Vampira, mater tenebrarum, Lilith, prima moglie ribelle di Adamo, colei che non vuole soggiacere ai voleri del maschio, quintessenza della donna snaturata, ribelle, per questo pericolosa. Da lei discendono i mostri della classicità, arpie, erinni, gorgoni, sirene, figure di un perturbante femminile che intaserà il gotico e il noir (versione moderna del primo?). Lilith rinascerà sotto altre forme nella cultura greca e latina, troverà terreno fertile nelle orge silvestri in onore di Dioniso e Priapo, divinità del vino e dell’estasi dei sensi, entrambi celebrati da cortei di baccanti, vere e proprie confraternite pre- stregonesche. Altre incarnazioni saranno Ecate e Venere, divinità della bellezza e dell’erotismo assoluto. La sfrenatezza sessuale e la licenziosità accompagnerà tutte queste figure pagane che, nell’era del cristianesimo, si ammanteranno di peccato e orrore. Nelle menti dei rappresentanti religiosi, nei secoli del grande oscurantismo inquisitorio, la donna diverrà un vessillo di Satana e il suo corpo verrà indagato, pesato e giudicato dai rozzi frustrati con cappuccio e croce sul petto. Tuttavia i roghi imprimeranno definitivamente l’immagine della donna vampiro nell’immaginario collettivo e sarà solo la modernità a imprigionarla dentro i moduli classici della ghost story (Le Fanu, Stoker, Goethe, Rollin, Franco, giù giù fino alle vampire perverse dei porno fumetti da stazione anni Settanta).
Con questo articolo per la ZONA si intende esplorare sinteticamente alcuni aspetti di questa donna mostro, cercandola nelle pieghe della letteratura meno conosciuta.
NADJA è un romanzo surrealista di Andrè Breton, forse uno dei più riusciti dell’intero movimento. L’opera è del 1928 e lo dico subito a scanso di equivoci coi vampiri centra una mazza. Nadja è il racconto di incontri casuali, emozioni narrate con uno stile neutro, quasi un semplice documento. Nella leggerezza delle pagine, Breton accumula un micromuseo di ricordi, aneddoti e caffè primordiali attraversati da una voce antifiction che riduce tutto a pura esteriorità. Breton si aggira senza meta nella Parigi del 1926, dilatando gli episodi accaduti nell’arco di una settimana. Poi l’apparizione di Nadja, epifania surrealista, oracolo, sfinge ambigua e sfuggente del racconto, sconosciuta abbordata dall’autore. Nadja, fin dal suo nome russo, è lo stupore, la bellezza convulsa cantata dal movimento, è una creatura affascinante sgusciata dai labirinti della polis. Forse prostituta, forse veggente, Nadja riempie le pagine del racconto, ossessionando il narratore che la accompagna in lunghe passeggiate, soste nei caffè, pranzi. I dialoghi erratici dei due rivelano poco alla volta i disagi mentali e le pulsioni della donna smarrita, vera musa, strega, mantide, bambina, fata (e quindi anche vampira), oggetto del desiderio, ispiratrice di pulsioni dell’inconscio inconfessabili (così come le brusche interruzioni del racconto che sembra dilungarsi sui momenti apparentemente più banali e dissolversi un attimo prima dei convegni carnali, tutti rigorosamente omessi). La donna surrealista è un crocicchio di opposti, è simbolo della sommossa perenne del desiderio, così come i collage dei feuilleton ottocenteschi operati da Max Ernst nei suoi romanzi: La donna 100 teste; Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo; Una settimana di bontà. Le donne di questi antiromanzi (raccolti nel 2007 in un volume imprescindibile della Adelphi) evocano scene torbidamente erotiche in cui la bellezza si libera dalle maglie della moralina piccolo borghese e va a braccetto col delittuoso dei romanzi neri. Le donnine ritagliate di Ernst sono vampire alate o ignude fanciulle all’apparenza appena sfuggite da un convento sadiano, eppure le loro candide manine non si contengono e sfiorano i bordi rigonfi dei calzoni paterni degli uomini. Quanto avrebbero amato i surrealisti i nostri romanzi neri/porno da stazione? Le petite fille d’appendice sarebbero diventate le poppute vampire dai sederi spanati degli Jacula, Zora, Sukia, eccetera.
