CUORDRAGO
di DAVIDE CAMPARSI
«Va, e torna con un cuore di Drago», gli aveva detto Mastro Reno al margine della radura. «La spada di un cavaliere delle Terra d’Estate può essere forgiata solo nel sangue di uno Scagliato.»
Una spada. Una lama d’acciaio e sangue di Drago.
Pannocchia s’era infilato nella boscaglia – senza correre, per non sembrare un ragazzino – ma col cuore che gli tamburellava in petto come l’ala di un passero.
Un Nome Alto, come quello di Mastro Reno o di Ser Gwain; non un Nome Basso, da povera gente, come il suo: Pannocchia.
Un nome da cavaliere.
Aveva avuto paura allora, timore di fallire la prova, ma non quanta ne aveva adesso.
Dopo giorni trascorsi a vagare lungo le nebbiose e infide sponde della Palude dei Bisbigli, chi non ne avrebbe avuta?
Paura, fame e freddo.
Non aveva mai immaginato che l’avventura potesse esser quello e ora capiva meglio lo sguardo corrucciato e sfinito con cui Ser Gwain tornava dalle sue battute lungo i confini del Regno. Al tempo Pannocchia aveva pensato che Gwain Fiancodiferro fosse ormai vecchio per quelle cose, che ci fosse bisogno di nuovi cavalieri nella Marca – cavalieri giovani, appassionati, come avrebbe potuto essere lui. Ora invece comprendeva quel che l’uomo d’arme doveva aver imparato da parecchi anni. Le ballate sono storie: menzogne cantate sopra il fango, il sangue e il sudore per le orecchie di giovani sciocchi.
Quando Mastro Reno lo allenava, nel cortile degli scudieri, aveva pensato d’esser trattato troppo duramente, ma il vecchio era una leggenda a corte e lui aveva stretto i denti. Aveva evitato anche di rammaricarsi: c’erano voci che dicevano che Reno possedesse il Tocco. Non la magia bassa delle donne, delle streghe – quella che le faceva impiccare fuori dai villaggi, se non ci stavano attente – ma l’Arte. Chissà mai che non gli potesse leggere in quella zucca dura che si ritrovava, se si metteva a pensare troppo forte. Meglio non correre rischi, s’era detto, e aveva tenuto duro. Ora ringraziava la severità del suo Maestro: nelle difficoltà della Palude era stata l’unico aiuto.
C’erano diverse voci su quel luogo tra la gente, per questo si diceva la chiamassero Palude dei Bisbigli; ma qualcuno, come Orzo lo stalliere, insinuava che il nome fosse dovuto ai gemiti e ai lamenti di quanti erano scomparsi nel corso degli anni in quel subdolo acquitrino. Si vociferava anche che, tra le nebbie e i vapori, trovassero riparo le sfuggenti creature del Piccolo Popolo: Fatati e Selvatici, e che fossero loro la causa che aveva condotto molti incauti alla propria fine.
Pannocchia però, quando si era inoltrato nella macchia in cerca di un Drago cui strappare il cuore, era stato troppo eccitato per pensare alla paura.
Sapeva che i grandi Draghi delle leggende erano scomparsi da anni e solo specie più piccole sopravvivevano ancora, alcuni nascondendosi proprio tra gli uomini grazie ai sortilegi della loro stirpe. Semola, la moglie di Orzo, raccontava spesso che una volta, una di queste creature aveva attaccato la sua scrofa, Cicoria, e solo con fatica, insieme al marito, era riuscita a mettere in fuga la belva ricoperta di dure scaglie.
Se Semola e Orzo non si erano lasciati spaventare da una di queste bestie, di certo non l’avrebbe fatto lui, Pannocchia, aspirante cavaliere delle Terre d’Estate – s’era detto lasciandosi alle spalle Mastro Reno.
Ma ora erano passati diversi giorni. Giorni in cui non era riuscito né a dormire, né a procacciarsi alcun cibo. Non solo: aveva rischiato più volte di rimanere invischiato nel terreno limaccioso e una nebbia ostile e umida gli aveva gelato le ossa, confondendolo, facendogli perdere l’orientamento ad ogni passo.
