LA PORTA ROSSA

Interminabili file di croci, scolpite su grigia pietra, si succedevano per chilometri. L’orizzonte era coperto da lapidi ammassate una sull’altra. Uno sconsiderato numero di rappresentazioni mortuarie gli provocò la claustrofobia.

Eppure aumentò la velocità, mentre si allacciava l’ultimo bottone della giacca.

Il mazzo di crisantemi era ben stretto nella mano destra. Avanzava barcollante. Metro dopo metro la forza nelle gambe gli veniva meno. Il suo sguardo vitreo, lacerato dalle sofferenze, era empio e stanco. Quella maledetta folata di vento gelido lo fece quasi tremare. Continuò a camminare imperterrito anche se le forze parvero lenire e lasciarlo.

Le ginocchia scricchiolavano.

La determinazione in lui era forte e avrebbe resistito a questo e ad altro, per la sua defunta moglie .

Arrivò quasi alla meta. Si sedé lungo una pietra riscaldata dal sole. Stirò in avanti due aste sottili e ossute che teneva come braccia. Lasciò il mazzo sopra una bara, alla portata di un’occhiata languida di un angelo scolpito. Ripresosi continuò la scalata, squadrando con profondo odio le ali dell’angelo intagliato nell’alabastro.

Anche lui aveva attraversato il tunnel bianco, solo che a differenza della compagna era tornato.

Il sole simile a un’arancia rossa lanciava gli ultimi gracidii prima del crepuscolo, gli dava il calore necessario per rinvigorirlo.

La lapide era sotto i suoi straziati bulbi oculari, a pochi metri da lui.

 

 

Marco frenò la macchina di colpo, il ruggito emesso dalle ruote si disperse tra il vento che ondulava gli eucalipti. La faccia sconvolta di Giovanna era immobile, con la bocca e gli occhi spalancati verso il vuoto della strada.

Giovanna non doveva parlare.

Le iridi fiammeggianti di Marco la intimidivano, la scrutavano con un misto di odio e rabbia del tutto sconosciuti alla moglie. Era stato abbastanza permissivo la sera precedente, quando la trovò mezza nuda a farsi toccare da quell’anonimo chiropratico di turno. Uno dei tanti esseri privi e vuoti che lo stavano annoiando a morte.

Quella maledetta festa.

Marco era un tipo rude e orso, a lui non piacevano le mondanità. Poi tutto quello sfarzo, in quella villa isolata nell’Agro Pontino, zeppa di lofi e vari benpensanti della borghesia romana. Aveva accettato solo perché la moglie l’avrebbe assillato a morte. Ogni tanto bisognava accontentarla, ma a quale prezzo?

Giovanna era sconvolta.

Quante coppie aveva criticato quando le vedeva litigare. Più anni passano più sono frequenti le frecciate e parole spigolose tra gli amanti. Lei di questi problemi sembrava non averli, almeno fino a quel momento.

Saliva fino alle narici l’acre odore di gomma bruciata, mosso dalla fastidiosa brezza che tardava la primavera. Faceva ancora troppo freddo per essere maggio. Marco cominciava a sudare, si toccò la fronte, massaggiandola, accendendosi la sigaretta, incurante che fosse fermo nel bel mezzo dell’autostrada.

Il sole era allo zenit, risaltava gli intensi colori scuri della macchia mediterranea, dove lecci e pioppi spuntavano in mezzo alla campagna brulla. Marco osservava le frastagliate basse colline contornare un desolato e sgangherato paese disabitato. Non sapeva dove stava, nemmeno gli interessava, quello che contava era che Giovanna non doveva parlare. Gli aveva permesso troppo, doveva starsene zitta. Mentre cercava di scaricare la tensione, alla moglie comparvero inaspettati tremori alle mani. Ancora gli rimbombava dentro il secco no del marito, urlato con una ferocia esagerata. Forse Marco avrebbe persino dormito per calmarsi, le palpebre pesavano, come fossero piombo, quando una strana apparizione li pietrificò.

Una donna alata, sospesa pochi metri dalla strada, di fronte alla macchina. Le ali smaniavano con un convulsivo alzarsi e abbassarsi, dandole modo di rimanere ferma. Un lungo pastrano nero a mantello le copriva la testa con un cappuccio. Una stringata armatura rifletteva i riverberi sul vetro della vettura. Aveva alzato in alto la sua spada, due serpenti le si erano attorcigliati lungo le braccia. Ben stretta nella mano sinistra c’era un mazzo di chiavi. Sotto indossava una toga stretta e bianca che scopriva pienamente due gambe sinuose e robuste. I ricci corvini come i neri occhi emanavano riflessi blu, risaltavano sulla pelle olivastra della donna. Rughe d’espressione si delineavano quando mosse un provocante sorriso. Marco fu infastidito talmente tanto da riuscire a controllare lo stupore.

La misteriosa donna tentava di scatenare qualche reazione, Giovanna se ne accorse solo quando Marco gettò la sigaretta e mise in moto la macchina.

« Questa stronza ! Adesso la sistemo io. »

Azionò il motore.

« No fermo Marco cosa vuoi fare? »

La donna alata librò per la campagna irta di erbacce, ridendo.

