LA PIETRA FILOSOFALE
di Darkum Neik
« Noi siamo parte del tutto. Quindi siamo anche noi tutto. Questo mondo, con quello che vi è dentro, insieme ad altri mondi, all’universo e svariati multiversi, sono parte di una singola mente. Dio, o meglio il Dio, inteso come il tutto, è l’unica persona vivente. Siamo nel suo cervello, siamo pensieri. Ci muoviamo per una dimensione a noi interamente sconosciuta. Pensiamo di percepirla reale, che i nostri occhi non ci mentono, invece vediamo solo illusioni. Non ci rendiamo conto che qualsiasi cosa, persona o animale; vibra. Persino quando stanno immobili. Vibrano continuamente, ed emanano un proprio ritmo. Il mio scopo, da studioso delle scienze alchemiche, consiste nel raggiungere tali movimenti, con l’intensità e il ritmo richiesto. Affinché smetta di essere un pensiero e diventi quello che dovrei essere, liberandomi dalle catene in cui il mio corpo e il mio spirito sono imprigionati. »
Theophrastus vide il volto dell’ascoltatore incupirsi, i tratti rudi e marcati della faccia s’inasprivano considerevolmente fino a divenire molto duri e quasi squadrati. Traspariva comunque una forte inespressività, a dimostrare che l’interlocutore avesse capito poco o niente, probabilmente niente. La situazione gli dispiacque, anche se non poteva pretendere d’essere capito da chi non era abituato a pensare. Tragorth ora lo guardava con una faccia bovina, mista tra l’interdetto e lo stupito. Si alzò di scatto e raccolse dal tronco di un albero il mantello di pelle da orso. Se non fosse per quella pelliccia era completamente nudo, fatta eccezione di un pantalone in cuoio colorato con strisce verticali bianco-rosse. Quando gli passò di fronte Theophrastus avvertì lo spostamento d’aria, e con la coda dell’occhio vedeva quella montagna umana, ricoperta di villosi muscoli, prendere la pelliccia e stringere nella mano una spada pesante e oblunga.
« Stai dimenticando qualcosa ? Sei sicuro di cosa stai facendo, mio compagno d’avventure. »
Tragorth rimase immobile, aggrottando le folte ciglia, assumendo un’espressione tesa. Poi, come se avesse compreso alzò la mano al tronco superiore dell’albero e raccolse un rosso berretto frigio di flanella. Theophrastus fu compiaciuto, il cappello non solo indicava il suo ordine sociale, ma anche lo stemma reale. Verso l’estremità c’era un cerchio con disegnata una bianca aquila bicefala in campo nero. Principalmente Theophrastus voleva che lo indossasse perché lo faceva apparire ridicolo, quindi meno burbero di come realmente fosse. Ancora non s’era abituato a quello stremante viaggio, poi erano settimane che non udiva un discorso decente. Tragorth stava sempre zitto, gli dava impressione che fosse un animale, in quanto avesse un istinto raffinato. Forse suo unico pregio, dal momento che il coraggio e la determinazione in lui erano talmente esagerate da rasentare la forma più volgare di stupidità. Theophrastus sapeva che era un barbaro, proveniente da terre incivili e lontane, che aveva vinto molti trofei di lotta libera, che prima di servire il re era un uomo dedito alla macchia e poi un mercenario. Ormai era troppo vecchio per fare la guerra, e troppo stupido per comandare, ma ancora resistente e incredibilmente forte. Per questo l’avevano affidato a lui. Dovevano essere braccio e mente. Insieme erano stati delegati per sconfiggere il necromante oscuro, in missione, o meglio in missione segreta, visto che attraversavano intere leghe da soli, senza attrezzature adeguate.
Il giovane alchimista stava quasi pentendosi di cosa stava facendo. Il consiglio dei saggi l’aveva ammonito – fai contento il re, accetta la missione, prendi i soldi dell’ingaggio e scappa.
Già, ma nonostante odiasse così tanto il re, il despota che inglobò la sua amata repubblica al suo rude regno; si sentii in dovere d’agire.
Un pensiero ora gli veniva in mente, adesso che mancava poco al confine e una coltre grigia sembrava divorare l’orizzonte. In quello che si accingeva a fare c’era un qualcosa di nobile, di differente rispetto agli intrighi di potere, di corte e di palazzi. Un qualcosa che andasse al di là del comune, che doveva essere fatta, per il bene di tutti.