Mastro Reno lo avrebbe aspettato una settimana, aveva detto, alla Pietra della Forgia. Non un giorno di più. E lui si era appena destato all’alba del penultimo dì con un agro sapore di bile in bocca, lo stomaco contratto e la schiena spezzata dal dolore.
Per giorni voci bisbiglianti nascoste tra il fogliame, nelle nebbie o sulle creste effimere delle piccole onde verdi che increspavano le acque lo avevano deriso, turbato, terrorizzato. Ombre pallide erano venute a carezzarlo nei rari momenti in cui era riuscito a chiudere occhio, impedendogli di godersi il sonno. Quando si alzava di scatto, spaventato, scivolando sul terreno molliccio e fangoso, le aveva udite ridere e svanire come fossero solo frutto della sua immaginazione sfinita.
Le notti erano state anche peggiori, se possibile.
Non aveva scorto alcun animale che potesse cacciare col suo arco o con la lancia che si portava appresso, non aveva scorto nessun Drago, ma aveva sempre avuto l’impressione di essere spiato. Aveva avvertito forme vaghe e tenebrose aggirarsi furtive intorno a lui. Ruggiti bassi, risate che parevano colme di una sottile follia; sibili carichi di astio e minaccia.
Persino gli uccelli, o i piccoli roditori, con cui all’inizio aveva contato di sfamarsi, si tenevano alla larga e nessuna delle erbe e delle bacche che aveva raccolto gli era parsa commestibile in quel luogo aspro.
Così, accanto alla paura, una sottile disperazione aveva fatto breccia nel suo animo affamato.
Poi, quel mattino, aveva udito qualcosa nuotare nei pressi della riva, non distante da sotto il salice dove aveva cercato riparo.
Stringendo gli occhi per la stanchezza aveva teso la corda dell’arco allo spasimo, mirando in direzione del rumore: a quel punto avrebbe mangiato anche i propri stivali, in mancanza d’altro. Era stato allora che la ragazza era emersa dall’acqua e dalle nebbie, nuda, e lui era inciampato per lo stupore e l’imbarazzo, battendo dolorosamente le natiche contro le radici del salice. Non era riuscito a trattenere un grido e la freccia già incoccata era volata via storta e sbilenca, conficcandosi in uno dei rami più alti.
«C’è qualcuno?» Anche la ragazza sembrava turbata, a giudicare dalla voce. «Se c’è qualcuno, può venir fuori? Mi sta spaventando…»
Pannocchia si era rialzato sentendosi uno sciocco e poi si era fatto avanti sperando che la sconosciuta non scorgesse il suo rossore, ma quando era tornato a posare gli occhi su di lei, era avvampato nuovamente.
La ragazza stava in piedi sulla riva, e non faceva nulla per celare la propria nudità, se non per i capelli lunghissimi che le scendevano in riccioli umidi lungo il corpo. L’aveva fissato con occhi grandi e rotondi, come quelli di un pesce. E, seppur titubante, aveva sorriso.
Sorriso a lui, Pannocchia, destinato a rimaner per sempre scudiero delle Terre d’Estate, essendo prossimo a fallire la prova che Mastro Reno aveva avuto l’ardire di affidare a un simile inetto.
«Chi sei?» aveva chiesto la ragazza con voce incantevole, rimanendo nell’acqua. Prima che lui potesse risponderle però, si era presentata a sua volta. «Io mi chiamo Eleusina.»
«Pannocchia», aveva risposto, arrossendo questa volta per il proprio Nome Basso.
La ragazza l’aveva fissato con occhi ancor più grandi. E belli. Il sorriso si era allargato, ma a Pannocchia non era parso per derisione, e così si era trovato a sorridere anche lui, dimentico per un istante di ogni sua disgrazia.
«Che ci fai da queste parti?»
Pannocchia aveva aperto la bocca, ma poi aveva esitato. A differenza di lui, la sconosciuta sembrava non provare il minimo imbarazzo a starsene lì, nuda e gocciolante. Anzi, avrebbe scommesso che la divertiva confonderlo.
