Nella geografia letteraria del Piemonte è piovuto un Bret Easton Ellis vercellese, perfettamente integrato nella piana vercellese come l’equivalente americano a Los Angeles. Là agiografie hollywoodiane & pompini, qui le risaie che hanno spianato le colline e i boschi, originari protagonisti del paesaggio e di cui rimangono avamposti (protetti?) come il Parco di Albano, la Baraggia o il bosco della Partecipanza.
Oggi Vercelli è una città di campagna abitata da una popolazione di cittadini pendolari che hanno scelto di ritirarsi dalla Storia. Vercelli è perfetta per nascondersi, riposarsi, girare in bicicletta, fare footing e passeggiare all’ombra delle muraglie gotiche del S. Andrea o dei portici del centro, intervallati da open bar di ultima generazione, umbelicus mundi per aperitivi simil milanesi a tardissima sera.
Inutile ripetervi che questo tipo di vita sociale mi fa orrore (la vita sociale, non i luoghi, a cui, al contrario, sono affezionatissimo), quello che conta qui è l’ambiente, l’ambientazione, perfetta per qualche scellerato omicidio da prime time (e ne abbiamo avuti, purtroppo) o romanzi di formazione teneri (I Dimenticati di Laura Bosio) o cinici e disillusi.
Sul secondo tipo ecco che casca il nostro B. E. Ellis della pianura padana di cui dicevo.
Qui, tra nuvole flagellanti di zanzare dopate dai diserbanti (l’aria di Vercelli è irrespirabile, tossica, cancerosa, fibrosamente miscelata alle polveri di amianto sfarinato sulle labbra dei fossati) e pagliuzze ritorte, nella pianura (infinita) delle notti (certe) si muovono i personaggi descritti da Daniele Vacchino nel suo primo (folgorante?) esordio, ambientato tra le grettezze piccolo borghesi di ventenni caricaturali (e quindi veristi, ossia più veri del vero) prigionieri dell’afa utilitaristica provinciale.
Attraverso il filtro letterario, Vacchino ha trasfigurato la sua adolescenza tarda e gli abitanti del suo mondo. Ho conosciuto Dani quando ormai quell’ambiente e quei tipi erano sul crinale dell’oblio, però capisco di cosa parla. Personalmente non sono mai stato un adolescente canonico, dedito alla droga, alcool e perdizioni varie. Le mie perversioni sono decisamente cerebrali e solitarie. Ma questa è un’altra storia. Quello che mi preme sbattervi in faccia (cari anonimi e, numericamente, limitatissimi lettori) è l’accostamento, per nulla arbitrario, con l’omologo americano. Alcool righe e tsa tsa tsa (titolo geniale) è un romanzo sui provinciali alla Giovanni Cagna cresciuti nell’umidità sierosa (da Bates Motel) che ti sbrana l’anima.
Alcool righe (ieri/oggi su Lulu.com, forse gratis, forse no, perché l’autore si vergogna, implicitamente, di quel vecchio libro di 10 anni fa e vorrebbe obliarlo) è un romanzo sulla dipendenza nell’infinita provincia italiana (o los angelina?); la dipendenza dagli altri, dai sentimenti da discount, dai brand, dalle droghe per poveri (cocaina per tutte le tasche, tanto Vercelli, si sa, è un’autostrada in mano alla ’ndrangheta lombarda), dal bisogno feroce di riconoscimento e aggregazione (ve le ricordate le famigerate cumpe?) a colpi di marketing classista (le figlie dei dottori coi figli dei questori, le tamarre coi tamarri e così via fino alla fine dei tempi, che poi non finiranno mai e ricominceranno sempre al medesimo modo).
Alcool righe era/è la vuotezza della vita provinciale (cantata pure dai BauBau-stella); il protagonista (un avatar dello scrittore, col suo medesimo nome e cognome) si aggira affamato e infelice tra biblioteche troppo vuote e discoteche delirio troppo piene, week-end riempiti di amori da Bacio Perugina, scopatine, bute di vodka & Montenegro, o puntatine distruttive sulle spiagge di Loano, Boissano, eccetera. Il protagonista, quasi un Bateman ellisiano, ha momentanei barlumi di lucidità, intuisce il suo bisogno di riconoscimento frustrato (verso la famiglia, le ragazze, le compagnie di fighetti e cabinotti della bassa), il desiderio di andare oltre, provare, per la prima volta, a non farsi manipolare da nessuno e scegliere con la propria testa.
Ci riuscirà alla fine del romanzo formazione, simbolicamente dopo esser passato per i gironi di uno stage in banca, educato da Pavlov in minigonna, per poi piaggiarsi in un cimitero milanese. Alla fine rimane il senso di un grande spreco: mentre l’azienda totale preparava la trappola (leggi: la scusa) della crisi, le menti mediocri della nazione si bruciavano tra party on the beach, discodeliri e Oasis. In attesa che un gigantesco GAME OVER si accenda sopra le teste dei nostri provinciali, non resta che seguire le ultime scie della movida anni zero, ora anno uno.
Dopo sarà solo un karma coma dentro qualche quartiere cintato, ultima trasformazione geniale del dominio flessibile.
Ancora una cosa: per chi ha letto il libro (ossia nessuno), chi sono oggi i nuovi K, Best, il nero ecc.?
Oggi, 10 anni dopo, io li vedo veramente spietati (i nostri, in fondo, erano solo dei poveri pirla), gelidi e perfettini coi loro cellulari di ultima generazione e i social in cui scaricare tutta la vuotezza della loro web-coscienza collettiva.
Amen.