Un elegante sigillo, inciso su pietra, con ai lati ondeggianti ricami intarsiati e levigati, fu irraggiato da una luce verde. Un’ombra nera aveva volto le spalle, lentamente, da una specie di trono rudimentale. Corpi dilaniati giacevano al suolo, in mezzo a un groviglio putrescente e marcio. Furono illuminati da una luce caleidoscopica. Uno di questi, appartenente forse a un ricco signore, si alzò e con passo claudicante camminava ebbro verso l’ombra.
« Ho preso la tua anima, ora sei mio schiavo. »
Una voce suonò sinistra, era una via di mezzo tra un bisbiglio e un rantolo, sembrava provenire da svariate parti. Il cadavere aprì gli occhi, la luce smise di illuminarlo. Bulbi straziati, senza pupille, iniettati di sangue risaltarono meglio su quella faccia gonfia piena di sporgenze nerastre.
« Tu comanderai. Solo se ti finiranno il mio potere su di te cesserà, come il tuo suoi tuoi subordinati.»
Insetti di dimensioni enormi uscirono dalla cotta di maglia del cadavere.
Era immobile, continuava a fissare il tetto, nelle sue anonime iridi si leggeva una vacuità sconcertante.
Theophrastus si chiuse i bottoni dorati della lunga giacca di velluto nera. Osservava il cielo, era costellato da nubi. Aveva perso l’orientamento, non riusciva a vedere le stelle. Per passare inosservati partivano un’ora prima del sorgere del sole, ma in quel momento gli era impossibile capire dove si trovasse l’Est.
Tragorth steso lungo pietre ammassate, aveva appena finito di divorare un alce intera. Cosa che era consueto fare ogni volta che non si fermarono in locande. Si toccava l’addome discinto, compiaciuto di avere appena fatto una modesta colazione, come la chiamava lui. Il fuoco del bivacco stava per spegnersi.
« Io so dov’è il confine. Non c’è bisogno che scruti il cielo. »
Theophrastus arreso abbassò lo sguardo, incontrando le due piccole fessure oculari del guerriero.
« Ah sì, è dov’è allora? »
Con fare annoiato Tragorth indicò il cespuglio alle sue spalle, pronunciando una serie di mugugni indecifrabili, che seppure Theophrastus s’era abituato a capire il suo fare gutturale non riuscì a comprenderlo. Fortunatamente apprese la direzione dal movimento della mano.
« Come fai a dirlo ? »
« Ho annusato un tanfo di morte, il mio istinto dice che è li. »
« Caro mio amico, questa volta devo contraddirti. Anche se del tuo istinto anche io ripongo una cieca fiducia, a differenza della tua testa. »
Staccò una foglia da un cespuglio di fianco e la poggiò su una pozzanghera. Prese a scavare tra le tasche della giacca.
« Dovremmo essere vicini a Dalgoth. Un piccolo e ridente borgo di confine, incontaminato. La non c’è morte. »
Esultò quasi quando riuscì a trovare l’ago e prese a strofinarlo convulsamente in uno straccio di stoffa. « Potrebbe essere che la malattia sia giunta qui. »
Theophrastus dopo avere smagnetizzato l’ago lo appoggiò sulla foglia e rispose al barbaro.
« No. La malattia è alle propaggini dell’impero, è impossibile. »
Attese pazientemente qualche secondo, e vide che la foglia si mosse con calma. Tragorth aveva ragione, la direzione era quella, la bussola appena creata da Theophrastus faceva intendere che l’Est era proprio dietro al bivacco. Ancora una volta l’istinto animale di Tragorth non s’era sbagliato.
Solo che Dalgoth, appunto perché era il confine, doveva essere avulso alla morte.
« No mi importa nulla. Ci sto rimettendo una fortuna. Non intendo spendere altre cifre. »
L’umile servitore si genuflesse oltre ogni dire, assunse un espressione triste e contrita.
« Maestà è l’unica certezza che abbiamo. Pare che il pane bianco rallenti la febbre nera. Poi non è detto che la situazione si risolverà a breve. Le casse reali potranno sempre beneficiare di corvè, nuove tasse possono sempre essere emesse. Magari così ci sarà anche un guadagno, con gli interessi. » Profondi solchi rugosi esacerbavano il volto del monarca.
