dovuto sentire.
«Oh, no…» mormorò John, ripresosi quel tanto che bastava per intendere e volere.
Sapeva cosa sarebbe successo. La pixie invertì la rotta e lo appoggiò sul tetto di un edificio poco distante. Poi spiccò il volo e si diresse di gran carriera verso il luogo da cui erano appena scappati. Una volta giunta laggiù, scardinò uno dei pali dell’alta tensione e usandolo come mazza sparse scempio e distruzione lungo la centrale. La sicurezza cercava invano di fermare la furia inarrestabile della fatina. Trixy pareva un mostro gigante inarrestabile. Un cavo portante tranciato, preludio dell’ennesimo blackout. John si alzò a fatica ed estrasse il cellulare, cercando di ripararlo per quanto possibile dalla pioggia. Una foto e via. Dopotutto anche una pixie gigante che distruggeva una centrale elettrica poteva essere uno scoop.