LA TORRE AI CONFINI DEL CIELO
di GIUSEPPE AGNOLETTI
Ogni volta che sento la campana suonare sotto la sferza del vento del nord mi sveglio con un sussulto, mentre lo sguardo vaga smarrito sui muri della cella. Poi riconosco la presenza degli oggetti del mio quotidiano, capisco chi sono, dove mi trovo e la rassicurazione scende su di me come la carezza di una madre.
Al di fuori di queste possenti mura i campi riverberano carmini sotto il riflesso di una luna pittata di sangue. Lontano da qui, su al passo che conduce alla Valle Condannata, si accende una battaglia feroce. Quando soffia la tramontana, e la luna sorge rossa come questa notte, l’orda si anima di frenesia animalesca e tenta di varcare la soglia proibita.
Ci fu un tempo nel quale visitai quel luogo deserto e prima che il sonno ritorni a privarmi del lume dell’intelletto, la mia mente non può fare a meno di volare al passato, a quando ero un umile chierico animato da un’inestinguibile sete di sapienza.
Fu Arminio, il potente mago che operò prodigi all’epoca di Re Gandolfo, a volermi con lui. E ricordo, partimmo in una splendida mattinata d’autunno, io, Arminio, il principe Valente, un guerriero di nome Osco e Rustico, un individuo con la faccia losca e furba di uno che ruba da quando è balzato fuori dalle cosce di sua madre. E con noi c’era anche la principessa Alysia, terza cugina del principe.
Le campane della città suonavano a stormo, la gente in piedi e a capo scoperto ci seguiva con lo sguardo. Passava un corteo di nobili, ma era come se sfilasse un funerale.
Una volta usciti dalla porta dei leoni prendemmo per la campagna. Anche lì i contadini stavano in piedi al nostro passaggio. In mano i loro cappellacci di paglia e pelo di coniglio, ma senza compiere un solo gesto, senza dire parola. Poi i campi cedettero il posto alla foresta, passammo ancora per l’ultimo borgo, quello di Mercatale, e dopo non vedemmo più nessuno.
Mentre procedevamo Arminio avvicinò la sua cavalcatura al mio asino.
- Qualunque cosa accada non lasciarti sopraffare dalla paura. La paura uccide la ragione – disse. – Resta sempre vicino a me.
Poi raggiunse il principe Valente, che dalla partenza stava avvolto in un sudario di silenzio impenetrabile.
- Vi sentite pronto? – gli chiese.
Il principe fece una smorfia: – Un sapiente mago come voi non dovrebbe fare domande così sciocche. È dalla nascita che mi sono preparato. – Detto questo sollecitò la sua cavalcatura e si portò in testa al gruppo.
La principessa Alysia, al mio fianco, procedeva a occhi chiusi, sembrava immersa nella preghiera. Il suo volto era di un pallore mortale e mentre la guardavo provai l’impulso di chiederle se non si sentiva bene, ma un’occhiataccia di Arminio mi costrinse a rinunciare.
Il cielo si incupiva. Il sole era scomparso dietro una coltre di nuvole. Il vento imponeva la sua voce con toni striduli e crescenti; adesso sembrava gridare di rabbia, come se volesse trattenerci dal proseguire nel nostro cammino.
Non ci fermammo che pochi minuti per abbeverare le bestie. Mentre guardavo le montagne all’orizzonte, scrutai la cima più alta, un grigio scuro che sfumava nel perla più chiaro del cielo; era lì che eravamo diretti.
Vidi che anche il principe era pallido. Il suo sguardo quello di un uomo disperato. Sapevo che il suo compito era di recarsi al passo a combattere le bestie che cercavano di invaderci. Non doveva essere piacevole per un principe di sangue reale la prospettiva di restare chissà quanto tempo in una fortezza sperduta fra le montagne, così lontano dagli agi della corte.
Cominciò a piovere e presto iniziarono a cadere i primi fiocchi di neve. Le bestie erano stanche, soffrivano la lunga salita. Quando ci fermammo per la notte anche noi eravamo stremati.
Più tardi, dopo che avevamo mangiato, mentre il sonno si apprestava a sopraffarci, Rustico si mise a giocherellare con tre palle colorate. Le volteggiava fra le dita con incredibile abilità. Avevano colori diversi: rosso, giallo e blu e a ogni ciclo completo di manovre il ladro le faceva sparire nelle mani.
