Alfonso Samale viene assunto dalla scuola media Ferrari con una semplice telefonata. Una segretaria lo informa che la donna prima di lui (nelle graduatorie scolastiche e con un punteggio leggermente superiore) ha appena rifiutato la cattedra. Alfonso ha pochi secondi per dare una risposta, tuttavia non ha bisogno di tempo per pensarci: da quasi un anno lavora presso un call center, fabbrica dell’età moderna in cui, all’ombra dell’inbound e dell’outbound lavorano e si consumano centinaia di persone. L’idea di uno stipendio fisso per il resto dell’anno (siamo a Gennaio e la supplenza durerà fino alla fine della scuola) e di abbandonare la sua postazione davanti al Pc è troppo bella! Alfonso dà immediatamente la sua disponibilità e prende accordi con la segretaria per presentarsi la mattina successiva. Poi telefona al call center e si licenzia con immensa gioia. Con quel posto terribile è finita: niente più sorrisi forzati mentre si telefona ai clienti, niente più “divise” o supervisori maleducati che ti fiatano sul collo per controllare le tue tattiche di vendita. La mattina successiva è davanti all’ingresso della scuola media Ferrari di Vercelli, un vecchio e imponente edificio di cemento grigio circondato da una cancellata di ferro. E’ pronto per iniziare la sua nuova vita. Suona il citofono, gli aprono. Nell’attraversare l’ampio cortile sente delle grida d’animale sfuggire dalle ampie finestre. Le bidelle lo aspettano sulla soglia come delle sentinelle. Alfonso viene scortato nella segreteria, dove una signora di mezza età, alta, ancora ben tenuta, lo accoglie con un abbozzo di sorriso che non significa nulla. Lo chiamano “professore” e lui ancora non riesce ad abituarsi a quella parola; per troppo tempo è stato un pollo da batteria con le cuffie, microfono e schermo piatto del computer a selezionare con un click i numeri telefonici in memoria e ritrovarsi improvvisamente in un ambiente come quello (un posto pubblico!) gli pare una vera manna! Alfonso compila una dozzina di fogli e quasi fischietta, sentendosi lontano dagli esaurimenti nervosi e dal burnout del precedente mestiere, infine viene accompagnato nell’ufficio del vice preside, un uomo sui quarantacinque precocemente incanutito, che gli spiega sorridendo con quali classi dovrà lavorare, ossia due prime, due seconde e una terza. Le materie affidate al prof. Samale saranno Storia e Geografia, per un totale di diciotto ore settimanali e uno stipendio di milletrecento euro al mese. Alfonso ascolta le spiegazioni del vicepreside e prende nota mentalmente delle regole interne della scuola. Poi l’uomo si alza dalla scrivania e sorride comprensivo.
“Te lo dico subito, non sono belle classi, ma quella difficile è la terza, li conoscerai. Fatti vedere deciso, autoritario o se ne approfitteranno.”
Manca mezz’ora all’inizio della terza ora, l’inizio della supplenza di Alfonso. Lui passeggia per i corridoi e si fa un’idea dell’istituto. In sala insegnanti, uno stanzone ampio e inondato di luce, conosce alcuni colleghi. Tutti ripetono il medesimo avvertimento: preparati alla terza, è la classe più difficile. Da mezze paroline capisce che l’insegnante prima di lui ha abbandonato proprio per colpa di quella classe. Alfonso annuisce, tuttavia non si sente preoccupato. La scuola gli pare un ottimo ripiego, praticamente un lavoro part-time pagato come uno intero! La prima mattinata scorre veloce: il prof. Samale prende confidenza col suo nuovo impiego, conosce le prime e le seconde e sfoglia alcuni libri di testo. L’impressione generale è buona; gli alunni sono per metà immigrati marocchini, polacchi o rumeni, oppure ragazzi e ragazze non particolarmente brillanti, tuttavia simpatici. Quando rientra a casa per l’una, non deve fingere buon umore come faceva nel call center. La notte dorme un sonno profondo e sereno. Il giorno seguente entra nella classe terza. L’insegnante dell’ora prima, una biondina piccolina, scopabile, esce quasi scappando e lo saluta di sfuggita, visibilmente distrutta. La classe lo aspetta. Quasi tutti sono in piedi, ognuno intento a farsi i fatti