GLI OCCHI DEL CUORE
di SVILEN ANGELOV
Nella montagna di Rila, in Bulgaria, si trova il monastero fondato da Ivan Rilski (876- 946), venerato come santo della Chiesa ortodossa e Chiesa cattolica. Il monastero di Rila nell’anno 1983 fu iscritto nell’elenco dell’UNESCO dei patrimoni dell’umanità. Nel monastero di Rila è possibile visitare ed ammirare la Croce del monaco Raffaello, scolpita nel 1802, sulla quale sono incise più di seicento figure rappresentate in cento scene bibliche.
Aveva studiato e programmato questo percorso nei minimi dettagli, ma la pioggia e l’aria pesante sembravano di aver cancellato tutto dalla sua memoria. Sentì un brivido fugace, una leggera e sconosciuta angoscia, così inusitatamente nera, ma continuò a camminare spinto dall’impazienza. Era conscio che questa strana e sconosciuta sensazione non l’avrebbe mai abbandonato.
La notte era quasi sbiadita dall’alba, mentre avanzava lentamente dirigendo i propri passi in direzione del confuso fruscio che udiva provenire davanti a sé.
Era convinto che se avesse oltrepassato la collina avrebbe sentito i rumori e gli odori dell’antico monastero.
Raddoppio quindi il suo passo…
Era passata una moltitudine di anni, i suoi pensieri ciondolavano, spalancando le porte dei ricordi di una volta.
Ogni cosa era meravigliosa come in un sogno vissuto e quel che un tempo fu uomo avvertì ora una piacevole quanto vaga sensazione di gioia. Stava per ritornare in quella camera dove la luce della croce illuminava le mura.
- Raffaello, non dubitare del tuo lavoro! Il tuo cuore accompagnerà la tua mano e l’amore assorbirà ogni tuo pensiero.
Il monaco si alzò quando la luna era ormai alta nel cielo e rispecchiava nella piccola finestrina tra i rami nell’olmo.
Le ombre si facevano più lunghe ed ondeggiavano avanti e indietro nella quiete della notte e solo da lontano si poteva udire a malapena il cigolio del cancello irrugginito. Con un gesto fulmineo il monaco si sistemò un ciuffo ribelle di capelli che gli cadevano come una cascata sulla fronte scolpita dalle rughe. I suoi occhi rimanevano a fissare un unico punto mentre le sue labbra pronunciavano la preghiera e non appena ebbe maturato le idee, prese un piccolo coltello, unico oggetto ancora rimasto lì, nella fredda stanza.
Cominciò così a lavorare impaziente il legno, la sua mano era guidata da una forza sconosciuta, i suoi occhi lacrimavano e due piccole gocce silenziose gli accarezzavano il viso per poi precipitarsi sul caldo legno.
Durante il giorno Raffaello lavorava il legno e quando la notte stendeva il suo velo oscuro e maestoso, il monaco passeggiava nel cortile del monastero, respirava l’aria della montagna fresca e pungente e lasciava che l’acqua lavasse le sue mani arrossite fornendogli sollievo e forza nuova.
Passavano stagioni dopo stagioni e l’olmo cambiò più volte il colore delle proprie foglie e i suoi rami, ormai forti e alti, ospitavano nidi di diversi uccellini.
Spesso il monaco Teodoro si rivolgeva curioso a Raffaello:
- Fratello, ti vedo sempre più strano e i tuoi occhi sono indemoniati da una triste malinconia… Hai terminato quel lavoro?
-Non ancora – rispondeva distratto Raffaello – La notte mi ruba la luce senza pietà e senza di essa non posso lavorare. Prego che il buio stasera scompaia allontanato dalle stelle o che la luna sia almeno piena così potrò continuare. Devo finire perché i miei occhi sono esausti e non più forti come dieci anni fa, quando cominciai ad incidere.
-Buon fratello, stai sognando? – disse Teodoro – Sono convinto che quello che stai creando sarà ugualmente apprezzato anche se non terminato. Finirà che tu stesso non potrai ammirarlo se non avrai cura dei tuoi occhi.
-Quello che sto creando sarà visto anche senza occhi. Teodoro, incredulo e stupito, si affrettò verso la cappella.
Da allora gli altri monaci videro Raffaello sempre meno frequentemente all’aria aperta senza che nessuno di loro potesse comprendere il motivo di tale suo rifugio. Intanto, la vita nel monastero procedeva: venivano trascritti libri antichi e seminate lettere e cultura in tutta la Bulgaria, dai monti di Rila ai Balcani, fino alla verde Tracia, i libri portavano luce a paesini baciati dalle acque del Mar Nero e del vecchio Danubio.
A Raffaello piacevano i primi raggi dell’estate soprattutto quando le foglie dei pioppi, delicatamente colorate di verde, avvolgevano tutto il monastero con il loro gradevole profumo di acacie in fiore. Il sole si levava già caldo sulle dolci vette della montagna, i prati appuntiti e colorati di mille colori selvatici ospitavano la danza delle farfalle che erano sempre occupate nel loro volo, impazienti di conoscere ogni singolo germoglio. Tra di esse vi era una farfalla diversa dalle altre che Raffaello osservò con stupore. Batteva le ali, leggere come l’aria e variopinte da sembrare spruzzate di polvere dorata su azzurre fiamme. Faceva ampi cerchi su e giù e si riposava sul muretto di sassi vicino al sentiero che portava all’orto. Era timida nella sua bellezza, ma sicura di donare allegria agli occhi stanchi del monaco e così volava ancora più vicino a quell’uomo strano.