- E adesso chi indovina dov’è quella rossa? – chiedeva ammiccando con gli occhi.
Io provai più volte a prevedere, ma sbagliavo in continuazione. Indicavo la mano che ne conteneva due, mentre quella rossa si mostrava solitaria nell’altra, che Rustico, ridendo, apriva dopo la risposta, sempre rivelando la beffa.
- Di solito si gioca per soldi, ma per te ho fatto un’eccezione, ragazzo! Altrimenti adesso saresti così povero che dovresti venderti da solo come schiavo – disse sarcastico.
- Allora io gioco una corona – s’intromise Arminio.
Rustico lo guardò stupefatto. Una corona era la moneta di maggior pregio in corso nel reame; oro zecchino, apprezzatissima anche in tutti gli altri regni adiacenti al nostro. Il ladro parve considerare la cosa a lungo, infine assentì.
- E va bene, mago, accetto. – E si mise a roteare le palline con una velocità sorprendente. Se davvero era un ladro come si diceva, chi aveva la sventura di passargli accanto non aveva nessuna possibilità, se non quella di cautelarsi tenendo la sacca delle monete ben stretta al corpo.
Quando finì il movimento io guardai il mago e vidi che aveva gli occhi chiusi.
- Questa – disse toccandogli la mano destra.
Rustico ingrugnì il volto e aprì la mano. La pallina rossa era lì.
- Caccia una corona – disse Osco cercando di trattenere una risata.
Rustico infilò una mano in tasca e frugò a lungo, come se avesse nascosto le sue monete in chissà quale recesso del corpo. Poi estrasse una corona che porse al mago.
Arminio lo guardò di sbieco: – È pulita, vero? E mentre tutti ridevano Rustico riprese a girare le palline.
- Solo fortuna. Adesso io dico due corone! Accetti mago?
- Non dovrei? – chiese sprezzante.
Rustico non rispose. Fece girare le palline così tanto che pensai si sarebbero tutte consumate. Si fermò e guardò il mago con l’aria dell’avvoltoio al cospetto di un animale al termine della propria agonia.
- Forza mago, cosa aspetti? – disse sfidandolo.
Ancora io osservai Arminio e ancora lo vidi con gli occhi chiusi, come se stesse dormendo un sonno tranquillo e profondo.
- La destra – disse calmo.
Rustico divenne pallidissimo. Poi strepitò: – Hai sbagliato.
Sempre a occhi chiusi Arminio artigliò con la sua mano sinistra il polso della destra del ladro. Strinse forte e lo costrinse ad aprire prima che lui potesse compiere il furtivo movimento di scambio che aveva improvvisato. Nella mano c’era la pallina rossa.
- Due corone, Rustico! – Sancì Osco. E dal tono con cui lo diceva capii che il ladro non doveva stargli troppo simpatico. E mentre di nuovo Rustico affondava il braccio in chissà quale pertinenza del proprio corpo, sbottò: – Solo io a mettermi con un mago. Per forza di cose poi uno perde. A pensarci bene non dovrei nemmeno pagarti!
- Provaci, Rustico, e ti garantisco che ti trasformerò in una gallina capace di sfornare enormi uova d’oro. Immagina ogni volta che cagherai uno di quei pesanti e dolorosissimi gusci dal tuo fetido deretano.
- Almeno sarò ricco! – ribatté il ladro.
- Si è mai vista una gallina padrona di qualche cosa? Ti terrei bene al caldo nel pollaio del palazzo reale, al riparo dalle faine. E giù uova a tutto spiano. Tutto per la gloria del Regno, s’intende. E comunque sappi, per ogni evenienza, che madonna Adelaide prepara un eccellente lozione a base di erbe emollienti, proprio per il brucior di culo!
Rustico si guardò attorno in cerca di un improbabile appoggio.
- Io so solo che non capisco cosa devo venire a fare al passo. Quel posto mette i brividi a pensare a tutte quelle storie che si raccontano di lassù.
- Sarai pagato per questo. Lo sai bene Rustico, la giusta ricompensa che ti spetta. Te lo garantisco.
Osco, il guerriero, diede maggior vigore alla sua risposta rimuovendo della terra a coprire la cenere del fuoco.