« Interessi hai detto. Sono stanco di udire termini del genere. Da quando ho invaso il Verminaard mi sono trovato in mezzo ai guai. Persino il mio mago di corte, ha abbandonato la magia per darsi alla scienza, e mi fa sprecare ingenti ricchezze per pagare artisti. Ti rendi conto. Io che fui addestrato alla guerra, al comando, come lo furono tutti i miei discendenti. Adesso sono diventato il mecenate. Devo mantenere pittori, letterati, scultori. Tutto questo per fare tacere i sobillatori che potrebbero spingermi il popolo contro. Era meglio se la lasciavo la Repubblica, ci sto rimettendo più di quanto abbia guadagnato. In più come se non bastasse ci si è messo il necromante, con la febbre nera. E il mago cosa fa, inventa la forchetta, per non mangiare più con le mani. »
L’espressione vispa del monarca andò a scemarsi quando con la mente finì di rievocare la situazione appena esposta.
« C’è Theophrastus e Tragorth. A quest’ora saranno già nel Longar. »
« Non possiamo affidarci a loro. Theophrastus è un alchimista troppo inesperto e giovane. L’ho contattato perché gli altri si sono rifiutati. Il mio mago non ha proposto alcuna soluzione, l’unica cosa che mi ha detto è di rivolgermi alla scuola di magia. Mi hanno chiesto una somma talmente alta che avrei potuto saldarla con la vendita dell’Arnar, la regione più grande dell’Impero. »
L’umile consigliere stava per prendere parola quando le vene intorno al collo si gonfiarono di dieci volte la loro grandezza naturale. Il volto assunse tonalità paonazze, si avvertiva nell’espressione l’acuminante dolore che lo prese alla sprovvista. Dalla bocca colò una bava rosea, macchiò parte della tunica verde. Spalancò i due bulbi oculari, ormai rossi e innaturali. Il busto cadde a terra, con un tonfo sordo.
Il re si tolse dalla testa la pesante corona d’oro costellata di pietre preziose. La strinse forte tra le mani. Ormai la febbre nera era entrata nella sua corte. Aleggiava nel palazzo, ridendo sardonicamente, mietendo vittime.
La febbre nera si manifestava in tre modi. Le differenze erano dovute al tipo di contagio. I portatori del morbo, coloro i quali lo contrassero in zone dove non s’era ancora del tutto insediato, morivano rapidamente. In un arco di tempo che variava da un minuto a un massimo di dieci. Probabilmente a loro insaputa lo portavano nel grembo da molto, e l’incubazione era eccessivamente lenta, all’inizio. La vittima quando moriva forse nemmeno connetteva, per la mancanza di ossigenazione del cervello, le vene si gonfiavano fino a scoppiare. Invece il sintomo più conosciuto era più lento. Dolorose escrescenze nere, turgide e rivoltanti, apparivano per il corpo. Poche erano le speranze di salvarsi, l’ammalato moriva dopo dieci giorni d’agonia, perché il morbo divorava qualsiasi cosa, e li portava ad essere scheletrici. Mentre per le zone già colpite precedentemente la malattia assumeva inspiegabili fascinazione. L’ammalato diventava pallido, la temperatura corporea gradualmente scendeva, di giorno in giorno, senza che si avvertissero sintomi di decadimento o sofferenza. Anzi, la vittima aveva maggiore forza fisica.
La febbre nera però era molto di più di una terribile malattia. Chiunque veniva toccato dal male, era come segnato dal necromante, e la propria anima diventava di sua proprietà. I cadaveri prendevano nuovamente vita, senza volontà, rinunciavano a essere padroni dei propri movimenti. Il necromante li comandava. Per questo motivo i cadaveri colpiti dal male erano bruciati, anche se la soluzione arrecò pochi giovamenti, perché non si sa per quale motivo questi ritornavano in vita, come scheletri o addirittura in sembianze mostruose.
Theophrastus riteneva opera di un essere dotato di conoscenze straordinarie, probabilmente nemmeno più umano. Dissentiva dai pareri astrusi e discordanti dei medici, secondo lui non era vero che il male aleggiasse nei centri urbani, o si trasmetteva via aerea. Il contagio avveniva mangiando. Teorizzava che il necromante avesse contaminato animali e campi. Infatti lui circolò sempre in zone colpite, alloggiando in quei luoghi, stando a stretto contatto coi moribondi, senza mai essere colpito dal male. Certamente l’unica cosa che non faceva era il mangiare i prodotti del posto.
Gli studi di Theophrastus, quelli che compieva di contorno allo studio alchemico e lavorazione di sale, zolfo e mercurio; lo indussero molte volte a varie considerazioni sui fenomeni della vita. Principalmente la morte per lui era assenza di vibrazioni. Un qualcosa per cui aveva sviluppato un certo sentore. E la cosa che lo turbò particolarmente fu proprio quando quel deludente senso di apparente paralisi che avvertiva nella morte, prese sopravvento su di sé mentre attraversava i fitti cespugli che separavano la foresta da Dalgoth. Tragorth assunse l’espressione tipica di chi stava per grugnire, e intanto strinse il pugno intorno all’elsa della spada. C’era tensione.