Raffaello si inginocchiò con mani giunte in preghiera verso il cielo e ringraziò il Padre per la luce che forniva ancora alla sua vista. All’improvviso, l’eremita si sentì guidato dall’istinto di procedere fulmineo verso la sua stanza. Il legno lo stava attirando come una calamita e come una madre accarezza il proprio figlio, così egli continuò a
modellare sul legno figura dopo figura, scena dopo scena. I giorni passavano in fretta e anche quando la farfalla non si vedeva, il suo sguardo la cercava oltre la finestra e il dolore degli occhi scompariva. Allora capì che la Fede era essenziale e leggera come le ali della farfalla; polvere d’oro di luce splendente, pura e limpida avvolgeva la sua stanza e il suo progetto. Fu ricaricato per la seconda volta di forza nuova con il cuore riempito di Fede Divina e in quel momento si sentì pronto per prestare la propria esistenza all’oggetto che creava da ormai più di un decennio.
-Quello che stai scolpendo, piccolo uomo, rimarrà alle generazioni a venire… Aiutami mio Signore, forniscimi più tempo perché il giorno fugge troppo in fretta! – esclamò Raffaello tra di sé.
Erano passati dodici anni da quando il monaco aveva cominciato lavorare. La speranza che tanto a lungo era rinchiusa nel suo petto proruppe all’istante: era tutto giunto al termine. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi e sul suo volto erano disegnate mille emozioni contrastanti, le sue mani erano quasi disossate e le dita ripassavano i rilievi più evidenti della figura scolpita. La croce dalle seicento figure scolpite con più di cento scene raffiguranti era finita, mentre un silenzio religioso abbracciava la camera del monastero.
-Ho dedicato tutta la mia attenzione e amore ad ogni singola immagine, analizzando ogni singola figura che ho scolpito, ogni frammento della croce creata dalle mie mani è frammento della mia anima, ogni rilievo di essa è vena del mio sangue. Ho compito il volere del Cielo!
Ancora una volta il monaco passò le dita sulla croce e uscì dalla sua camera, facendosi riscaldare il volto dai primi raggi solari del mattino, i quali luce non disturbava i suoi occhi destinati al buio eterno.
Attraversò il cortile del monastero, deserto in quell’ora, e si sforzò di vedere davanti a sé, ma il suo sforzo era invano.
Con il cuore in gola e camminando a malapena, Raffaello si trascinò dove il cielo e la montagna sono un tutt’uno, entrambi azzurri. Una sottile nebbiolina, frutto dell’umidità si elevava pian piano e avvolgeva l’intero paesaggio.
Il monaco Teodoro, che era solito svegliarsi presto, vide una luce proveniente dalla porta socchiusa della stanza del suo più caro amico e, ancora pallido dal sonno, si affrettò verso la camera.
Non era abituato a dirigersi verso quella parte del monastero, ma il desiderio e curiosità di vedere quella luce era immensa. Una luce purpurea brillava e al centro dell’umile tavolo vi era la croce alta solo 80 cm, raffigurante più di seicento figure suddivise in cento scene bibliche.
Non aveva mai ammirato nulla di simile scolpito da mano umana. La scultura lignea emanava un fascino quasi irreale, ma allo stesso tempo rilevava umanità, umanità composta e raccolta nelle ore in cui Raffaello compiva il suo lavoro.
Lo splendore solare della croce illuminava tutto e la luce del giorno nascente si riuniva con quella della scultura.
Il freddo dell’inverno si faceva sentire e dall’azzurro cielo e luminoso cadevano danzanti piccoli fiocchi di neve, donando una particolare sensazione di pace, tranquillità ed armonia.
All’inizio gli sembrò tutto strano: stessa montagna, stesso monastero anche se era passata una carrellata di secoli. Il cortile in pietra naturale era colmo di persone: c’erano persone di tutte le età che scattavano foto in continuazione. Davanti all’uomo vi erano due donne con passeggino che attraversavano lentamente il porticato del monastero di Rila, tutto decorato di figure religiose. Poco distante da loro, una pittrice disegnava su un foglio ciò che aveva dinanzi ai propri occhi. Un cerchio di turisti erano riuniti intorno alla guida che cercava di rispondere ad ogni loro domanda e curiosità. E ancora più in là vi era un rumoroso gruppo di studenti universitari che era in fila per poter accedere alle stanze del monastero.
L’uomo li seguì. Sui muri del monastero era raccontata la storia, erano esposti manoscritti dei monaci di un tempo, dipinti, raffigurati volti di santi e tra di loro vi era quello di Raffaello.
Un bambino si avvicinò accompagnato dalla madre ad una stanza che si trovava in fondo al corridoio.
-Guarda mamma, guarda! – esclamò il piccolo – La croce!
Imprigionata in una vetrata, vi era la croce di legno come un libro che racconta al tutto il mondo la Fede tramite le scene raffigurate.
-Il monaco che ha inciso questa croce, non ha mai potuto vedere la propria opera perché venne accecato dallo sforzo immane, ma ci ha insegnato che la Fede e l’amore non si vedono con gli occhi ma con il cuore. – disse la mamma al bambino.
In un angolo, quello che un tempo era chiamato “Il monaco Raffaello” osservava la gente e nascondendo le lacrime di grazia e felicità, abbandonò lentamente quel luogo, tornando verso le montagne.