- Quello che succederà lo capirai a tempo debito – intervenne Arminio. – Sappi che là in cima c’è bisogno di una persona in gamba, furba e scaltra come una volpe. E tu di furbizia nei hai così tanta che la potresti vendere alle fiere di paese, vero Rustico? Non ti abbiamo certo tolto da quella lurida cella sotto al fossato, nella quale stavi a marcire, solo per farti compiere una passeggiata.
Al pensiero della prigione nella quale era stato costretto a causa dei suoi furti, il ladro rabbrividì. – Certo che sono sveglio. Lo sanno tutti nel borgo e infatti dicono: furbo come Pantegana, che poi sarebbe il mio soprannome.
Arminio sollevò un sopracciglio. – Per carità, risparmiaci la vicenda che ti ha fatto guadagnare questo tuo pregiatissimo appellativo. E in ogni caso è ora che tutti andiamo a riposare.
Io mi addormentai subito e sprofondai nel sonno come una pietra che cade in uno stagno. Feci sogni orrendi, popolati di mostri informi che mi inseguivano fino a quando non riuscivano a catturarmi. In uno di questi mi ero rifugiato da Arminio, che mi aveva accolto fra le sue braccia. Ma subito mi ero reso conto che il suo volto si stava trasformando in qualche cosa di abominevole. Allora mi ero svegliato con un sussulto.
Al mattino mi chiamò Alysia. Ero distrutto e feci una fatica terribile per alzarmi. Ma appena vidi il suo volto triste, sospettai che la sua doveva essere stata una notte assai peggiore della mia.
Ripartimmo avvolti in una foschia densa come il fumo di un incendio. Il passo appariva sempre più vicino, ma ugualmente indistinto, un luogo sospeso fra terra e cielo. Seguivo osco. Ricoperto da una lucente armatura cavalcava su un immenso stallone da guerra, impettito sulla sella come si conveniva alla fama di guerriero invincibile che lo accompagnava.
Arminio mi si avvicinò.
- Con quelle palline colorate, la tua di ieri sera è stata una pessima prestazione, per un chierico apprendista mago, intendo – insinuò con un sorriso tagliente.
- Sono mortificato, maestro – risposi.
- Sembra che tu dimentichi tutto quello che ti insegno, La realtà quasi sempre inganna; devi imparare a osservare le cose con gli occhi della mente, e dell’anima.
- Si maestro; lo terrò bene in testa.
Detto questo Arminio spronò la sua cavalcatura e si portò davanti al corteo raggiungendo il principe.
Verso pomeriggio inoltrato raggiungemmo il passo.
Sulla cima vidi una torre che si stagliava contro il cielo. Era di pietra scura e sembrava un artiglio putrefatto che volesse graffiare le nubi. Una cinta muraria circondava la torre da ogni lato. Il fortilizio sormontava un dirupo all’imbocco di una gola; era da lì che sarebbero venuti.
Smontammo dalle cavalcature. Il ponte era abbassato e io scrutai Arminio. Lui fece spallucce, ma non mi era sfuggito il rapido incantesimo col quale lo aveva fatto venire giù, così entrammo nella cinta. Rustico accese il fuoco in un batter d’occhio, come se si fosse trattato di compiere una piroetta da saltimbanco e assieme a Osco si mise a riscaldare qualcosa da mettere sotto i denti.
Nessuno parlava. Il principe era salito sulla torre, taciturno guardava verso nord e vidi Arminio preoccupato.
Mangiammo con appetito, a parte Valente, che quasi non toccò cibo. Alysia era silenziosa come una statua e anche lei non sbocconcellò che poche briciole di pane. Poi il cielo si aprì non c’era ancora la luna e sembrava un manto color carbone trapuntato di stelle, così vivide come non le avevo mai viste.
Subito dopo ci fu la cerimonia.
Fu una cosa breve. Arminio unì in matrimonio il principe Valente con la principessa Alysa. Non ci furono urla di gioia, o cori ebbri, né lazzi frizzanti per una improbabile notte nuziale. Solo, al termine, un lunghissimo bacio fra gli sposi.
- Non sta bene guardare! – brontolò Arminio dandomi uno scappellotto bonario. Poi si lasciò andare a un sospiro.
Il mago fissò il principe: – Siete pronto? – gli chiese.
- Lo sono – rispose secco.
Arminio stese un tappeto trapuntato di fili d’oro. Notai alcune macchie scure e mi stupii. Il mago si inginocchiò sprofondando in una lunga sequela di litanie. Ispirò a fondo e si rialzò.
