GIALLO ITALIAN THRILLING 2000 – 2013

Di recente ho tracciato per la Zona un breve riassunto (molto personale e limitato) sul cinema (e la letteratura) di genere degli ultimi anni. Vorrei provare a fare lo stesso per un genere tra i più qualificanti e originali della nostra passata cinematografia: il thriller all’italiana, quello dei vari Argento, Fulci, Martino, Bazzoni, Cavara, eccetera. Come prosegue questo cinema oggi? Dal 2000 al 2013 si è visto qualcosa? Decido di partire dalla fine e proseguire in ordine sparso, evitando di parlare di pellicole inutili.

Parto da Tulpa, l’ultimo film del cantante Federico Zampaglione.

Avevo una grandissima voglia di vedere il film e devo dire che ne sono rimasto colpito.

Tulpa mi ha riportato ai momenti più belli del thriller, quel thriller malato degli anni ’70 e anche ’80 (penso al meraviglioso Macabro di Bava). Una fotografia stupenda, una cura estetica immane, degli attori degni di questo nome, una Gerini splendida quarantenne milf eccitantissima che regala scene di nudo e sesso veramente torride, una regia solidissima e ispirata, omicidi sadici e geniali, un maniaco che proviene per direttissima da 6 donne per l’assassino (ma anche un pochino dal tamarro Fatal Frames di Al Festa). Zampaglione non svacca mai, tiene bene il ritmo e dosa scene cruente col languore di un erotismo malato e perverso. Il finale poi, che molti troveranno affrettato, è invece uno dei punti di forza. Il regista non sente il bisogno di spiegare per filo e per segno le ragioni e le motivazioni del massacro, ma si limita a lasciare dei non detto (“l’essenziale è invisibile”, Saint-Exupéry), dei buchi, delle incongruenze che rimandano alla follia, al delirio insito nel genere thriller. Federico Zampaglione merita tutto il nostro rispetto. Zampaglione se ne frega di essere o meno un autore: Zampaglione è uno spettatore stufo dell’insignificanza del cinema (italiano) di oggi. Tulpa è un cliché, il cliché di Gastaldi & Martino, coi vizi e le trasgressioni dell’eroina Gerini (Fenech) trascinata in vortici erotici senza fine. Tulpa più che ad Argento fa pensare al grande Sergio Martino e allo sceneggiatore Ernesto Gastaldi (il vero padre del thrilling italiano) e per questo mi è ancora più caro. Tulpa è il Torso (I corpi presentano tracce di…) degli anni Dieci. Richiama alla memoria pellicole sepolte, cineromanzi dall’atmosfera fumosa e sporca come quella di certe sale da terza visione.

Bene. E prima di Tulpa?

Michael Zampino, regista de L’erede con Alessandro Roja.

Il film è del 2010 ed è girato nei boschi delle Marche.

Un bel lavoro, curato e recitato con tutti i crismi. Il punto di forza è nell’idea, finalmente non appiattita sui soliti maniaci che tengono delle tipe in cantina come in tanto horror americano (vecchio, concettualmente) di 40 anni. Qui si lavora sui conflitti, insanabili, che nascono tra vicini per motivi inerenti all’usocapione, alla proprietà, alla roba. Dopo sarà solo un precipitare verso gli abissi della follia, abissi ben scavati dagli spettri della crisi economica. Da questo punto di vista un lavoro coraggioso e fuori dal coro. Da riscoprire.

Cappuccetto rosso di tale James Cimini, ammesso che esista e non sia un parto del produttore Assonitis, vecchia volpe del nostro bis. Comunque questo Red riding hood è molto bello e rilegge in chiave contemporanea psycho thriller la solita fiaba che tutti conosciamo. Una ragazzina di tredici anni vive sola in un mega appartamento a Roma e non ha problemi di soldi, infatti è ricchissima. La ragazzina è stata abbandonata dalla madre, troppo presa dai suoi intrallazzi amorosi, e sogna l’amato padre, un politico americano ammazzato durante un attentato. Le rimane solo una nonna, attrice americana, superficiale e disattenta. Il tema dell’abbandono di un minore è l’asse portante di questo lavoro che si snoda nelle notti metropolitane romane (fotografate dall’occhio fulciano di Sergio Salvati), popolate da barboni ricattatori e vari personaggi corrotti e menzogneri. A Jenny, la tredicenne, non resta che costruirsi un suo mondo interiore e darsi una missione. Ripulire la società dai suoi rifiuti umani. Assonitis/Cimino confezionano un prodotto godibile e originale dal taglio internazionale. Il finale scivola nel delirio trash/surreale, confermando la singolarità del film. Anziché perdere tempo dietro l’ennesimo reboot di qualche misconosciuto cult anni Ottanta, spendete il vostro tempo su questo film.

