IL GRANDE FRATELLO DEL CINEMA AMERICANO

Lo schema classico che regge il tradizionale film di fantascienza inglese (e non solo inglese) si compone di tre elementi fondamentali:

1)   Si verifica un evento che sconvolge l’ordine esistente

2)   Le azioni che ne seguono sono tutte finalizzate alla identificazione e conseguente eliminazione degli elementi di disturbo.

3)   Finale della vicenda in cui si ricostruisce l’equilibrio sconvolto.

A questi elementi fanno seguito tre diversi meccanismi psicologici che lo spettatore attiva e che corrispondono ai tre elementi appartenenti al film: la fuga nel disordine dalla propria insoddisfacente realtà od anche una fuga dalla realtà che sta crollando davanti ai nostri occhi devastata da elementi estranei che si sono introdotti apertamente o subdolamente nel nostro pacifico e tranquillizzante quotidiano.

Lo spettatore, attraverso la proiezione e l’immedesimazione nelle azioni violente e pericolose che scorrono sullo schermo, scarica le proprie tensioni e frustrazioni quotidiane attendendo, dopo ogni sensazione di paura, una impressione di sollievo: la calma per il ristabilimento dell’ordine nella finzione filmica e, specularmente, fiducia o timore che il tutto possa accadere nel proprio reale.

Molti film di fantascienza, soprattutto alcuni di essi considerati più adulti, pur se con fasi altalenanti, rovesciano lo schema classico esposto fino ad adesso ponendosi, soprattutto nella fase conclusiva, in antitesi rispetto alle prospettive di tranquillizzazione del pubblico. Essi tendono ad inquietare, a non risolvere le situazioni create (finale aperto) o a risolverle secondo modelli di sviluppo estranei alla nostra società.

L’ambiguità, regola della migliore fantascienza letteraria, è diventata così la componente essenziale della miglior fantascienza cinematografica.

Questa ambiguità totale e totalizzante che permea un certo cinema di fantascienza ed il cui unico segno apparente sembra essere quello consolatorio del cinema d’evasione, in realtà opera in profondità conducendo lo spettatore in uno stato ansioso che può essere identificato come “choch da futuro”. In sostanza questi film, in cui tutti gli elementi concorrono a creare tutte quelle particolari e inquietanti atmosfere future, sia in senso sociale sia in senso spaziale, scoraggiano questo cambiamento proprio perché il cambiamento è implicitamente proiettato e finalizzato al futuro. Questo tipo di cinema di fantascienza ha dato un contributo di notevole portata all’affermarsi di una ideologia conservatrice che negativizza l’utopia quale tensione ideale innovatrice.

Noi oggi sappiamo che gli evidenti riferimenti critici di molti film di fantascienza del passato hanno trovato uno spazio senza precedenti. Basti pensare al periodo maccartista di Hollywood in cui tutto il cinema in generale, ma in modo più specifico quello di fantascienza, era diventato un potente strumento di propaganda anticomunista nelle mani del mondo occidentale capitalistico (I 27 Giorni del Pianeta Sigma, I Vampiri dello Spazio, L’Astronave Atomica del Dottor Quatermass, Il Giorno dei Trifidi, Il Villaggio dei Dannati, La Stirpe dei Dannati…).

Il tema dell’alieno e quello dell’invasione della Terra da parte di esseri di altri mondi, preferibilmente marziani, hanno per diverso tempo impegnato le case produttrici americane. Il celeberrimo Invasione degli Ultracorpi di Don Siegel del 1956 è giustamente considerato uno dei massimi esponenti dell’epoca e, non a caso, si inserisce in un panorama politico piuttosto critico.

Il 1956, infatti, fu l’anno del rapporto segreto di Kruscev al XX° Congresso del PCUS, dove l’appena promosso segretario denunciò la politica di Stalin fondata sul culto della personalità e decretando ufficialmente l’inizio della de-stanilizzazione e fu anche l’anno dell’intervento armato sovietico in Ungheria contro il governo Nagy e dello sbarco di Fidel castro a Cuba per rovesciare la dittatura di batista.