«Una prova…» aveva borbottato a denti stretti.
La ragazza aveva sgranato gli occhi. «Una prova? Come un cavaliere?»
Pannocchia era arrossito di nuovo. Almeno in quello stava dimostrando un certo talento.
«Solo se riuscirò a superarla», si era trovato a confessare.
«E non credo di stare andando molto bene», aveva ammesso a malincuore.
«E quale sarebbe questa prova?»
Pannocchia aveva esitato ancora. La ragazza gli piaceva, ma c’era qualcosa in lei che lo spingeva alla cautela. Forse, aveva pensato, perché di ragazze ne sapeva quanto di Draghi: cioè ben poco.
Così disse solo: «un Drago. Devo trovare un Drago.»
La ragazza aveva riso e applaudito, saltellando nell’acqua tutta contenta e lasciando intravedere tra i capelli seni piccoli, ma graziosi, costringendo Pannocchia a distogliere di nuovo lo sguardo per l’imbarazzo.
«Oh, ma io so dove lo puoi trovare, il tuo Drago. Posso aiutarti!»
Nuda o meno, Pannocchia era tornato di colpo a fissarla a occhi sgranati.
«Mi stai prendendo in giro?»
La ragazza gli aveva restituito lo sguardo incredulo un po’ perplessa. «Perché dovrei? Si fa così dalle tue parti?»
«No… no, perdonami…» Per quanto graziosa, la sconosciuta aveva il dono di farlo apparire un perfetto imbecille. «Ma… un Drago? Sapresti davvero dove potrei trovarne uno?»
«Credo di sì», la fanciulla aveva fiutato l’aria. Poi aveva aggiunto qualcosa che Pannocchia credeva d’aver frainteso. «Non sono più molti, ma ricordo ancora il loro odore.»
Stava per chiederle di ripetere, quando lo stomaco aveva brontolato rumorosamente.
«Ma tu devi essere affamato!» aveva esclamato Eleusina. «Ti piace il pesce?»
Pannocchia aveva annuito e al solo ricordo del pescato arrostito, il suo stomaco si era lamentato di nuovo, strappando un’altra risata alla ragazza. Stava per scusarsi, quando lei si era gettata con una capriola tra le acque profonde alle sue spalle, lasciandolo esterrefatto. D’istinto si era avvicinato alla riva sfidando il bordo limaccioso, quando lei era ricomparsa a poche braccia di distanza, spruzzando schizzi ovunque e stringendo in ogni mano un pesce guizzante.
Tempo qualche minuto e Pannocchia aveva acceso un focherello su cui aveva arrostito entrambe le prede, anche se la ragazza non aveva voluto a nessun costo avvicinarsi alle fiamme, restandosene accovacciata poco distante su una pietra che emergeva appena dal pelo dell’acqua. Pannocchia aveva divorato la sua parte, affamato, mentre la ragazza era parsa stupita della bontà del pesce cucinato a quel modo, come se non l’avesse mai assaggiato prima.
Una volta ristorato, la smania della cerca era però riemersa impellente.
«Mi aiuterai, allora?» aveva chiesto timoroso che, per qualche motivo che ancora gli sfuggiva, lei potesse ritirare l’offerta.
Eleusina aveva sorriso. «Ma certo», l’aveva rassicurato alzandosi in piedi nell’acqua. Lui l’aveva guardata aspettando che gli mostrasse la via, ma la ragazza era rimasta ferma, a sua volta in attesa. Quindi, aveva teso un braccio nella sua direzione.
«Mi devi tenere per mano, se vuoi che cammini sulla terra», aveva spiegato scuotendo il capo, poi aveva sorriso in un modo che a Pannocchia aveva fatto incendiare persino la punta delle orecchie. «Oppure innamorarti di me.»
Era stato allora che aveva capito con chi aveva a che fare e il pesce che aveva appena infilato nello stomaco aveva fatto un balzo. Sforzandosi di non tremare, pensando al Drago e alla sua spada, Pannocchia aveva allungato una mano e le dita di Eleusina avevano afferrato le sue. Poi l’Ondina, ridendo per il solletico, era uscita dall’acqua e, tenendosi ben stretta, aveva danzato sul margine fangoso della Palude dei Bisbigli come se fosse la cosa più divertente che le fosse mai capitata.