Un piccolo ponte di legno li divideva dalle mura della città, un misero ponticello formato da corde consumate che si reggeva per miracolo. Il sole traspariva molto debole dalle grigie e minacciose nubi che avevano avvolto il cielo. In lontananza si scorgevano esili ombre, passeggiare lentamente. Il borgo forse ancora dormiente non era attivo alle prime luci dell’alba. Theophrastus e Tragorth avvertivano una strana sensazione, e l’alchimista fu sorpreso dell’intesa che ebbe con il barbaro, con una breve occhiata si stavano accordando per l’avanzata. Alla prima anomalia Tragorth aveva fatto intendere di affondare la sua lama su chiunque gli capitasse a tiro.
Man mano che si avvicinavano, diminuivano velocità, pronti a soccombere.
Avvolto in un nero mantello, un uomo rimase immobile in piedi, dando le spalle ai due avventurieri. Solo quando un gesto brusco di Tragorth, ancora camminante, fece cadere sull’erba un otre d’acqua riempita fino all’orlo l’uomo si girò. Uno sciame di mosche verdi creò come una foschia. Il gesto istintivo di Theophrastus fu di abbassarsi a terra e coprirsi con una mano puntata verso il volto. La faccia dell’uomo era bianco pallida, ricoperta da gonfie escrescenze nere. Il barbaro stava retrocedendo convinto si trattasse della febbre nera, ma Theophrastus paralizzato dallo spettacolo poté vedere con raccapriccio i due bulbi vuoti e privi di vita.
« Sono cadaveri. »
Urlò con quanto fiato avesse in corpo.
« Sono morti viventi. »
Una furia omicida baluginò come uno scintillio sui denti del barbaro. Si gettò a capofitto in avanti, falciando in due l’uomo. In un lampo fu circondato da arti decomposti. Lo toccavano da ogni direzione, un fetido miasma di morte aleggiò per l’aria. Il barbaro roteò in tondo, recidendo qualsiasi cosa avesse intorno. Urla sommesse, prive di forza, ma terribili in quanto sinistre, avevano coperto il fragore della lama.
Theophrastus corse sotto il ponte, lo chiamava, facendogli segno di gettarsi con lui. Dopo l’ennesima testa mozzata Tragorth si rese conto di quanto la sua fronte fosse imperlata di sudore. Non esitò a gettarsi nel ruscello, affianco ad Theophrastus. L’alchimista aggrappato alla barca, temendo che si rovesciasse, provò a reggerlo per mano mentre cercava di raggiungerlo. Fortunatamente l’acqua arrivava al mezzo busto di Tragorth.
« Ma cosa ti è saltato in testa. I morti non si possono uccidere, guarda là. »
La vista di Tragorth seguì la direzione delle mani di Theophrastus, scorse i pezzi tagliati strisciare nel fango e ricongiungersi formando corpi deformi e mostruosi.
« Cosa facciamo ? »
Con la spada puntata in orizzontale e i muscoli saldi, era ben attento e ascoltava il giovane alchimista.
« Raggiungeremo il confine con questa barca. I morti temono la vita, quindi l’acqua. »
La diffidenza di Tragorth si placò quando vide una mano strisciante fermarsi in prossimità del corso del fiumiciattolo. Theophrastus aveva ragione.
Goffamente salì sulla barca, impugnando la spada a mo’ di remo.
Il monarca, attonito, si massaggiava convulsamente la testa. Uno spiraglio a mezzaluna, in cima al soffitto, fu sufficiente a illuminare l’intera stanza. Le ginocchia posavano sopra una base di duro legno. Cercava il dolore, memore di un antico insegnamento tipico della tradizione di famiglia. Perché solo con il dolore poteva raggiungere la forza per affrontare il problema. Un’usanza tramandata da secoli nella sua famiglia.
Lo sguardo era basso e assente, concentrato nel domarsi, e la mancanza di attenzione lo lasciò per diversi secondi inerme davanti a un’oscura apparizione.
Una nube nera, gassosa, stava allargandosi di fronte a lui. Solo quando ritenne l’autopunizione sufficiente, si deconcentrò, continuando a rimanere impassibile, sebbene dentro fosse divorato dal terrore.
« Che stregoneria è questa. Chi sei ? Parla ! Cosa vuoi da me ? »
Dopo aver trovato la forza di urlare e reagire, la paura svanì, anche se la nube cominciava a delinearsi in una forma umana. Un sospiro sommesso aleggiò per la stanza, provocò la pelle d’oca al re, una ventata smosse due pezzi di stoffa che fungevano da tende.