Questi eventi determinarono, per forza di cose, una reazione angloamericana nei confronti del comunismo internazionale senza precedenti: tutto l’apparato politico, culturale e militare venne impegnato nella Guerra

Santa contro il pericolo rosso tanto è vero che, all’inizio della dottrina Eisenhower, gli Stati Uniti si dichiararono pronti, in qualsiasi momento, a soccorrere, anche con le armi, i governi minacciati dal comunismo. Un atteggiamento che ha molte analogie con l’attuale intervento americano e inglese in Iraq.

Da questa particolare e delicata situazione politica, sommata alla paura della guerra nucleare (ricordiamo che nel 1953 l’Unione Sovietica fece esplodere la sua prima bomba atomica), sommata alla paura della supremazia tecnologica (ed anche qui ricordiamo che la Russia, nel 1957, lanciò il primo satellite artificiale della storia: lo Sputnik primo al quale, pochi mesi  dopo fece seguire lo Sputnik II con a bordo la cagnetta Laika e tutto questo mentre gli Stati Uniti, accumulavano fallimenti), si assistette gradualmente alla nascita ed allo sviluppo delle distopie.

I film di fantascienza non si reggono più sull’invasione degli alieni (sovietici) provenienti da Marte (Russia) o sul terrore della guerra nucleare, quanto piuttosto su una visione complessiva quotidiana e sociale.

Si offre allo spettatore la visione di un futuro descritto in ogni particolare ed abitato da comuni mortali.

E’ un futuro, che se fosse anche posto in una lontana galassia o in un tempo molto lontano dal nostro, ha la peculiarità di incorporare gli stessi rapporti che vigono oggi tra gli esseri umani; non solo, ma tutti i difetti umani sono dilatati e moltiplicati geometricamente come nel Signore delle Mosche di Peter Brook.

Nel futuro, nella corsa alle stelle, l’uomo non crede più come principio speranza dell’umanità perché ancor prima l’uomo ha cessato di credere in sé stesso e nelle proprie capacità di autogoverno e di progettazione. La memoria si è definitivamente sottomessa alla coscienza e da questo atto non può che nascere l’inizio della fine.

Come si è visto, quindi, l’unica speranza di vita per l’uomo passa attraverso una riaffermazione della classicità, una rinuncia allo sviluppo tecnologico e scientifico apparentemente incontrollato ed un ritorno all’immagine di un gregge che abbassa la testa sotto il mito di una fantomatica guida.

La fantascienza, ci sia consentito enunciarlo, non è innanzitutto solo un genere letterario o cinematografico di consumo, una sorta di letteratura allegorica a sfondo educativo , bensì un genere le cui condizioni necessarie e sufficienti sono la presenza e l’interazione di straniamento e cognizione e il cui principale procedimento formale è una cornice immaginaria alternativa all’ambiente empirico dell’autore e la specificità che la distingue da ogni altra narrazione di tipo fantastico: è il dominio o egemonia narrativa di un novum, inteso come novità, innovazione, che sia comunque funzionale e convalidato dalla logica cognitiva.

La scienza diviene così lo specimen della fantascienza, la sua motivazione iniziale e dinamizzante, la garanzia attraverso la quale la si può definire come una letteratura o un genere cinematografico che esplora il campo del possibile quale ci permette di intravederlo la scienza.

Ma c’è di più: la fantascienza finalmente pone su un terreno comune ragione ed immaginazione, scienza e poesia, intelletto e sensibilità armonizzando proprio quelle facoltà tipicamente umane che il pensiero reiterato non ha mai esitato a contrapporre in modo insanabile.

Per la fantascienza è comunque intrinsecamente o per definizione impossibile riconoscere l’esistenza di un agente metafisico perché ciò significherebbe uno sconfinamento nel fantasy, nel sovrannaturale e, qualora il metafisico si presentasse, sarebbe risolto nel dato tecnologico.