***
Pannocchia aveva seguito la Fatata col cuore in gola.
Stupido, s’era detto più volte: solo uno sciocco si fiderebbe di una di queste creature. Però Eleusina pareva davvero seguire una traccia, avere una meta, ed era la sua unica speranza di poter cacciare un Drago, a quel punto. Posto che non si trattasse di un tranello, certo: era questo il rischio con i Fatati. Ma che importanza avrebbe avuto? Non sarebbe mai divenuto cavaliere senza un cuore di Drago: tanto valeva aggiungersi alle tremule ombre della Palude e finire dimenticato da tutti… chi l’avrebbe rimpianto? Semola, Orzo e forse Cipolla… pochi altri.
La ragazza diede uno strattone, distogliendolo dalla propria commiserazione.
Pannocchia vide che s’era arrestata all’improvviso. Mai una volta aveva lasciato la sua mano, e almeno quella era una sensazione che non gli dispiaceva affatto.
«Sento qualcosa», bisbigliò. «E odori cattivi.»
«Il Drago?» Il cuore di Pannocchia prese a battere più forte e con la mano libera corse ad afferrare l’arco sulla schiena.
«I Draghi non hanno un cattivo odore», disse brusca Eleusina.
«Io non sento nulla», rispose, piccato dal tono risentito di lei.
Eleusina fece un cenno col capo e indicò alcuni alberi più avanti.
«Andiamo, ma non lasciarmi la mano.» Sembrava preoccupata ora.
Pannocchia la seguì tenendo ben stretto il proprio arco, ma prima che udisse i rumori cui aveva accennato Eleusina, trascorse diverso tempo. Poi, al margine di una radura fiancheggiata da anfratti e rocce calcaree, scorse alcuni uomini in agguato proprio davanti a loro.
Con il cuore che batteva forte, Pannocchia si accovacciò svelto dietro un riparo, trascinando con sé l’Ondina. Sembrava molto più spaventata di lui, così si sforzo di farsi coraggio e la strinse a sé. Eleusina gli rivolse un sorriso che gli pizzicò lo stomaco, ma poi tornò a concentrarsi sugli uomini armati che davano loro le spalle: parevano in attesa di qualcosa o di qualcuno. E molto pericolosi.
Fu in quel momento che Pannocchia lo scorse: un uomo alto e un po’ claudicante, che si muoveva attraverso il bosco diretto chissà dove. Nonostante la zoppia, i movimenti erano stranamente eleganti e il portamento fiero contrastava in modo affascinante con l’aria raminga dell’uomo. Pareva assorto in chissà quali pensieri quando d’improvviso gli uomini lo attaccarono.
Uno di loro scoccò una freccia che lo raggiunse al ginocchio proprio mentre lo sconosciuto si era voltato nella loro direzione, forse fiutandoli in qualche modo. Quando il dardo incocciò l’osso e la carne, ruggì, letteralmente. Un verso che agghiacciò Pannocchia, ma non gli assalitori che in un baleno furono su di lui, mentre l’arciere dominava la radura dall’alto della roccia su cui era inerpicato.
«Aiutalo», mormorò Eleusina.
Pannocchia si voltò a guardarla mentre poco oltre il combattimento infuriava: lo zoppo sembrava determinato a vender cara la pelle nonostante la sua sorte apparisse segnata. Gli occhi grandi, rotondi come quelli di un pesce dell’Ondina, erano fissi nei suoi. Parevano sul punto di riempirsi di lacrime.
«Hai detto che volevi essere un cavaliere… Perché non lo aiuti, allora?» La voce limpida tremava, ora.
Pannocchia la fissò come se fosse impazzita. Lui contro quei quattro? Per prestare soccorso a uno sconosciuto? Rammentò di malavoglia che la ragazza stava facendo lo stesso nei suoi confronti. Il suo sguardo si abbassò sulla mano stretta a quella dell’Ondina e la sentì allentare la presa, staccarsi da lui, e accasciarsi a terra, come se senza il suo contatto le gambe non la reggessero.
