Per lavoro sono obbligato ad utilizzare la mia autovettura, così da evitare scomodi spostamenti sulle autolinee, che comunque non mi porterebbero fino alla meta. Dunque, tutte le mattina, quando ancora il sole non ha bucato la grigia e mortifera cortina dell’inverno, mi sveglio, mi lavo, sbrigo una colazione frugale e mi metto alla guida lungo le strade extraurbane pennellate dal gelo.
Questo l’incipit.
La storia è tutta nelle poche parole che seguono, ossia nel precipitare dentro le fauci digitali (sebbene sarebbe meglio dire: “l’occhio digitale!”) dell’autovelox. Un autovelox posizionato lungo un rettilineo a pochi chilometri da casa. Un misuratore di velocità situato su un tratto dove, praticamente, è impossibile non superare il limite consentito dei 50 Km orari. La strada, perfettamente asfaltata, è bella dritta, a due corsie, situata in una zona di campagna priva di abitazioni o attraversamenti pedonali. Nessuna scuola, nessun pericolo di animali in transito, insomma niente di niente. Dunque la decisione (del comune, della provincia, dei vigili?) di posizionare la fotocellula spia in un simile posto è assolutamente incomprensibile. Gli operai che hanno montato il misuratore devono averlo fatto durante un fine settimana, perché già il lunedì l’occhio era lì, bello e luccicante nel suo gabbiotto quadrato ai bordi della carreggiata. Dopo, quando mi vidi costretto a studiare la storia del mostro, scoprii che il gabbiotto quadrato aveva un nome preciso, autobox. Bene. Lo notai subito il lunedì e non feci in tempo ad accorgermene prima di superarlo. Non ricordo la precisa velocità della mia vettura, tuttavia posso dire con certezza che non rispettai il limite imposto. Inoltre ci tengo a sottolineare ancora una volta che nessuno lo rispettava, perché semplicemente era impossibile farlo, oltre che assurdo e stupido. Su una simile strada, un’auto che viaggia ai 50 Km orari finirebbe per essere superata persino da un camion rimorchi, col rischio concreto di causare un qualche tipo di sinistro. Non so come la presero gli altri automobilisti, però posso dire come la presi io: male, molto male.
Il mio lavoro, modestissimo, mi dava da vivere senza agi particolari, inoltre non provenivo da una famiglia ricca e non disponevo di grandi capitali in banca. Insomma, una multa non era una cosa da prendere alla leggera. Il resto di quel viaggio lo impiegai a maledire prima il comune, poi me stesso a causa della mia proverbiale sbadataggine, acuita dall’atto stesso del guidare, operazione per me fastidiosa e ansiogena da cui non potevo, per i motivi già detti, sottrarmi. Anche sul lavoro, continuai a pensare all’occhio traditore che avevano messo sul mio cammino. Volevo pensarci per cercare di inculcarmi nella testa la presenza di quel nuovo pericolo.
Durante una pausa, spiegai a un collega l’accaduto e chiesi a quanto potesse ammontare l’eventuale multa. Siccome neanche lui seppe relazionarmi, provai a chiedere lumi a internet. Già da quella prima mattina scoprii che vi erano differenti tipi di sanzioni a seconda di quanto si superasse il limite consentito. Ad esempio, qualora si fosse superato il limite massimo di non oltre 10 Km/h la sanzione amministrativa oscillava da 39 a 159 €. Per chi superava il limite massimo di oltre 10 Km/h, ma non oltre i 40 Km/h, la sanzione variava da 159 fino a 639 €. Approssimativamente io avevo ecceduto di oltre 20Km/h, quindi la mia pena ballava su queste cifre. Duecento euro di multa, contando che ero sempre stato un guidatore occasionale ma disciplinatissimo, senza sbavature sulla patente, e quindi difficilmente soggetto a pene più severe, erano comunque una bella mazzata; inoltre avrei subito la decurtazione di 3 punti patente. Il fattaccio continuò ad ossessionarmi e la mestizia mi accompagnò nel viaggio di ritorno.
Tuttavia, come ho già relazionato, nel mettermi alla guida il mio cervello, affaticato dalla giornata lavorativa e dall’inutilità delle azioni omologanti di un conducente, subito si metteva a pensare altro, conducendomi verso lidi fantasiosi e molteplici, luoghi opulenti abitati dal calore, dal colore, dalla quiete e dalla laboriosa eleganza dell’intelligenza. Insomma ero nuovamente perso dentro i miei pensieri quando mi ritrovai di colpo davanti all’occhio meccanico, posizionato su entrambe le sponde della carreggiata. Con uno scatto fulmineo della gamba provai a pestare il pedale del freno, producendo un lieve sbandamento della vettura, nonostante la velocità fosse tutt’altro che sostenuta. Purtroppo il mio scatto servì solo a procurarmi i colpi di clacson e gli improperi del conducente appena dietro di me. Poco dopo ero a casa, nuovamente beffato dal mostro digitale impiantato sul mio cammino da oscuri burocrati.
