Basta accendere la televisione o aprire il giornale: sembra che i cronisti abbiano appena scoperto l’esistenza di un crimine così orrendo come l’assassinio di una donna. Fateci caso. Tempo fa se ne sentiva parlare qualche volta, ma erano più succosi e manipolabili i delitti commessi dagli stranieri ai danni dei nostri connazionali e quando si uccideva una donna si pensava solamente ad un delitto passionale. In quell’occasione i giornalisti sembravano alludere a chissà quale vita sentimentale della vittima, come se fosse scontato che era morta una sgualdrina.
Quante donne sono state uccise. E mica solo perché avevano un amante. A volte le prendevano fino a rimanerci stecchite perché osavano rispondere al marito, o al fratello, o al padre, a chiunque pretendesse qualche diritto su di loro. A volte venivano ammazzate perché troppo indipendenti e autonome, pronte a rifiutare la corte di qualcuno che non fosse di loro gradimento. Uccise perché volevano lavorare e questa loro volontà era un rischio da correre per non dover dipendere da nessuno. Dunque tante storie tristi, ma che adesso diventano quasi banali, per come vengono raccontate, anche se non lo sono di certo.
Io non so dove sono, diciamo che mi ci sono ritrovata. Non ho ricordi relativi alla mia giornata di ieri, non so cosa ho mangiato a colazione questa mattina (?), cosa faccio in questo luogo che non riesco ad identificare. Mi trovo in un corridoio bianchissimo e silenziosissimo, lungo, con delle porte dello stesso colore posizionate simmetricamente su entrambi i lati. In questo posto c’è un leggero odore di candeggina, come negli ospedali, e non si vedono né lampadine né lampadari, quindi mi domando da dove venga questa luce, che mi sembra piuttosto fredda. Non so da quanto tempo sono qui. Presumo di trovarmici dopo aver fatto quello strano sogno, quello di ieri notte, penso. Ho sognato che nel salone dei miei genitori si trovava un catafalco coperto di drappi pesantissimi, che sorreggeva un feretro di mogano. Mia madre si trovava seduta accanto alla bara aperta, piangente, con la velina del cappello nera che si appiccicava al suo viso di sessantenne curata. Mio padre invece stava sulla porta, impettito, senza provare sofferenza, almeno così mi sembrava. La sala era affollata di gente sconosciuta, non riuscivo a ricordare i loro visi e chi fossero, amici o parenti. Tutti però cambiavano espressione una volta che si avvicinavano alla bara per porgere un ultimo sguardo alla cara salma. Da dolente diventava orripilato, schifato, cereo, gli occhi si aprivano enormemente o quasi si chiudevano del tutto. Le bocche si serravano o si spalancavano, i nasi si arricciavano. Eh sì, doveva esserci qualcosa di orrendo là dentro. Mi sono avvicinata anche io, per curiosità e mai avrei pensato che ci fossi io, o meglio, il mio corpo, steso sulla seta rosa e vestito di tutto punto, con delle calze da prima comunione, il rosario tra le mani e delle terribili scarpe di vernice nera accanto ai miei piedi. Forse erano quelle che terrorizzavano chiunque venisse a darmi l’estremo saluto? Evidentemente no. Doveva essere il taglio che correva da orecchio ad orecchio sul mio collo.
Vedo qualcosa in fondo al corridoio. Non riesco a capire cosa sia, forse è qualcuno che si trova intrappolato in questo non-luogo come me, mi sembra il caso di avvicinarmi per vedere cosa succede. Mi metto a correre, sembra così lontano. Piano piano, mentre mi avvicino sempre di più, ecco cosa vedo davanti a me. Solamente la mia immagine riflessa in uno specchio. Ho lo stesso vestito che indossavo dentro la bara e c’è anche quel terribile taglio, che non ricordo di essermi procurata e neanche in che modo. Certo che fa schifo veramente. Il taglio della giugulare non prevede che la vittima sopravviva e meno male, almeno nel mio caso, se si fosse tamponata e ricucita sarei rimasta sfigurata per sempre. Mi sto seccando davvero. Non ho paura, non sono frastornata da quanto sto vivendo, voglio solo capire e per farlo mi sa che devo iniziare ad aprire queste porte, una per una. Devo solo decidere da quale iniziare.