Dalla radura giunsero altre grida, ruggiti di rabbia e feroce dolore.
«E va bene», disse gettandosi fuori dal riparo, frustrato. «Che il Dio degli Sciocchi mi protegga!»
Non aveva mai ucciso nessuno prima d’ora, così quando mirò all’arciere sulla rupe, cercò di colpirlo alla scapola, sperando che l’osso reggesse, ma l’urto del dardo fu tale che l’uomo, sbilanciato, precipitò di sotto con un tonfo sordo e nauseante.
Senza accorgersi di stare piangendo, Pannocchia corse verso la radura. La freccia successiva colpì il secondo assalitore alle spalle, penetrando nel fianco molle e strappando un sorpreso grido di dolore. C’era qualcosa di strano nel groviglio della battaglia, ma Pannocchia, troppo occupato a cercare di restare vivo, non riuscì a capire di che si trattasse. A quel punto però, tutto il vantaggio della sorpresa si era consumato e l’attenzione dei briganti si riversò su di lui. Un uomo corpulento, dai muscoli nodosi, si staccò dalla mischia e s’incamminò nella sua direzione con un’ascia in ciascuna mano. Pannocchia non tergiversò: avrebbe voluto farlo ma sapeva che gli sarebbe stato fatale. Mastro Reno era stato chiaro su questo punto: in battaglia non esitare. Se sopravviverai, avrai tutto il tempo di rammaricarti più tardi, a differenza dei morti.
Con uno scatto di reni gli corse incontro, mentre l’uomo in precedenza ferito dalla freccia si allontanava strisciando sulle ginocchia e il quarto ancora lottava con lo zoppo, che ruggiva come un animale. In mezzo alla polvere che sollevavano, Pannocchia non riusciva a distinguere nulla.
Il suo avversario era grosso, molto grosso. Anche gli alberi lo sono, diceva Mastro Reno, ma se lasci che un albero ti colpisca non diventerai mai un cavaliere d’Estate. Mentre avanzava verso di lui, sorrise; un ghigno cattivo che fece montare la collera di Pannocchia. L’uomo era protetto da un’armatura di cuoio borchiato, in gran parte ricoperta di sangue scuro e denso. Lo zoppo doveva essere davvero un osso duro, pensò, ma non ebbe tempo di riflettere sulla cosa: con la velocità di un respiro, la distanza che li separava si consumò.
Senza smettere di correre l’uomo sollevo le due asce dal filo scheggiato e sporche di sangue sopra la testa, Pannocchia invece si riaggiustò l’arco a tracolla e lesto come gli aveva insegnato Mastro Reno, afferrò la corta lancia che portava appesa alla schiena e poi, di colpo, s’inginocchiò, piantando il piede dell’asta a terra contro il proprio, la punta di lucido acciaio inclinata in avanti.
Fu come essere investiti da un tuono.
Il legno si piegò, e tutto si fermò. Un rantolo soffocato sfregiò il silenzio immobile, poi il legno cedette con uno schianto sotto il peso dell’uomo e un’esplosione di schegge e sangue caldo gli spruzzò il viso. Con uno sforzo, Pannocchia spinse il corpo esanime via da sé e si sollevò in piedi, ancora stringendo l’inutile moncone di legno. L’acciaio della lancia sporgeva di un buon braccio dalla schiena del nemico.
Mezzo accecato, scorse l’ultimo uomo fissarlo dalla radura: impugnava un arco lungo e stava già incoccando nella sua direzione. Pannocchia si rese conto d’avere solo il tempo di morire. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, ma poi ci ripensò: sentiva di aver combattuto bene e almeno di quello avrebbe potuto essere orgoglioso.
In quel momento il Drago emerse alle spalle dell’arciere, le scaglie dorate coperte di sangue scurissimo. Ferite spaventose ne segnavano il ventre esposto e il dorso scaglioso.
Fissò Pannocchia con occhi d’aquila, fiero e selvaggio, mentre l’ombra cupa e silenziosa calava sull’uomo davanti a sé.