Dopo le indagini del pomeriggio mi fu facile calcolare l’entità dei danni: una seconda multa, pressoché identica alla prima per importo, nel volgere di pochissime ore! Complimenti. Tralascio l’amarezza della serata, consumata tra i preparativi di una cena solitaria e rancorosa e un film alla tv. Tuttavia i miei pensieri erano concentrati sui 6 punti di patente volatilizzati e sui circa 400 € di multa, in buona sostanza un terzo del mio stipendio. Andai a letto così scornato che per prendere un pochino sonno fui costretto a ricorrere a qualche goccia di sonnifero.
Il giorno appresso uscii di casa con ben salda nella mente l’immagine del rilevatore. E pur con quella nitidezza, i miei pensieri, dopo pochi istanti al volante, mi portarono altrove, verso quelle cascate di rubini e zaffiri che oltre le nubi del cielo assonnato ero sicuro popolavano la stupefatta bellezza della campagna. Lasciarmi trasportare nelle mille sfumature della natura era un modo per lenire l’angoscia artificiale della giornata che mi aspettava. Così, malgrado gli infiniti improperi del giorno precedente, rifinii nelle fauci del mostro, pronto a consegnare altri 3 punti patente e un salasso ulteriore di 200 €.
Tralascio la rabbia, la frustrazione e le ore penose all’impiego. Salto subito alle conclusioni: era ormai evidente che il mio carattere e la natura stessa della mia persona erano così incompatibili con la matematica stupidità della burocrazia. A nulla sarebbero valse eventuali contestazioni circa la posizione infelice (ed ingiusta) del mostro, in quanto, come ebbi modo di peritare, l’autobox rispettava dettagliatamente le modalità di preavviso obbligatorie per legge. Inoltre non avrei avuto la voglia e i soldi per perdermi dentro cause amministrative di lunghissima gestazione. Quel che potevo fare era affrontare il mostro, ricordarmi della sua esistenza, del suo ingresso violento e spietato dentro la mia vita. Trovare la maniera per marcare nei miei pensieri ondivaghi l’ombra nera di quelle fotocellule laser capaci di calcolare la velocità della mia vettura, di prosciugare il mio portafoglio, la mia paga, il mio stipendio, la mia vita.
Una volta alla guida, non avrei dovuto cedere alla pressione della mia indole nevrotica e sognatrice. Una volta alla guida non avrei più dovuto ascoltare la musica jazz in sottofondo, non avrei dovuto seguire con la coda dell’occhio la linea morbida e digradante della campagna o cercare di captare con l’orecchio il murmure d’acque del fiume. Il dolce declinare verso gli impegni della giornata doveva finire nel momento stesso in cui mi risvegliavo: da quel momento il mio pensiero fisso avrebbe dovuto concentrarsi sull’occhio sbirresco appollaiato sul suo trespolo di metallo.
Provai a concentrarmi su quei ragionamenti, al punto da avvelenare la giornata di lavoro e riducendo la mia consueta precisione e il mio zelo. Per fortuna nessuno me lo fece notare. Ripetei il ritornello della mia canzone nel momento stesso in cui salii sulla vettura per tornarmene a casa, ma, quasi alla meta, un’eco paesaggistica (già vista milioni di volte) mi strappò alla rigidità ossessiva dei miei pensieri, consegnandomi una briciola di quiete nella costruzione fiabesca della chiesa abbandonata corrusca nella luce rossa del sole del tramonto. La grazia e la poetica bellezza del rudere, contrapposta alla logica mortifera dell’autovelox! Ci cascai ancora una volta e fu inutile il lampo di pericolo un attimo prima che il mostro scattasse la sua fotografia penale. Con uno sforzo supremo condussi la vettura fino a casa, poi precipitai distrutto dentro l’ossessione e la paura. Un attimo prima ero un uomo come tanti altri, forse normale, forse no, comunque fingevo benissimo e mi mescolavo in una folla anonima e distratta. Ma giunse un momento in cui il pensiero allucinante dell’occhio mi precipitò dentro una rupe nera e senza fondo, incatenandomi nella cella dell’anancasmo. Non sarei più riuscito a guidare, non avrei più toccato un volante in vita mia, impossibilitato a recarmi al lavoro, impossibilitato a sortire di casa senza finire in pasto ai calcoli telematici del velocimetro, occhio disumano deliberatamente tarato per calcolare la velocità di fuga di chi crede nelle fate o nelle costruzioni gotiche a mezz’aria. L’occhio disumano ci riacchiappa al balzo nella funerea cupezza delle formule e dei calcoli. L’occhio disumano ci riacchiappa al balzo prima che si possa superare il valore impostato e trovare nuovi sistemi operativi, nuovi pinnacoli d’incantata bellezza.