Abbiamo ragionato sul corpo femminile nei porno fumetti sadici dei ’70 e ’80, proviamo adesso a indagare un aspetto, quello della chirurgia estetica – laboratorio culturale sui ripensamenti della figura/corpo.
Leggo quindi un interessante saggio di Rossella Ghigi pubblicato dal Mulino, “Per piacere”. La Ghigi, docente di Sociologia, spende le sue pagine migliori indagando la nascita della chirurgia plastica nel corso del Rinascimento, quando i cirugici dignissimi operavano l’arte del far li nasi a gente che l’aveva perso in battaglia, nei duelli all’arma bianca o per le conseguenze della sifilide.
Questi pionieri della chirurgia lavoravano senza anestesia e con mezzi rudimentali e, soprattutto, venivano denigrati dalle autorità ecclesiastiche, contrarie a qualunque manipolazione del corpo. Più in generale, si può dire che i primi passi dei chirurghi (mestieranti e barbieri, spesso ambulanti e clandestini per le insicure contrade medievali) avvengono nell’ambito di una riparazione militare, per delle necessità insomma e non per lusso. L’ars comincia a diventare una configurazione decoratoria nel corso del ’400 e ’500; tuttavia è tra il XIX e il XX secolo che le pratiche ricostruttive si allargano all’intera superficie corporea.
Scoppia il beauty business e i clienti non sono più dei baronetti sifiliaci con l’armatura o ladri sodomitici scampati alla forca. La bellezza artificiale promette di rimettere le cose a posto e cancellare le storture della natura, gli incidenti imprevisti, le gravi mutilazioni, le deformità eccetera.
La promessa di una nuova anatomia contagia all’inizio il corpo borghese (duchesse, ereditiere, stelle di Hollywood continuamente costrette a misurarsi con lo sguardo del pubblico, giù giù fino alle piccole borghesi che scoprono i loro glutei ai bagni pubblici, nelle villeggiature o nelle gare sportive).
Comincia a circolare l’idea di un corpo completamente differente, sottratto alla grassa mollezza della donna-madre-operaia incapace di riscattarsi nelle forme asciutte e scattanti della donna manager, feticcio sessuale prestato alla flessibilità totale dell’economia Azienda.
Nuovi corpi dunque, longilinei, magri, eternamente adolescenti, pin up della liposuzione, della mastoplastica, dei lifting. La silhouette femminile deve essere perfetta.
Nel corso del ‘900 si comincia a ragionare sulle corrispondenze tra volto e salute mentale, tra lifting e anima.
Il ruolo sociale della chirurgia estetica inonda ogni aspetto del quotidiano, si riversa sulle riviste, sulle pubblicità dei primi gabinetti estetici e centri di bellezza dotati delle prime maschere in caucciù radioattivo da applicare sul viso per un miracoloso ringiovanimento dei tessuti.
Oggi, continua la Ghigi, la differenza tra pazienti e consumatori è minima e il corpo si scopre una merce al pari di un’auto o un televisore ultrapiatto.
Il corpo può essere cambiato, migliorato, trasformato, basta pagare un prezzo. Ri-configurando il proprio aspetto esteriore è possibile modificare la propria identità, lasciarsi alle spalle il passato indigesto, le cose che non ci piacciono; i trainers dell’anima ci aspettano in palestra, pronti a donarci serie da 12 per ogni disturbo psichico e nevrotico (Anabolyzer di Roger Fratter).
Il chirurgo è un pigmalione che s’illude di intervenire sulla natura, modificandola, correggendola, imprigionando il corpo femminile nella sfera della frivolezza (pensiamo al Banderas mad doctor di La pelle che abito, intento a ricreare da un maschio l’idea depotenziata della moglie morta carbonizzata dopo averlo tradito col fratellastro; Banderas imprigiona la nuova creatura in un ambiente asettico e tecnologico, sicuro di poterla domare controllare; misoginismo identico nell’Howard Vernon de Il diabolico dottor Satana, anche qui impegnato a sezionare donne per ricostruire il volto della propria figlia, oggetto muto e inespressivo accantonato nei bui scantinati di un gothic castle; oppure il progenitore di tutti gli Orloff, il dottor padre di Occhi senza volto, altro dominatore carceriere della figlia demente senza diritto di parola sulle gesta criminali del genitore).
Il corpo femminile è un corpo del reato su cui scaricare tutte le frustrazioni di dominio maschile, un corpo imprigionato in una corporeità ideale piovuta dall’alto, funzionale al soddisfacimento delle pulsioni masturbatorie dell’economia.
Non per questo la donna rimane esclusivamente passiva nel progetto di ricostruzione della propria bellezza: ecco figure demoniache decise a cambiarsi la faccia, il culo, il seno, le labbra per una promozione o un lavoro (Nip/Tuck o il plot naif de Il volto di un’altra, insolita commedia italiana con grotteschi richiami a certi horror degli anni Trenta – ecco, riguardo a questo film, nella sostanza non dissimile da tante operazioni fallite del cinema nostrano, volevo segnalare almeno la scena iniziale con le donne mummia che passeggiano nel bosco, tra la nebbia; immagine questa di bellezza rara che da sola vale l’intera visione), oppure per un bisogno narcisistico (la Christie de La mano che nutre la morte, o ancora la vorace baronessa paralitica coadiuvata da una coppia di nani degni di un porno fumetto ne Tre gocce di sangue per una rosa) di un’umanità PlayStation, avatar dismorfofobici dei nostri dark passage entro orizzonti digitali e anestesie istantanee di brividi di godimento plastici/spastici.