- Ora inchinatevi – disse rivolto al principe.
Valente si tolse il mantello e si mise in ginocchio.
- Stendete le braccia – ordinò il mago.
Il principe allungò le braccia in avanti; tremavano.
Arminio levò le mani al cielo, poi mi fece un gesto. Io afferrai il turibolo, innescai il fuoco e cominciai ad aspergere l’aria col preziosissimo incenso Kifi usato fin dall’antico Egitto.
- Sei pronto tu, Valente della stirpe dei Brunero, a mantenere il patto fra la tua ascendenza e la gente della valle? – chiese il mago.
- Lo sono – rispose Valente, col viso più bianco della neve.
- Darai il tuo braccio per impugnare la spada in difesa dei più deboli?
- Lo darò!
A quel punto Arminio trafisse con un’occhiata Osco. La lama del guerriero si alzò e con un movimento fluido tagliò il braccio destro al principe.
Valente aprì la bocca. Ma riuscì a non urlare. Il dolore gli sconvolgeva i lineamenti del viso. Sembrava un altro.
- Userai l’altro tuo residuo braccio per impugnare lo scudo contro la malvagità ributtante che vive in questi luoghi? – chiese ancora Arminio.
- Lo farò! – rispose con un gemito strozzato la maschera di sofferenza che era diventata la faccia del principe.
Osco colpì ancora. Il braccio sinistro di Valente cadde a terra vicino all’altro.
- In virtù dell’antico patto che lega la tua gente al popolo della valle tu ne sarai custode, col coraggio del tuo nobile sangue, con la destrezza e la furbizia di un ladro – proseguì implacabile il mago.
E guardando Osco gli scoccò un messaggio d’intesa.
Il guerriero decapitò Rustico con un unico gesto della spada. Una volta a terra, la faccia del ladro tradì tutta la sua sorpresa, ma l’uomo non poteva dire più nulla. E da ora in poi poteva solo sperare di sfilare monete agli abitatori del paese delle ombre, sempre che fossero stati sufficientemente incauti da stare a portata delle sua dita.
- Che la tua mente, principe Valente, guidi tutto questo! – gridò Arminio.
Di nuovo la lama di Osco fischiò nell’aria mozzando di netto la testa del nobile.
- E al cuore puro di un principe si aggiunga la forza di uno spadaccino!
Dette queste parole il mago immerse la mano destra nella tasca e gettò in faccia al guerriero un pugno di polvere dorata.
Osco strabuzzò gli occhi, il respiro bloccato sul nascere. Aprì la bocca come per dire qualcosa di memorabile, che potesse riverberare nel tempo l’istante della sua fine. Poi barcollò più volte, infine si schiantò a terra.
Alysia aveva osservato tutta la scena a occhi spalancati. Ma non aveva detto una parola.
- Una moglie deve seguire il marito – disse Arminio facendole un leggero inchino.
- E io lo farò – disse la principessa. La sua voce era poco più di un sussurro, eppure non tremava. – Ne sono consapevole fin da quando ho avuto il primo barlume di coscienza, di essere quella che sono: una principessa di Casa Brunero.
- Venite, non vi farò male – disse il mago. E detto questo abbracciò la testa della giovane che gli era venuta vicino.
Arminio chiuse gli occhi e rivolse lo sguardo al cielo. Cominciò a mormorare una sequela di formule così antiche che non ne capivo una sola parola. Percepii una vaga reminiscenza di etrusco, ma forse era solo la mia immaginazione. Poi il tono si fece sempre più alto fino a quando la sua voce si ruppe in un grido. Allora Alysia si accasciò senza più vita e il mago ne accompagnò il corpo, lasciandola lentamente scivolare a terra.
Guardai Arminio terrorizzato; toccava a me adesso? Non sapevo nulla di questa parte del rito e temetti per la mia vita. Forse quel sogno era solo una premonizione? Invece il mago mi venne incontro a braccia aperte.
- È tutto finito, ragazzo mio. Ora aiutami, io sono vecchio e le mie carni hanno ben poco nerbo.
Componemmo le membra del principe Valente, quelle di Osco e di Rustico sulle mura a vegliare la gola. La principessa in atteggiamento di preghiera, inginocchiata e a mani giunte, dietro di loro, sostenuta dal palo della campana. Mettemmo i corpi vecchi e scarnificati, coloro che li avevano preceduti, nella cripta, rimasi senza fiato nel constatare quanti ce n’erano. Ne contai trenta, poi smisi.