The torturer, 2006, di Lambertone Bava. Girato a Prato, il film che segna il ritorno al thrilling del grande Lambertone. Io sono di parte, lo ammetto, ho sempre amato il cinema di Bava Jr. (il vero maestro del thrilling anni ’80), non ci posso far nulla. Questo The torturer è, al solito, ben girato, ben montato e fotografato. Digitale asciuttissimo, vicenda tamarra però calata nel reale, nei tempi che corrono (che non sono più i Settanta): divette e stelline, veline o aspiranti del nulla, tutte accalcate contro la piccola porticina del successo televisivo. Un maniaco capisce l’antifona e organizza finti casting per poi massacrarle in diretta e girare i filmati al mercato degli snuff. Bava confeziona un thriller potente, nervoso e incazzato, venato da un’ironia nera degna di suo padre. I pezzi delle torture guardano a molto cinema contemporaneo (i torture porn alla Saw) e la colonna sonora metal è fighissima. Grande opera e chissenefrega delle ingenuità, dell’assassino telefonato e altre piccolezze. Lambertone sei tutti noi!

Mimesis di Roger Fratter (ma si chiamerà davvero così) il maestro (lo-fi) del cinema indipendente degli anni Zero. Scritto dalla coppia di giovani sceneggiatori autori dello script del torturatore baviano, Mimesis è la prima vera incursione nel thriller di Roger (ci sarebbe l’altrettanto splendido giallo paranormale Innamorata della morte, consigliatissimo). Il regista bergamasco si immerge nell’alessandrino e dipinge una provincia svuotata, neutra (nei suoi film infatti non si capisce mai cosa fanno per vivere i personaggi, inoltre le province di Fratter, pur dipinte con grande impatto, rimangono lontanissime da qualunque aggancio col reale, come se fossero sospese in un universo parallelo scevro da qualunque problematica economica – la parola precarietà o flessibilità è esclusa dal vocabolario del regista e sarebbe curioso chiedergliene conto…), nella quale si muovono donne bellissime, quasi delle epifanie su gambe lunghissime. La bellezza, nel cinema di Fratter, pare sempre irreale, tanto è abbacinante. Il plot si regge su pochissimi personaggi (un trio di donne, un oscuro segreto, una ragazza sparita) e pochi personaggi di contorno (un grande William Carrera logo-impedito e fumettaro porno). Fratter tiene bene le redini e non annoia mai, portandoci dritti verso un finale in cui l’anima malata (eros&thanatos) ci scoppia in faccia insieme al sangue. Anche con pochi mezzi (non si sente la mancanza della grana, però) il regista bergamasco aggiunge un’altra perla nera alla sua notevole filmografia.

La notte del mio primo amore, operazione indipendente e professionale di Alessandro Pampianco, girato in digitale nel 2006 a Terni. La fetta di mercato da coprire pare buona: un teen thriller rivolto a un pubblico di appassionati e di adolescenti. Peccato che non se lo sia filato nessuno. Il film, pur nella semplicità estrema del soggetto, funziona, è ben diretto e azzeccato nella scelta degli interpreti, giovanissimi quasi tutti alle prime armi che contestualizzano bene la vicenda nel decennio appena trascorso. Il killer malato poi è una sorta di Leatherface casereccio con parrucca di riccioli biondi come il killer del delirante porno soft di Bruno Mattei Omicidio al telefono. Piacevole e interessante.

Ultimo atto di Andy Casanova, forse del 2006. Mi piace inserire in questo elenco anche un film porno con trama, quindi una mosca bianca prima del tracollo all sex di You Porn e del gonzo. Questo film, prodotto e montato dal grande regista e produttore Silvio Bandinelli, recupera le suggestioni del thrilling e le mescola in una vicenda hard senza sconti. Gli elementi ci sono tutti: una regista di film horror con un passato oscuro e traumatico, strane apparizioni di una ragazzina con vestaglia e cappelli neri sul viso alla Ringu (titolo originale di “The Ring”, ndr), una villa immersa nella campagna toscana e una maniaco con mano guantata che ammazza chiunque giri intorno alla casa. Tenendo conto che si tratta di un porno e quindi di una produzione a bassissimo costo, girato in una settimana o poco meno, il film di Casanova (uno degli ultimi autori affermatisi nello scorso decennio, sua infatti la famigerata serie di successo degli Stupri Italiani) costruisce l’atmosfera necessaria e si guarda con piacere. Non siamo molto lontani da certi prodotti di puro mestiere confezionati dai nostri artigiani (pensiamo a certe cose soft di Bruno Mattei), solo che qui il sesso c’è e si vede e ben si amalgama con la parte thriller (altrettanto presente, tanto che bisogna aspettare oltre i primi dieci minuti per avere la prima scena di coito). Eros & Thanatos al 100%.