Carlos Fuentes si addentra nei meandri del perturbante femminile di Jules Michelet e ci offre la vicenda dell’inutile storico Montero Felipe, costretto a esumare delle carte private per ricavarne un affresco ottocentesco dal valore dubbio; a commissionargli le carte ingiallite, donna Consuelo, coabitante nella vecchia casa con la giovane Aura che da il titolo al romanzo brevissimo, scritto in una prosa narcotica e nevrotica, ondeggiante sotto le ombre a malapena rischiarate della casa prigione da cui la bella non sembra poter uscire. L’amour surrealista non tarderà a imprigionare lo storiografo nelle profondità degli occhi di lei, occhi di mare che fluiscono, si corruscano come onde e annullano dolcemente la ragione. Su tutto, l’immagine erotica dei piedini di bambola antica della vecchia. AURA, quindi, di Carlos Fuentes.
Scritto con una prosa incantata, fiabesca e surrealista è il romanzo/biografia di Valentie Penrose sulla CONTESSA SANGUINARIA Bàthory. La scrittrice francese ricostruisce con puntiglio storico una vicenda ammantata di leggenda e orge sanguinarie, riportando la figura della contessa ungherese entro i confini di un’avventura erotica della mente, un’esperienza primitiva femminile che cerca nel sangue un rimedio allo spazio vuoto della follia.
E che cos’è il bellissimo SIGNORINA CHRISTINA dello storico Mircea Eliade se non l’avventura romantica di una non morta che, anche nelle lande brumose dell’oltretomba, continua a cercare un po’ di sangue e d’amore per riscaldarsi. La figura di Christina assomiglia moltissimo (e anticipa) le vamp malinconiche ed errabonde di tanta golden age vampiresca francese e spagnola, magari calcando di più su certe componenti folkloriche e letterarie impregnate di magia e rituali iniziatici.
Daniel Scott, LA FRUSTA DI FUOCO, nella collana dei Racconti di Dracula, è un coacervo di spunti e ossessioni già viste nei gotici coevi. Qui le vampire sono disinibite, lesbiche e pornografiche come ci hanno insegnato quelle di celluloide di Jess Franco, Jean Rollin, Joseph Sarno. Scott (alias Mario Ratti) le contamina con leggende folcloriche, rimedi apotropaici e i cavalieri templari ciechi ricalcati dai film di De Ossario. Ne esce un guazzabuglio folle e visionario come non si era mai visto nella collana. Mano a mano che la lettura procede pare di scivolare in una summa di vampire, monache infoiate e frati goduriosi. La copertina poi fa il suo sporco lavoro. Succhiatine pulp al 100%.
Dicevamo: Sukia, Zora, Jacula, un universo cartaceo di orge e banchetti, un universo vastissimo, non riassumibile. Voglio comunque lasciare una traccia, anche labilissima, di quel meraviglioso altrove da edicola. Un numero a caso della testata MACABRO dello Squalo di Renzo Barbieri (genio sommo, non mi stuferò mai di ripeterlo). Titolo: L’ORGIA DEGLI AMANTI DEFORMI. Ai disegni il maestro Italo Bernasconi, artista efficacissimo nel tratteggiare i corpi femminili. La vicenda ruota attorno a una bella vampira mescolata tra i mortali durante gli anni che precedono la seconda guerra mondiale. Siamo a Berlino, con la vamp, rifugiata rumena, in cerca di sangue fresco in un bagno pubblico. Successivamente la ragazza, insieme ad un gruppo di storpi e deformi, verrà avvicinata da un gobbo che la porterà in un castello ospizio per handicappati proprietà di due baroni sadiani (una lei dominatrice e un lui checca). Ovviamente i baroni, attratti dalle menomazioni della carne, sogliono accoppiarsi con gli invitati e, successivamente, buttarli in una fossa putrescente. Tra frustate sulle natiche, falli finti e sgozzamenti, il piano del duo non riuscirà, proprio per la presenza della bella vampira vendicatrice.
Albo, per cinismo e volgarità, impareggiabile!