« È giunta la fine di tutti. Il tuo regno sarà presto cancellato dalla morte. Sarete miei, tutti. Sarò io il re d’ogni contrada, e ci sarà solo putrefazione e fetore di morte. »
Il re ebbe impressione che ciò che stesse vedendo fosse inconsistente. La voce stessa era indefinita anche se gracchiante e ruvida.
« Perché ? Prendi me. Lascia mio figlio e il suo regno. »
Una risata sardonica e grottesca durò circa una ventina di secondi, il tempo di turbare la faccia del re. « Dai resti di questo regno io mi allargherò per l’intero pianeta. Quando avrò tanti servi quanti sono gli abitanti del mondo, potrò combattere l’ultima battaglia contro il dio della morte. E allora, io sarò, e tutto il resto non esisterà più, mai più. »
Quando Theophrastus riprese le forze capì in quale guaio si fosse cacciato. Era troppo tardi. Tragorth, legato e appeso per una stalattite, pendolava dormiente a testa in giù. Il paesaggio tetro, composto da terra secca senza erba, da vulcani in continua attività e da quella malsana aria di fumo nero a tal punto da appannare il sole, era solo illusione. A loro insaputa erano entrati nel tempio del necromante, subito dopo avere attraversato il ruscello, da giorni.
Disperato l’alchimista si chiedeva per quale oscura ragione il necromante l’avesse lasciato libero, ma nemmeno fece in tempo a trarre una conclusione che uno scheletro ricoperto da una peluria fitta e maleodorante gli apparve davanti. Guardandolo bene si accorse che era sostenuto da un corpo composto da gas nero, e librava in alto. Istintivamente provò a scappare, ma una misteriosa forza lo immobilizzò.
« Alchimista…»
Una voce ridondante fischiava nell’orecchio di Theophrastus.
« così tu puoi fermarmi… con quale esplosione ? Con cosa? Se non ci riesce un mago, come puoi farlo tu ? »
Man mano che parlava nella voce aumentava l’ilarità. Un senso di spossatezza divenne forte e irresistibile, Theophrastus socchiuse gli occhi, tremava, misteriose rughe apparvero sulle mani, per il corpo. Una ciocca di capelli crebbe velocemente, sfibrata e bianca, toccò il lurido pavimento, continuando a crescere, strisciando come un serpente.
« Io ti stimo. Per questo tu morirai, rimanendo qua, con me. Scoprirai che l’immortalità non è con la vita, ma con la morte. La vita è carne, desiderio, possessione, materia. È nell’amore, insomma nella follia, che non ci fa vedere quello che siamo e ci inganna con illusioni. La vita è caduca. »
Theophrastus si accorse d’essere invecchiato molto velocemente, tentò di reagire, mosse la bocca, snocciolando una serie di mugugni indistinti. Il necromante allora rallentò con la mano il senso di soffocamento intorno al collo e lo fece parlare.
« Guarda la mia tasca. »
La indicò con un movimento da bradipo, l’intonazione di Theophrastus era sofferente.
Il necromante fece quanto chiesto dall’alchimista, ci trovò un sacchetto, lo fece fluttuare verso sé. Aprì l’involucro e afferrò dalle mani gassose la pietra rossa che c’era dentro.
« Cos’è questa ? Cosa pensi di fare ? Nemmeno i saggi della tua scienza sono arrivati a fare qualcosa di serio, come intendi farla tu ? »
Il necromante rise in maniera fragorosa, senza rendersi conto che gradualmente l’intonazione era sempre più bassa e meno gracchiante. Theophrastus invecchiava a dismisura, fino a divenire magro come una silfide, con la pelle dura e rugosa delle stesse sembianze di una pesca marcia. Il necromante rimase interdetto quando prima del rantolo della morte l’alchimista sorrise accasciandosi a terra. Corse verso il cadavere, e con le mani cercò di schiaffeggiarlo. Non dava segni di ripresa. Poi di colpo il necromante si accorse d’essere invaso da una strana euforia, non dipendeva dalla situazione. Allora si guardò nuovamente le mani, capacitandosi che erano di pelle.
Era vivo, e giovane.
Theophrastus era morto vincendo su lui, donandogli la vita. Era riuscito a creare la Pietra Filosofale.
Tragorth s’era liberato e aveva appena impugnato la portentosa spada.
Il necromante rimase fermo, aveva perso i suoi poteri.