Occhi di cristallo, la cosa migliore di Eros Puglielli, confezionato nel 2005. Il film è tratto da un bel romanzo di Luca Di Fulvio, L’impagliatore, del 2000. In una Bulgaria senza connotazioni geografiche (peccato, il libro era ambientato in una Genova sommersa dai rifiuti, cosa che, nella pellicola si intravede solo in certe scene e durante i titoli di coda), Puglielli gira il prodotto meglio confezionato insieme al Tulpa di Zampaglione. Ottima cura, ottima fotografia (da noir), ottimo parco attori con un anomalo Luigi Lo Cascio, viso spigoloso e inquieto, a dispetto del fisico gracilino, degno di tanti commissari anni ’70. La regia macina tutta la scuola degli anni ’70 e ’80 e traccia nuovi percorsi possibili, proprio come farà Zampaglione. E’ un vero peccato che al Festival di Venezia Occhi di cristallo sia stato fischiato e preso a pernacchie. Era una grossa produzione e ci avevano creduto in molti, poi però non è andato a vederlo nessuno e Puglielli non è diventato il nuovo Argento. Peccato davvero. La roba thriller più pura e potente insieme a Tulpa, mi ripeto. Le scene dei delitti funzionano. L’idea della bambola è inquietante. D’accordo, magari potevano metterci un pochino più di sesso malato e tagliare meno con l’accetta i caratteri di certi personaggi, o limare meglio certi dialoghi (credo che Puglielli avrebbe potuto fare a meno di uno come Ferrini nel pool di sceneggiatori), però non si può fischiare un film così e poi stravedere per la roba più inguardabile degli anni Settanta solo perché è una roba anni Settanta. Con un incipit che rievoca i delitti del mostro di Firenze: una coppietta che scopa, un guardone che se lo mena, il maniaco che irrompe armato di doppietta e spara strappando pezzi di carne, pezzi di mammelle. Roba tosta a cui non eravamo più abituati. Peccato davvero.

Cattive inclinazioni, titolo azzeccato per il thriller (anomalo) di Pierfrancesco Campanella, del 2003. Grossa distribuzione per un film che non s’è inculato nessuno, un thriller che guarda alla tradizione nostrana, privilegiando quei coacervi di perversioni e intrighi di certo Lenzi e Guerrieri. Un killer che ammazza con una squadra da disegno. All’inizio e alla fine. In mezzo un mondo di personaggi strambi, tutti con un sacco di scheletri nell’armadio e l’onnipresente occhio catodico a spiarli. Il killer, inconsapevole, mette in moto un meccanismo, un gioco al massacro esasperato da una messa in scena quasi trash, ironica e goliardica. Cattive inclinazioni è (quasi) la parodia di un certo cinema, ne recupera la vena delirante e inverosimile, stringendo la rappresentazione sul condominio in cui tutto si consuma. Belle anche le facce degli interpreti. Franco Nero che fa il giudice barbone. La bona Elisabetta Rocchetti che si spoglia. Eva Robin’s che fa Eva Robin’s. Florinda Bolkan invecchiata male e la manza Mirca Viola nel ruolo del commissario che deve dipanare la matassa. Da recuperare.