E il cinema? Un plotone di femmine lamie succhiatrici si sono affacciate sugli schermi degli anni ’70. Qui voglio solo ricordare le 4 correnti principali di quegli anni. Una erano le succhiatrici inglesi, quelle della Hammer, le vere iniziatrici (in termini di successi al botteghino) del filone. Una trilogia di film presi a peso dal romanzo di Carmilla e liberamente adattati. I film Hammer, oggi, non appaiono più così scabrosi, anzi sono teatrali e statici un po’ come tutti i prodotti della casa inglese. Più liberi i francesi, con Rollin a capofila. Le sue vampire sono impregnate di letteratura feuilleton e surrealismo, si muovono in un universo statico e minimale, fatto di campagne decadenti e spiagge schiumose. Rollin imbriglia le sue vicende all’interno di canovacci romantici, popolati da personaggi solitari attratti tra loro da un amore impossibile (spesso l’amore di un uomo per una vampira o l’amore lesbico tra due ragazze vamp). I dialoghi sono pressoché assenti o verbosissimi. Simile a Rollin, anche se meno consapevole, è Mario Mercier, quello de I riti erotici della papessa Jesial, vero fumettone horror porno da stazione. Gli spagnoli invece (Franco su tutto e tutti e anche Larraz o Aranda) scompongono gli stessi testi di base del vampirismo lesbico, tuttavia, rispetto alla staticità vittoriana degli Hammer (che vorrebbero osare ma non osano) o alla prosa soporifera dei francesi, si spingono al limite del mostrabile, liberando la visione del sesso, lasciando che le femmine di satana possano strusciarsi sui corpi dei malcapitati e prosciugarli di ogni liquido (seminale). Anche le succhiatrici spagnole sono malinconiche e perdute, ciò nonostante hanno un bisogno fisico di accoppiarsi furiosamente con chiunque, abbattendo così qualunque ordine morale. Ultima corrente quella italiana, con vestali sublimi degradate ad icone trash dell’onanismo maschile, corpi abbondanti e carnosi (Rosalba Neri) che copiavano dalle mode inglesi, francesi e spagnole aggiungendovi una crudeltà tutta latina, un gusto per l’eccesso fine a se stesso che ancora oggi distingue quelle pellicole. A parte un approccio anche colto apportato dalle prime vampire di Valeri e Gastaldi, il resto delle poppute vamp è un ginepraio di sessi bagnati nel sangue, irrorati da luci irreali e vicende crivellate dal non-sense. I nostri pleniluni non abbondano di vergini, bensì di donnine scostumate e di seconda categoria strappate dalle copertine sconce dei Barbieri d’annata, a un passo dall’imminente ciclone onnivoro del porno, vera ultima spiaggia delle succhiatrici (e qui farei almeno il nome dell’immenso Joseph Sarno e della musa Marie Forsa).
Vi sono poi film a se stanti, difficili da collocare come il meraviglioso e angosciante lavoro di Hancock, oscillante tra le atmosfere di un mistery inglese e Bergman. Altro gioiello è la pellicola di Kumel, ambientata in un albergo deserto sul mare, set ideale per il duello simbolico tra i sessi.
In epoche più recenti, le vampire sono diventate persino politiche, si sono confrontate col problema del bene e del male, con la filosofia e la dipendenza (Ferrara), oppure col fantasma mai rimosso del bisogno di amore (Denis e il recentissimo film della Cassavetes [1]).
Mi voglio congedare con una citazione da un articolo documentatissimo di Pier Paolo Dainelli pubblicato sul numero 2 della rivista Amarcord nel lontano aprile – maggio del 1996. Il saggio, intitolato “Vampire Lesbiche”, presentava una lunga rassegna di film sull’argomento. Nella chiusa l’autore scriveva: “Da oltre un ventennio il cinema non è più riuscito ad evocare queste affascinanti creature (…). Le vere vampire, animate dalla loro inestinguibile sete di sesso, sangue e libertà, vivono ora nelle foreste. E se qualche volta al tramonto, mentre camminate nel bosco, vedete delle strane ombre che si muovono nel bosco, non fuggite e aspettate. Una delle leggiadre vestali di satana vi prenderà per mano e vi condurrà là, dove il piacere e il dolore si incontrano nella più perfetta delle armonie”.
Davide Rosso
[1] Per una filmografia minima:
La cripta e l’incubo, di Camillo Mastrocinque
Violenza ad una vergine nella terra dei morti viventi, di Jean Rollin
Un caldo corpo di donna, di Jess Franco
Vampyros lesbos, di Jess Franco
La casa delle ombre maledette, di Dan Curtis
La morte corre incontro a Jessica, di John Hancock
Le messe nere della contessa Dracula, di Leon Klimovsky
La vestale di Satana, di Harry Kumel
Vampyres, di José Larraz
Un abito da sposa macchiato di sangue, di Vicente Aranda
Vampire ecstasy, di Joseph Sarno