La fantascienza non è quindi, come si pensa erroneamente e comunemente, scienza rivestita di fantasia, ma esattamente il contrario: fantasia purissima pudicamente coperta dai veli di una elaborazione razionale, non importa se dispiegata paradossalmente l’importante è che le cose che descrive o ci mostra per immagini siano credibili, verosimiglianti, tanto che riconosce come suo compito il rappresentarle come debbono essere, senza ombra di dubbio e senza alcuna esitazione.

Una delle fondamentali esigenze della fantascienza (specialmente di quella inglese) è quella di dover essere, a tutti i costi, credibile, convincente e persino controllabile.

Il topos privilegiato e più frequente tra gli autori ed i registi di cinema di fantascienza quando si deve rappresentare una città del futuro, è, molto probabilmente, la Città Post – Apocalittica (Il Signore delle Mosche – …E la Terra prese Fuoco) In quasi tutte le opere filmografiche, partendo almeno da Metropolis di Fritz Lang, passando attraverso Nel 2000 non sorge il Sole e  per finire con Hallucination, la città riveste un’importanza primaria e fondamentale; qui il territorio, come lo intendiamo oggi, ha cessato di esistere e lo scenario più probabile che circonda la città è il deserto, una giungla, distese innevate o, quantomeno un territorio inospitale e pericoloso, minaccioso e letale verso il diverso (L’Uomo che cadde sulla Terra). Basterebbe ricordare oltre a Nel 2000 non sorge il Sole, Un Mondo maledetto fatto di Bambole di Michael Campus dove i protagonisti preferiscono un mondo ignoto o l’annullamento totale alla città-lager dove fino a quel momento erano vissuti.

Di fatto la città-società del futuro è isolata dal resto del mondo e difficilmente accessibile. L’isolamento e lo straniamento dell’utopia classica ritorna in forme rivisitate, ma con opposte prospettive: la città di Utopia (Orizzonte Perduto di Frank Capra – 1937) era una meta, un sogno da ricercare, queste invece sono terrificanti realtà da cui fuggire.

Uno degli elementi che caratterizza la società del futuro definendone anche i profili architettonici ed urbanistici è la diversità sociale tra gli individui. Infatti questa diversità sociale viene radicalizzata e portata all’esasperazione in numerosi film tra i quali primeggia il già citato Metropolis, archetipo formale ed artistico di tutte le utopie negative che verranno

Il problema della radicalizzazione della diversità sociale si gioca non solo sul terreno della stratificazione delle classi le quali sono magari destinate a scomparire lasciando il posto a razze diverse come i Robot, Alieni, Replicanti, Androidi o i demoniaci fanciulli de Il Villaggio dei Dannati, molto più alieni di qualunque essere ameboide, ma, soprattutto, nella trasposizione spaziale ed architettonica delle differenze sociali per cui possiamo dire che l’architettura urbana significa ed esemplifica la struttura sociale e infatti si assiste ad una stretta corrispondenza fra organizzazione spaziale urbana e organizzazione politica che si risolve poi nell’affermazione del  principio di una struttura spaziale centralizzata e gerarchica. Possiamo quindi dire che assistiamo a trasposizioni ed adeguamenti temporali che sono tipici delle utopie classiche dove sono evidenti i riferimenti alle città-stato rinascimentali, trasportati in scenari futuri più o meno lontani. Possiamo quindi affermare che Metropolis (1926), Nel 2000 Guerra o Pace (1936), Nel 2000 non sorge il Sole, L’Uomo che Visse nel Futuro (1960), Orwell 1984 (1984), ed altri ancora sono esempi tipici del principio di identità tra struttura spaziale e organizzazione politica o di potere.