Braccia e testa e corpi di principi, principesse, guerrieri, ladri; un patto antico. Il primogenito del Re scelto ogni tre generazioni.
Mettemmo la testa dell’antenato di Valente su un altare. I teschi dei suoi antenati riposavano tutti lì, dopo avere adempiuto al loro dovere sembravano sorridere compiaciuti.
Il vento del nord aveva preso a soffiare e mentre ci allontanavamo sentimmo i primi rintocchi della campana. Guardai allarmato il cielo. La luna era sorta, rossa come sangue. Poi, quando eravamo a metà della discesa dal passo, mi parve di sentire delle grida e il clangore di armi che si scontrano.
La lotta era già cominciata. Vedevo con la mente il corpo morto del principe lottare coi demoni, respingerli con la spada animata dalla forza del miglior guerriero del regno e mossa con le movenze astute di un ladro. Come poteva essere sconfitto uno spirito simile? E se poi era anche rafforzato dalla potenza generata dalla fedeltà di una principessa, sua consorte, che lo aveva amato fino al sacrificio? Il patto di sangue creato secoli addietro avrebbe ancora protetto la gente della valle per lunghi anni di serenità e pace. E che importanza poteva avere se un volgare ladro era stato truffato, o se un guerriero era stato costretto a rendere servizio con la sua spada solo da morto?
La Casa Brunero compiva il vero sacrificio. Due vite di sangue reale. Un prezzo enorme che pagava da secoli.
Oltre la torre di confine c’era la Valle Condannata, la terra degli Hirudo, diavoli con l’aspetto simile a quello di enormi sanguisughe munite di arti ripugnanti. Erano come una razza che fosse stata abortita prima di giungere a compimento. Ed era indispensabile fermarli.
Un tempo la nostra valle era stata dilaniata da quegli esseri. Le cronache che io stesso avevo letto narravano di atrocità spaventose. Si era in procinto di abbandonare la valle, poi, Venceslao da Variago, potentissimo mago di quei tempi oscuri, propose a Federico Brunero, l’Uccellatore”, un incantesimo di rara potenza, ma anche di una terrificante crudeltà.
Il nobile accettò l’accordo e da allora il popolo della valle si sottomise alla tutela dell’ascendente Casa dei Brunero, in cambio della protezione dalle insidie delle bestie sempre affamate di sangue che dilagavano dalla gola infernale.
Ogni tre generazioni un giuramento veniva rinnovato sopra il capo di un infante, una responsabilità terribile, capace di annientare una vita. Eppure nessuno della famiglia si era mai sottratto al gravoso compito; mai.
E da allora la valle era restata in pace.
Inutile cercare di ritrovare il sonno perduto. L’alba non è lontana, mi alzo e indosso le mie oscure vesti di mago. Mi inginocchio per le preghiere del mattino, su un tappeto intessuto di fili d’oro, sporco di croste di sangue secco. Fuori, la luna rossa è impallidita e poi è scivolata piano dietro l’orizzonte.
In questa valle il potere di comandare si coniuga inesorabilmente al dovere di proteggere il popolo, costi quel che costi. Ora tocca a me il compito di preparare il giovane principe Arturo.
Diverrà un ragazzo ardito e coraggioso. È nato primo di una generazione sfortunata, ma so che non verrà a meno al suo compito, quando sarà il momento.
Sento i vagiti nella stanza accanto. Apro la porta ed entro. Adelaide, la nutrice, è seduta sorridente nel letto, in braccio ha un infante. Non solo porta lo stesso nome della nonna, colei che era esperta di pomate e lozioni per ogni esigenza del corpo, ma le assomiglia anche tantissimo.
Il piccolo ha avuto un incubo, come se avesse avuto presagio di ciò che lo aspetterà nel futuro. Ma io, il suo tutore, sono preparato a tutto.
Affondo la mano nella veste da camera e afferro tre palline colorate. Le tiro fuori e comincio a rotearle velocemente.
- Ecco un vecchio gioco – gli dico.
Il bimbo sorride; ha un aspetto meraviglioso.
- Mi ci è voluto tanto tempo, Arturo, ma alla fine non puoi immaginare come sono diventato bravo. E insegnerò anche a te, se lo vorrai!