Si mosse rapido come un serpente, spalancando fauci affastellate di zanne e, con un unico movimento, staccò di netto la testa dell’uomo, mandandola a rotolare chissà dove oltre il margine della radura. Quindi, zoppicando, fece un altro passo in avanti e si accasciò a sua volta, troppo debole per avanzare oltre.
Fu allora che Pannocchia comprese, ma la voce alle sue spalle lo distrasse nuovamente.
«Uccidilo!» gridò l’uomo che aveva trafitto con una freccia poco prima. Con un braccio stringeva Eleusina accanto a sé, con l’altro le puntava un coltello alla gola. «Uccidi quel mostro, ora che è ferito. Uccidilo e potrai tenere la tua parte. Quello che vuoi. Mi basta l’Ondina. Con quel che ricaverai dal Drago, sarai ricco… Un mostro per te e uno per me: è ancora un buon affare…»
Pannocchia recuperò con lentezza l’arco a tracolla.
Guardò il Drago ferito, inerme: gli occhi d’aquila non si abbassarono. Stava già tornando uomo. Senza più forze, l’incanto veniva meno, ma non l’orgoglio.
Il cuore di un Drago per forgiare la spada di un cavaliere.
Tutto quel che aveva desiderato.
Un Nome Alto che non lo facesse vergognare di sé.
Sospirò.
Gli occhi grandi, enormi e rotondi di Eleusina lo fissavano.
Quando alzò l’arco e scoccò, lei non li chiuse.
***
Raggiunsero la Pietra della Forgia prima dell’imbrunire.
L’uomo era morto gorgogliando nel suo stesso sangue, quando piume d’oca erano fiorite sul suo collo vermiglio ed Eleusina era caduta a terra senza un lamento.
Era corso da lei e poco dopo, quando era tornato a guardare la radura, lo zoppo era già scomparso dove il fogliame infittiva.
Per tutto il viaggio di ritorno avevano camminato in silenzio, mano nella mano. Gli era parso che fosse l’Ondina a sostenere lui, questa volta, e non il contrario.
Mastro Reno era lì, ad attenderlo, come promesso.
Pannocchia non aveva nemmeno alzato lo sguardo verso di lui.
«Ho fallito», aveva confessato semplicemente. Nel cuore della Pietra della Forgia ardeva un fuoco inutile. Acciaio grezzo giaceva inerte lì accanto. Pannocchia l’aveva sbirciato con rammarico stringendo più forte Eleusina.
Mastro Reno era rimasto in silenzio per un po’, fissando l’Ondina con una certa curiosità.
«Ti avevo chiesto un cuore di Drago.»
«Lo so. Non ho potuto portatelo.»
A quelle parole il vecchio si era accigliato, poi una smorfia era sfuggita dalla sua espressione severa.
«Ne sei certo?»
Pannocchia l’aveva fissato perplesso.
Il vecchio maestro aveva abbassato una mano e l’aveva poggiata sul suo petto.
«Ti avevo chiesto un cuore di Drago, ed eccolo. Mi pare che questo batta abbastanza forte.»
Pannocchia aveva sgranato gli occhi: alle spalle di Reno era comparso lo zoppo della radura. Il suo corpo portava ancora i segni di ferite recenti, ma già in via di guarigione. Gli occhi d’aquila l‘avevano fissato e poi, con un coltello, l’uomo – il Drago – s’era inciso l’avambraccio e sangue scuro era colato sfrigolando nella forgia.
«La spada di un cavaliere della Terra d’Estate può essere forgiata solo nel sangue di uno Scagliato», aveva scandito. «In libertà, io ti dono il mio.»
Mastro Reno si era rivolto di nuovo verso di lui.
«Sorga dunque un cavaliere. Quale nome desideri?»
Pannocchia aveva guardato Eleusina con il cuore che gli batteva all’impazzata nel petto.
«Pannocchia», aveva sorriso la ragazza, anticipandolo. Ridendo.
Continuando a stringere la sua mano.
«Pannocchia è un bel nome. Credo andrà più che bene.»