suoi, a parlare, a tirarsi dei fogli di carta arrotolati o digitare il cellulare. Lui prova ad attirare l’attenzione, batte le mani, li richiama bonario. Nulla. Allora alza la voce. Una. Due. Tre volte. Qualcuno gira la testa verso la cattedra. Musi lerci. Sorrisini di scherno. Alfonso batte i pugni sulla cattedra. Grida che tutti devono sedersi. Qualcuno gli fa il verso. Altri ridono ottusamente e riprendono a fare come se non ci fosse. Sta per battere un’altra volta la mano sulla cattedra, quando gli occhi gli cadono su un oggetto conficcato nel soffitto. E’ un crocifisso, simile a tanti crocifissi appesi nelle aule scolastiche, solo che questo è capovolto e la statuetta di Gesù ha le braccia spezzate e la testa dipinta di nero e bianco come i negri nel vaudeville. Un brivido inaspettato si eclissa nelle viscere del professore. Quell’oggetto orrido ed esemplare gli appare come un grumo di male puro, qualcosa di così infame e gratuito da togliere il fiato. Per un istante, Alfonso Samale si chiede se sia stato un errore accettare quella supplenza. L’insegnamento, contrariamente a quanto credono in molti, è come andare in scena per quattro/cinque ore filate senza un vero copione, costretti a improvvisare e recitare davanti a un pubblico difficilissimo, indifferente o addirittura ostile. Comunque egli scaccia quei pensieri e si costringe ad andare avanti. Picchia le nocche sulla cattedra fino ad arrossarle e avere la loro attenzione. Consuma ogni stilla d’aria dai polmoni e riesce a vederli tutti seduti. Alla fine, non riesce nemmeno a finire l’appello che è già suonata la fine dell’ora e loro, una massa semi compatta di corpi e colori sfuggenti, ritornano a muoversi come molecole impazzite all’interno di una provetta. Nel lasciare l’aula, Alfonso sente i loro sguardi ironici ricamargli le scapole. Dopo quell’ora si sente esausto come alla fine di un turnover di vendita. In sala insegnanti raccoglie il suo cappotto e la sciarpa e scivola via, cercando di evitare i colleghi. A casa, si prepara un panino col formaggio e un uovo sodo, dopodiché collassa sul letto e cerca di pensare a niente. La stupidità della tv lo aiuta a scivolare in un sonno popolato da vaghi mormorii e risatine. La sveglia delle sei e trentacinque lo trova così, e lo ridesta come una mazza di latta che bastona la mente e disperde gli incubi. Con meno entusiasmo rispetto al primo giorno, prepara la borsa. Nelle altre classi il lavoro, pur con alti e bassi, prosegue. E’ l’ora quotidiana nella terza classe a costituire un tormento. Quasi sempre l’ultima ora. Quasi sempre la stessa scenetta: l’insegnante dell’ora precedente che scappa via consumato e loro che si riversano nel corridoio, vanno in bagno, chiacchierano assiepati attorno alla macchinetta delle bibite, eccetera. Alfonso che fatica a ricondurli in classe, a farli sedere nei banchi e deve ignorare le risatine di scherno dei teppisti. L’ora sfugge senza riuscire a concludere nulla, nemmeno una paginetta di Geografia o di Storia. La consapevolezza che loro riescano a impedirgli di fare il suo lavoro lo ferisce ogni giorno di più. E se all’inizio ha provato ad essere comprensivo e tollerante, già al termine della seconda settimana, Alfonso Samale non provo neppure la minima comprensione nei confronti di quella teppa. Il crocifisso al contrario è sempre lassù, infisso nel muro come una maledizione antica, come una nenia, un monito. E loro lo aspettano armati di sorrisi ottusi, impermeabili a qualunque bellezza, a qualunque sforzo, a qualunque tentativo di comprensione umana. Non sanno leggere. Non sanno scrivere e non hanno paura di quel che verrà dopo. Alfonso prova a raccontare delle sue esperienze lavorative, tenta di far loro capire che il mondo del lavoro non è proprio rose e fiori, ma niente. La classe lo osserva con occhi duri e gelidi come ghiaccioli e nemmeno le urla altissime di Alfonso li spaventano. Giorno dopo giorno, lui sente le forze venire meno. Dopo quell’ora di gogna quotidiana la lingua rotola dentro la bocca come quella di un idiota e le cattive parole che si annidano nella