Al centro della città e spesso in enormi e sontuosi palazzi, magari in cima ad una collina, si colloca il potere, lo Stato Centrale, il Comando di Polizia, le Istituzioni e le residenze magnatizie. Tutto intorno e naturalmente più in basso, è un pullulare indescrivibile di razze perennemente alla ricerca di qualcosa che non trova mai. Una massa a volte amorfa, più spesso affamata e sporca ed altre volte imbestialita e feroce, ma comunque sempre disumanizzata e anomica. L’individualità è un residuo del passato e quando affiora viene soffocata senza pietà.

In alcuni film questi asociali vengono collocati o preferiscono vivere ai margini delle Città-Stato. Un tiranno straccione domina ciò che resta di un’umanità semidistrutta da guerre e malattie negando la scienza e la tecnologia in Nel 2000 Guerra o Pace? Mentre magari da un’altra parte abbiamo una società di telepati mutanti e di scimmie che adorano l’ultima bomba atomica esistente come in L’Altra Faccia del Pianeta delle Scimmie di Ted Post.

Ciò che rende drammaticamente vero il futuro rappresentato in questi ed in altri film, è la mancanza di scansione temporale tra il presente ed il futuro delle ambientazioni che di solito si ottiene con scenografie particolari ed effetti speciali che qui mancano, soprattutto nelle visioni della città presentata nel film di Michael Anderson la quale non sarebbe altro che una delle nostre attuali, moderne e sofisticate città con la loro disumanizzazione e l’estraneità dei suoi abitanti.

Il salto temporale il regista lo ottiene soprattutto manipolando i rapporti umani, ampliandone e proiettando i segni negativi e disumani, latenti o manifesti, già presenti nella nostra società.

Lo stesso sfascio, la stessa decadenza della società odierna elevata a potenza, rappresentano la cornice ideale per avvenimenti fantascientifici, ma probabili. Per lungo tempo la città sembrerà l’unica scenografia possibile del cinema di fantascienza, una scenografia ridondante di oggetti, reperti e rimasugli di un’epoca e di un sistema contrassegnati da una inevitabile entropia sociale in cui la violenza è arrivata a sostituire ogni altro rapporto umano e dove la stessa “umanità” è sostituita da esseri che di umano hanno solo le sembianze. La città è il laboratorio ideale per sperimentare sul campo le previsioni apocalittiche dei sociologi.

Possiamo quindi dire che la Fantascienza è abbastanza certa che il nostro futuro sarà sovrappopolato, solo che altrettanto certe ed angoscianti sono le misure ed i metodi per risolverlo.

La negazione della sfera affettiva e sessuale sembrerebbe quindi la soluzione più probabile soprattutto se si considera che negare la sfera istintuale e affettiva di un individuo significa privarlo della propria individualità e della propria identità.

Le alternative a questi sistemi sociali sono essenzialmente due, opposte tra loro ma accomunate da un aspetto che si rivelerà come la tipica espressione di una cultura che nasce da una società fortemente individualista come quella americana; innanzitutto la ribellione al sistema è sempre un fatto individuale, svincolato da un processo culturale diffuso di presa di coscienza e di interiorizzazione della propria funzione e ruolo nella società: l’eroe è sempre solo e i percorsi che lo conducono alla ribellione non nascono mai dalla “condizione popolare di sempre” presente nella società. Possiamo citare ancora l’esempio di Winston Smith in Orwell 1984 nel quale è l’amore che fa scattare in lui la molla della ribellione e sarà lo stesso sentimento per Clarissa che condurrà Montag ad abbandonare il corpo di polizia e ritirarsi nella foresta diventando un uomo-libro in Fahrenheit 451 di Francois Truffaut (1966).

La ricerca della verità, che il potere nasconde, è la ragione che porta Zed alla ribellione in Zardoz di John Boorman (1973), mentre la scoperta dell’inganno lo indurrà alla vendetta.

Potremmo quindi affermare che la ribellione al sistema delle istopie non è mai un fatto di classe, ma solo il risultato di un gesto individuale, di un atto di coraggio o anche di pazzia di un eroe nello stile di Don Chisciotte.