La donna del delitto, titolo quasi alla Fruttero&Lucentini per il giallo del grande Corrado Colombo. L’ambientazione è provinciale, su un lago popolato da donne (milf) quarantenni, ricche e fighe, annoiate, tutte dedite a trascorrere il tempo tra un party, partite a carte e scopatine col manzo Vincenzo Peluso, escort al maschile del luogo. Poi all’inizio ammazzano una del gruppo, la Martine “Gatti rossi in un labirinto di vetro” Brochard e le cose cambiano. La villa del primo omicidio viene occupata da una nuova inquilina, Giuliana Gemma, di una sensualità catatonica. Tutti sembrano avere qualcosa da nascondere. Peluso fa il filo alla Gemma. In mezzo ci si mette la tostissima Cinzia “Buio Omega” Monreale. Altri omicidi strani (c’è pure la ragazzina paralizzata che spia un omicidio e fa tanto film anni Ottanta di Bava Jr.) e un commissario inquietante come Lorenzo “Ris” Flaherty. Colombo gira benissimo, dosa l’atmosfera e ci regala un microcosmo pre-crisi economica popolato solo da arricchite che campano con l’accumulo del capitale e il frutto degli interessi. I mariti delle milf non ci sono mai, sono sempre altrove, occupati nelle loro fabbriche, nei loro consigli aziendali. L’ambiente del lago è saturo di gelosie, odi, invidie. Il sesso è un calmiere. Gli interpreti sono tutti in parte. Bravo Colombo. Film del 2001. Dodici anni prima di Tulpa. Opposto a Tulpa. Quello è un film sporco, sanguigno, cupo, calato in un universo svuotato di senso dal tracollo economico. Colombo lavora sulla sottrazione dello splatter. Le cose avvengono alla luce del sole, tra le acque cristalline del lago, in una calma apparente che anticipa l’apatia del nostro quotidiano vivere. L’altro grande thriller di questi tredici anni. L’altro thriller capace di leggere la realtà e contestualizzarla in una storia di fantasia. Custodite la vostra copia. Tra anni vi sarà preziosa.

Anche all’estero qualcuno ha provato a rinverdire i fasti della mano guantata. Penso al Masks di Andreas Marschall, ad Amer della coppia Cattet & Forzani, a Berberian sound studio di Peter Strickland o In fondo al bosco, film francese di Lionel Delplanque.

Conclusioni: il giallo thrilling degli anni Settanta, tranne pochissime eccezioni (in particolare i film di Sergio Martino), sembrava calato in un universo parallelo. La densità degli anni Settanta, la strategia della tensione, gli anni di piombo, il clima densissimo di quella stagione non è stato fotografato dal nostro cinema di genere. Questo è un limite anche del poliziesco, genere che avrebbe dovuto aderire maggiormente a quel decennio e che, invece, presenta malavitosi marsigliesi da anni ’50 e rarissime sono le figure dei terroristi. Anche Di Leo, universalmente considerato l’unico regista capace di descrivere realisticamente la realtà criminale di quel periodo, racconta vicende irreali e superficiali (mi riferisco esclusivamente alla capacità di agganciare un film al respiro dei suoi anni, non certo alla qualità artistica che in Di Leo è altissima!) in cui il capo boss è una scopiazzatura del già letterario e fumettistico padrino coppoliano e non riflette i modernissimi intrighi economici finanziari della mafia di Bontade (infiltrata nel tessuto economico lombardo già dalla metà dei Settanta) e dei successivi rozzi e spietatissimi corleonesi. Figure come Riina e Provenzano erano inimmaginabili anche per uno come Di Leo. Con questo voglio dire che il nostro cinema ha sempre avuto grande difficoltà nel descrivere e raccontare la realtà contingente (a mio avviso anche nel cinema d’autore si ravvisa questo ingolfamento, magari cercando una strada obliqua e metaforica, penso a Petri, Fellini, Antonioni, Rosi e Damiani). Il cinema thrilling dei Settanta ci restituisce il decennio attraverso gli utensili, le macchine, i corpi, i vestiti. Tuttavia i personaggi si muovono in un mondo in cui, a parte qualche maniaco nero vestito e qualche corruttore da fumetto nero, non si ravvisa alcun indizio di quel che realmente avveniva (stragi, colpi di stato mancati, cortei, scontri, compromessi storici, referendum, eclissi di una cultura di sinistra e avvento di un riflusso catodico all’insegna del “campioni del mondo, campioni del mondo!”). A mio avviso si tratta di una mancanza poiché, pur essendo il thriller un genere più psicologico e surreale, irreale, la maggior caratterizzazione del contesto (pensiamo al Lucarelli del capolavoro Lupo Mannaro) aiuta la vicenda, rendendola più verosimile e quindi spaventosa. Dico questo perché il thrilling italiano di questi ultimi tredici anni è stato maggiormente capace di calarsi dentro il suo tempo e, in questo, leggo il suo tratto specifico. Film come La donna del delitto raccontano molto bene un mondo del lusso non ancora scalfito dai tracolli di borsa di là da venire, così come La notte del mio primo amore immerge nelle lande del giallo i ragazzini di oggi, diciassettenni usciti fuori da Moccia e gettati tra le braccia di un maniaco malato che li costringe a confrontarsi con la morte improvvisa e imprevista. E ancora Cattive inclinazioni, thriller attento alle derive televisive di certe trasmissioni, ossessionate dalla cronaca nera. O il Torturer di Bava che macella il vuoto pneumatico di certe aspiranti starlet disposte a tutto pur di accedere alla celebrità televisiva, teatrale o di dagospia. Il confine estremo è il bellissimo Tulpa di Zampaglione che ci ripropone dieci anni dopo il mondo raccontato da Corrado Colombo, solo che ora tutto si è scuro, è plumbeo. Anche ai piani alti, nei consigli di amministrazione, possono cadere delle teste. I personaggi sono frustrati e cercano nel sesso un calmiere che, in realtà, acutizza l’insoddisfazione personale e li spinge all’autodistruzione. Il thriller è una perfetta piattaforma per raccontare lo sviluppo sociale antidemocratico del mondo nel quale viviamo, un mondo di cui, più che la mancanza di lavoro, colpisce la condizione da terzo mondo del lavoro in casa nostra. La politica ha abrogato il suo ruolo all’astrattismo dell’economia finanziaria, cedendo a ogni sua richiesta: in primis il costo del lavoro bassissimo, stage prolungati a oltranza, smantellamento delle tutele più elementari, incremento del precariato, smantellamento del sistema pensionistico. La mancanza di queste garanzie produce una società sfacciata e arrogante in cui pochissimi si possono permettere tutto e milioni di persone si adattano a guadagnare uno stipendio insufficiente per sopravvivere. Stronzatine tecnologiche come Facebook aiutano i derelitti nel credersi al centro di una rete di relazioni fittizie e superficiali, completamente inadeguate ai bisogni autentici di affermazione di un individuo. Credo che la letteratura contemporanea (e il cinema) abbia il compito di mostrarci quello che abbiamo sotto gli occhi.