La prima a sinistra mi sembra quella più adatta. Prendo la maniglia tra le dita che cominciano a sudare (mi sudano le mani nonostante io sia effettivamente morta!) e la faccio scattare. La porta si apre e la stanza che si trova dietro è buia e fredda, come se fosse una cantina. Ci entro. Cerco l’interruttore della luce e non lo trovo. Trovo una catenella però, forse tirandola posso accendere una lampadina. Dopo un click ecco che riesco a riconoscere il luogo in cui mi trovo: un seminterrato grigio e umido, tirato a lucido, dove posso riconoscere sulla destra la lavatrice e l’asciugatrice della nonna. Guardando meglio questi elettrodomestici non ci sono, sembrano essere svaniti nel momento in cui ho acceso la lampadina… anche la scala, non è in metallo come la ricordavo, ma in legno… che sia la casa della nonna prima della ristrutturazione di qualche anno fa?
Sento dei passi provenire dal piano di sopra. Dei rumori sordi, come una cinghia che percuote un corpo. Un tonfo e delle urla, poi la porticina che porta alla cucina che si apre, un uomo giovane piuttosto irato che trascina una donna altrettanto giovane per i capelli, mentre urla e piange. Non riesco a riconoscere nessuno, almeno all’inizio, ma poi appena mi si piazzano davanti agli occhi tutti e due ecco che capisco tutto: il nonno sta pestando malamente la nonna, incinta della mamma presumo, che piange e si tiene fra le mani il grosso pancione. Improperi irripetibili, non posso intervenire. Questo mi fa stare peggio dell’essermi vista sgozzata in una bara aperta. Posso solo uscire dalla stanza e richiudermi la porta alle spalle.
Altro che nonno amorevole. Era un delinquente. Doveva essere nel periodo in cui aveva l’abitudine di fare il giro delle bettole del paese a bere vino scadente, prima del suo infarto. Ma questo non lo giustificava. Che mostro era chi menava la moglie incinta prossima al parto? Domande a cui non potevo e non sapevo rispondere. Mi sentivo però molto in colpa perché quando erano entrambi vivi, il mio preferito era proprio l’aguzzino. La nonna si doveva essere indurita così per sopravvivere. Chissà quanto poteva essere stato pesante per lei alzarsi ogni mattina riflettendo se sarebbe arrivata al giorno successivo.
Altra porta, questa volta la prima a destra. Sempre stessa procedura: mani sudate, maniglia che scatta, io che entro in un luogo buio. Questa volta trovo subito l’interruttore e, con mio sommo stupore, mi ritrovo nella camera da letto dei miei genitori. Riconosco l’armadio, la specchiera con appesi i rosari, quel grande quadro ricamato sopra il letto. Lo strano silenzio mi fa intuire che noi figli non siamo ancora arrivati: avevamo l’abitudine di giocare in quella camera, con disappunto della mamma che ci riprendeva costantemente. Gironzolo un po’, guardo dalla finestra e mi stupisco di non trovare il pino nel giardino. La porta si apre e vedo mio padre che porta sulle spalle mia madre, visibilmente ubriaca. Eh sì, sapevo che prima del suo riavvicinamento alla Chiesa aveva l’abitudine di bere tanto, tale padre tale figlia. Poi fortunatamente ha smesso ed è diventata la mamma migliore che si potesse desiderare. Papà la mette a letto, sulle coperte, e le toglie le scarpe. Non faccio in tempo a pensare che sia dolce quando vedo che prova ad alzarle la gonna, mentre con l’altra mano si sta slacciando i pantaloni. Le salta addosso e lei, mentre si è appena ripresa e capisce cosa sta succedendo, urla e scalcia. Lui continua e le tira anche un ceffone, per farle capire chi comanda. Finisce tutto in breve tempo: lui si sistema e se ne va, lei piange rannicchiata nel letto, consapevole che con questo scherzo rimarrà incinta della sua prima figlia, io. Piango, ma anche stavolta non posso fare a meno di uscire dalla stanza senza intervenire.
Che non si amassero, l’avevo capito. Non doveva amare neanche me, penso, visto il mio concepimento. E se anche i miei fratelli fossero stati concepiti in questo modo?
Terza porta. Non so se me la sento di aprirla, visto i precedenti. Ho paura di trovarmi davanti agli occhi qualche situazione vissuta da altri parenti. Non pensavo che all’interno della mia famiglia potesse esserci questo odio. Eh sì, è di questo che si sta parlando, mica di caramelle. E’ l’odio per tua moglie e la tua futura prole che ti porta a massacrarle di botte, la stessa cosa vale per te che violenti tua moglie mezza ubriaca. Odio e disprezzo. Mi sento così scema: avevo sempre sentito della tensione in casa, ma mai avrei immaginato una cosa del genere. Anche mio padre si era sempre venduto molto bene. Ed ora cosa faccio? Rimango davanti a questa porta senza avere il coraggio di aprirla? Cosa posso fare altrimenti? Ci penso un attimo. Vado avanti.