mente pungono come uno sciame di calabroni. Nonostante nelle altre classi il lavoro proceda, l’ora nella terza diviene quasi insopportabile. Come quando lavorava nel call center, comincia a chiedersi chi lo obbliga a sopportare? La risposta è la stessa. A quarant’anni, ormai senza altre prospettive lavorative, dopo una crisi economica lunghissima, il lavoro, qualunque lavoro, è come l’ultimo filo di speranza prima del baratro. Per questo egli non può cedere a quei teppisti mascherati da ragazzini. Giorno dopo giorno. Loro sono lì ad aspettarlo. Insubordinati, indifferenti, caotici. Molecole impazzite prive di qualunque ordine morale. Alfonso sbraita, dà fondo alle ultime energie, dà note, compiti, punizioni, niente. Non serve a niente. Loro lo provocano con battutine allusive, senza mai scoprirsi. Lo deridono. Fanno domande che non centrano nulla. Continuano a vociare tra di loro. Un mormorio persistente, penetrante, ossessivo. La notte, Alfonso avverte quelle voci fin dentro le pieghe del letto. Gli martellano il cervello. Dopo un mese alla Ferrari è dimagrito peggio di quando faceva le vendite al call center. Dorme male. E’ pallido, ha gli occhi cerchiati. Il vice preside, incrociandolo nel corridoio, lo ferma per chiedergli se và tutto bene.
“Si.” risponde Alfonso.
Poi l’ultima ora nella terza classe.
Al piano superiore, al fondo del corridoio.
E’ una giornata buia e piovosa di febbraio.
Quasi senza luce.
Nel camminare verso la classe, egli avverte qualcosa di vecchio e cupo calare come un’ombra fuori dal tempo sul corridoio. Solo un’impressione passeggera frutto della stanchezza e della frustrazione. Ci vorrebbe una donna, una relazione stabile a dare calore alla sua vita, pensa. Alla fine, è da quasi due anni che Alfonso non riesce ad avere un rapporto con una donna.
Loro sembrano saperlo.
Le ragazzine arabe lo scherniscono mostrandogli le cosce.
La ragazzina albanese nel primo banco se ne sta appollaiata sul banco come un uccello in una voliera. Gli altri gridano e si azzuffano tra loro. Lo ignorano così come lo ignoravano nel call center i suoi supervisori. Lui borbotta delle cose a caso dal libro di testo, forse un paio di persone, a loro volta ostaggio della classe, provano a seguirlo e hanno pena per lui. Tutti gli altri tessono il mormorio che gli trapana il cervello. Inbound… Outbound… Up-selling… Cross-selling… Flat… All inclusive… Cosa si intende per globalizzazione e quali fattori la caratterizzano?… Egitto e Marocco. Spiega quel che ti ricordi di questi due stati, partendo dalle sue capitali… Side-by-side training… Quale parte della società italiana cominciò a guardare, negli anni ’20, ai fascisti con simpatia?… Quali religioni sono presenti nell’Africa sub-sahariana?… E quali sono le parti più densamente popolate?…
A un certo punto egli scivola di colpo come in un buco nero vertiginoso e sente di perdere progressivamente il controllo del proprio corpo. Qualcosa si rompe nelle viscere. Alfonso si mette a urlare, lancia in aria una sedia e sbatte a terra la sua borsa nera da professore. Poi si lancia oltre i banchi, verso la porta, verso la salvezza.
Quando sale la preside, lui se n’è già scappato in strada.
Non può vedere la reverenza, la dolcezza e la rispettosa acidità della classe. Non una mosca che vola, non un fiato. Una classe modello. Dicono: “il prof. è impazzito all’improvviso!” Non può vedere i loro volti da cherubini. Alfonso è a casa. Nel passarsi la corda intorno al collo, un attimo prima di saltare giù dal tavolo, percepisce ancora quell’ombra cupa e vecchia che si aggirava per i corridoio deserti della scuola quando tutti se n’erano andati. Un attimo prima di saltare, l’aria diventa più pesante. C’è una densità che riempie la gola, un silenzio abitato da qualcosa di invisibile. Alfonso alza gli occhi verso la finestra del quinto piano. Fuori, oltre i vetri rigati dalla pioggia di febbraio, intravede delle dita bianchicce tamburellare sui vetri. Poi i volti resi verdognoli dai riflessi dei lampioni che si stampano contro le lastre e le appannano. I volti morti della classe! Jump!…