Bene. Ho tediato a sufficienza. Prima di chiudere un breve elenco dei libri thrilling italiani usciti in questi tredici anni. Non tutti, certo, e chi li conosce tutti. Il sottobosco è troppo grande per le mie limitate forze (economiche e di tempo). Ne segnalo alcuni. Sicuramente Giovanni Buzi col suo La signora dalla maschera d’oro e il racconto (vincitore del “Premio Profondo Giallo” 2005) La collana di perle celesti. Altro nome imprescindibile quello di Alda Teodorani coi suoi La vie en rouge, Sesso col coltello e Organi. Perle thrilling sono contenute nella splendida antologia di Antonio Tentori, Nero Profondo. Eraldo Baldini, solitamente uomo del gotico, entra nelle viscere pulsanti del giallo morboso col suo personale Chi l’ha vista morire, ossia Bambine, criptica novella tra le più belle del nostro eroe. Un altro cavaliere nero come Gianfranco Nerozzi dice la sua con Cuori perduti. Barbara Baraldi ha scritto molto thrilling, personalmente la trovo una furbetta, non mi fa impazzire, ma è doveroso segnalarla. Meglio la brava Cristiana Astori coi suoi nostalgici Tutto quel nero e Tutto quel rosso. Immancabili anche le antologie per il Giallo Mondadori, Il mio vizio è una stanza chiusa ed Eros & Thanatos o il recente esordio nel romanzo lungo di uno scrittore tecnicamente bravissimo come Stefano Pastor e il suo Giocattolaio. Altro nome: Romano DeMarco, scrittore di polizieschi e non solo. Da leggere il suo A casa del diavolo, thriller orrorifico e atmosferico sulla scia del gotico padano. E vogliamo dimenticarci di un maestro come Fabio (Ivo Scanner) Giovannini e il suo Genova ti ucciderà uscito per la mai compianta abbastanza Larcher Editore? O il thriller (in e-book, scaricabile gratuitamente dal server di Lulu.com) di Daniele Vacchino, Amore e morte sulla riviera romagnola, divertito omaggio al glorioso genere nostrano con la capacità di calare la cornice thrilling in un paesaggio-landa (che ricorda certi gialli alla Fruttero & Lucentini o Piero Chiara) asciugato dalla depressione economica. Al solito: lettori vogliosi e registi senza idee siete avvertiti.

Davide Rosso