Questa volta non mi trovo in una stanza o in una cantina. Anzi, è un giardino, una sorta di prato in mezzo ad una montagna nera con una profonda spaccatura. So dove sono, ho riconosciuto la cava di pietra ollare dove da piccola mi divertivo a nascondermi insieme ai miei fratelli. E’ il piccolo paese delle vacanze, dove mi sono trasferita dopo il diploma. Anni passati a servire tavoli in città mi avevano permesso di racimolare un piccolo gruzzolo, questo mi ha permesso di comprarmi un piccolo bilocale in questo paese di montagna dove sono sempre stata molto felice. Ricordo persino il mio lavoro, ora: gestisco una taverna proprio in centro, un locale caldo e accogliente dove si servono i piatti della tradizione locale. E’ un lavoro che mi dava molte soddisfazioni. Ricordo che è stato in questo posto che una sera ho conosciuto lui, un ragazzo un po’ silenzioso che veniva dalla città e saliva al paese per andare a sciare in inverno e a fare trekking in estate. La sua famiglia era originaria di qui e lui si appoggiava alla piccola casa che era stata di sua nonna, una volta. Inizialmente il nostro rapporto era molto formale, come quello che si instaura tra cliente e ristoratore. Poi piano piano era nata una simpatia, che via via era cresciuta, tanto che ci eravamo presentati come coppia alle rispettive famiglie. Mi viene da ridere se penso che mia madre aveva capito tutto, mi diceva che Michele era strano, troppo pensieroso, a volte inquietante, di stare attenta ed io ovviamente pensavo che esagerasse, che volesse buttare su di me le nuvole del suo matrimonio. Poi è successo che Michele si è trasferito al paese e io ho traslocato da lui, accorgendomi come fosse in realtà la sua natura. Cambiava umore di continuo, come i matti, si svegliava felice e poi scoppiava una lite per una banalità, come poteva essere la tavola non apparecchiata al suo rientro dal lavoro. L’avevo anche beccato a leggere le mie mail: non avevo mai pensato che fosse geloso, ma lui credeva che io avessi una relazione con un mio fornitore. Robe da fuori di testa. Alla fine non ce l’ho più fatta, quella vita sempre in tensione mi stava esaurendo, così ho deciso di traslocare di nuovo nel mio appartamento, a cui avevo fatto cambiare la serratura per non correre il rischio di trovarmi Michele in casa nel cuore della notte.
Comincio a ricordare che quel pomeriggio in cui lui voleva dei chiarimenti, gli avevo dato appuntamento alla cava. Era una giornata bellissima: la vallata era immersa nella luce del sole di primavera e i fiori cominciavano ad animare i prati con mille colori diversi. Quel lungo inverno sembrava fosse finito per davvero. Mi posso vedere seduta su una panchina che lo aspetto, sembro piuttosto agitata. Probabilmente ero ancora innamorata. Lui non doveva esserlo più da un po’. Eccolo arrivare, agitato, a passo svelto. Vedo che mi aggredisce verbalmente. Mi insulta, mi dice che non l’ho mai amato quanto lui ha amato me, mi giura che non è finita. Poi cambio d’umore: mi implora di tornare da lui, che cambierà, che tutto sarà più bello. Mi vedo mentre non cedo e gli dico che non ho intenzione di tornare sui miei passi, mi volto e, mentre me ne sto andando, eccolo che tira fuori dalla tasca il suo coltello, quello per i funghi, che gli avevo regalato a Natale. Farfuglia qualcosa, mia o di nessun altro mi sembra di capire e mi taglia la gola, da parte a parte. Poi se ne va, con la maglia sporca di sangue, per le vie del paese. Incredibile che io sia stata così ingenua da dargli un appuntamento in quel posto isolato, altrettanto incredibile che mi abbiano trovato solo al tramonto, quando Michele era stato trovato seduto su una panchina davanti alla chiesa in stato confusionale.
Non so che fine abbia fatto. Non so se sia in prigione o in qualche struttura specializzata: sicuramente i soldini di mamma e papà aiuteranno a farlo passare come depresso cronico e a fargli scampare la galera. Ora è chiaro come sono finita su quel catafalco. Sono figlia della violenza di un uomo contro una donna e la mia sorte è stata morire per mano del mio compagno.