Le alternative sono essenzialmente due: un ritorno ad un passato edenico, al mito del buon selvaggio nel quale la scienza e la tecnica non trovano posto così ben riassunto dal capo dei “Vampiri” Jonathan Mathias in 1975: Occhi Bianchi sul Pianeta Terra) quando si rivolge a Neville, l’ultimo umano sopravvissuto:

 

Barbari?! E tu osi chiamare noi barbari? Sì, è un appellativo giustificato perché noi intendiamo distruggere quel mondo che voi, gente civilizzata, avete costruito. Noi vogliamo cancellare la storia dal momento in cui le macchine e le armi hanno rovinato più di quanto non abbiano offerto, e quando tu sarai morto l’ultimo residuo vivente dell’inferno sarà scomparso per sempre…”

 

oppure la fuga verso l’ignoto e una incertezza che il più delle volte significa ambiguità (Gli Avventurieri del Pianeta Terra, Alphaville, ecc…) o la fine di tutto (Brazil).

Un ignoto gravido di incertezze e perplessità è la reale alternativa alle terrificanti società del futuro che molti autori propongono nelle loro opere, altri invece non disdegnano un ritorno all’Arcadia tentando di gettare un ponte sopra un futuro assurdo e invivibile restaurando una società di tipo naturale come la comunità degli Uomini-Libro. Si tratta però di sistemi chiusi che non interagiscono fra loro e non danno vita a nuovi sistemi, al massimo è consentito uno scambio di elementi fra loro.

E’ per queste ragioni che le due alternative alle utopie negative che solitamente vengono prefigurate nel cinema di fantascienza in generale e nella più matura filmografia inglese in particolare: sono, in ultima analisi, negative e questo perché in primo luogo la fuga pone l’individuo di fronte ad un’incertezza complessiva, soprattutto se si pensa che chi fugge lascia alla proprie spalle l’unica realtà esistente e conosciuta senza avere nessuna reale alternativa. Inoltre il rifiuto della società che spesso si concretizza nella fuga, diviene automaticamente un rifiuto di se stessi e questo determina inevitabilmente un problema di rigenerazione e rimodellazione della propria identità.

In secondo luogo perché proporre un ritorno, sempre drastico e doloroso al passato, significa rinunciare al futuro e al presente e quindi, anche in questo caso, rinunciare alla propria personalità ridefinendola alla luce di nuovi parametri sociali e relazionali.

Queste, in sostanza, sono le uniche alternative, che si pongono di fronte agli eroi delle distopie ed ambedue sono connotate negativamente da un’ambiguità di fondo che le unisce e le sostanzia.

C’è da dire una cosa, però: in questo contesto l’ambiguità assume la forma del dilemma paradossale e contrariamente alla contraddizione il dilemma non consente possibilità di soluzioni alternative per mezzo delle quali ci si può sottrarre a situazioni spiacevoli. Infatti l’opzione tra la fuga verso l’ignoto e ritorno al passato impone comunque sofferenze e instabilità. Di solito, infatti, l’eroe che si incontra nelle distopie di SF compie una scelta per quanto dolorosa ed ardua possa essere.

Il problema vero nasce, invece, nel momento stesso in cui lo spettatore, dopo essersi identificato con l’eroe solitamente protagonista del film, ripensa alla propria condizione e al proprio presente.

Come porsi nei confronti del futuro? E’ un evento da desiderare o da rifiutare? E’ da rifiutare, evidentemente considerando anche che non si lascia molto spazio al dubbio ed alla incredulità.

Il futuro non può essere che così, pertanto allo spettatore di SF non resta che “rifugiarsi” nel presente e programmare sul breve termine la propria vita.

Il presente ed il quotidiano sembrano non solo il luogo ideale per sublimare l’ansia e la paura generale della visione di un futuro terribile, ma anche un luogo in cui vivere, sic simpliciter.

Giovanni Mongini