« Adesso la faccio fuori, voglio vedere se la smette di volare e prendermi per i fondelli. »

« Ma Marco è una follia. »

« ZITTA! DEVI STARE MUTA. »

La macchina indietreggiò e si girò di scatto verso la direzione intrapresa dalla strana creatura. Un altro stridio seguì una sgommata che lasciò un’altra volta la puzza di gomma bruciata. Premé con il piede destro l’acceleratore, imboccando lungo un sentiero dissestato in mezzo a secchi rovi.

La vettura sobbalzò, Giovanna saltò dal sedile, quasi sbattendo la testa. La donna alata dopo avere raggiunto alte quote si tuffava per aumentare la velocità. L’obiettivo di Marco era investirla nel momento in cui si abbassava, perché quando raggiungeva quasi il suolo si preparava nuovamente ad alzarsi. In quel frangente che si ripeteva continuamente, era vulnerabile e statica, alla portata dell’auto. La cosa che la sua avventata furia non calcolò era che il rettilineo intrapreso era pieno di sassi, lo faceva rallentare sensibilmente.

Il limpido cielo cominciava a rabbuiarsi, una considerevole massa indistinta di nubi lo chiudeva come un coperchio, formando una patina bianca simile ai cieli dei paesi nordici. Giovanna notò delle colline troppo bombate e simili tra loro, facendoci meglio attenzione vide che tutte queste avevano una base in pietra.

Il sentiero si rimpiccioliva, Marco si intestardì più che mai. Aveva la certezza che l’avrebbe presa a momenti. I sandali della donna alata scansarono di poco la superficie concava della macchina.

Sparì completamente dalla visuale dei coniugi.

Dal nulla comparve una grande porta rossa di decine e decine di metri. Aveva scolpito statue di uomini e donne nude, accavallati tra loro, insieme a creature infernali con corna e serpenti con più teste. Marco cercò di decelerare, andava troppo veloce, si sarebbe schiantato sulla porta. Tentò una disperata manovra di salvataggio. Ci provava, voleva credere che ci sarebbe riuscito ma perse ogni speranza. Anche Giovanna non pensò bene, si tolse la fede nuziale e la accarezzò. Era l’unico appiglio che la legava ancora a Marco, e in quel momento non poteva stringergli le mani.

Un rumoroso schianto smosse gli eucalipti intorno alle costruzioni bombate con il tetto d’erba. La porta era immobile. Scoppiettavano in intermittenti crepitii i rovi accesi da un incendio vermiglio. Il fumo cresceva, formando nell’indistinto cielo nuvole neropetrolio.

 

Avrebbe preferito consumarsi in straordinari, dormire per strada, mangiare schifezze per i fast food, purché non tornare. Non riusciva a stare a casa, rievocava troppi ricordi sgradevoli.

Marco era emaciato fino al punto che gli si potevano contare le costole, e le rughe d’espressione inasprivano in profondi solchi che a stento laceravano la pelle. I capelli erano cresciuti all’altezza delle spalle, senza forma, scoloriti, spesso nemmeno lavati. La barba era formata da ispidi batuffoli di peli multiformi, ruvidi, con filamenti puntati quasi alla sommità del collo. La pelle era dura, secca e miseramente pallida. La sclera gialla s’era rimpicciolita rispetto all’iride.

Negli occhi gli si leggeva l’adusto deserto di melanconia che lo tormentava, senza tregua. Dentro sé era colpevole di avere terminato la vita della moglie. Per una sciocchezza, per una motivazione che l’avrebbe dannato anche oltre la morte.

Non aveva senso, e per questo rasentava la pazzia.

Fu investito in un lampo da una incontrollabile furia omicida. Avrebbe ucciso quel mostro apparso dal nulla, a deriderlo, a discutere della lealtà di Giovanna. Quella specie di donna alata che lo fece quasi ammazzare, tentandolo, umiliando la sua virilità. Perché lui l’aveva udita quella voce sensuale e dura di quella creatura, e gli diceva che non era niente e anche Giovanna credeva questo di lui. Si arrabbiava molto poco e quando lo faceva perdeva completamente le staffe. Seguiva un rituale per smorzare la tensione e per nessuna motivazione al mondo doveva essere disturbato.

Ma da dove era uscita tutta quella rabbia ancora non se lo spiegava. Per sua orrenda sfortuna non trovava una soluzione, quel calvario era destinato a non finire mai. Era uscito illeso dall’incidente, perse conoscenza e svenne. Il resto lo scoprì di giorno in giorno. Pensava l’avessero carcerato per tentato omicidio visto che ai test del sangue era pulito e non aveva scusanti. Voleva essere condannato all’ergastolo. La legge doveva vendicare Giovanna. Invece il giorno dell’accaduto lo videro talmente sconvolto da essere certi si trattasse di un incidente. Pare che gli avvocati ce l’avessero nel sangue a difendere gli assassini. Il pubblico ministero fu dalla sua, alla fine la causa passò in archiviazione. Non poteva crederci, forse era meglio se non avesse dato uno straccio di euro all’azzeca-garbugli. Magari così non l’avrebbe difeso.

Non era intenzionato a terminare Giovanna, ma era come se l’avesse fatto. Tentò di rifugiarsi nell’alcol, per dimenticare, ma finì per ricordare. Qualsiasi cosa aveva perso valore, solo la faccia di Giovanna lo perseguitava nei crudeli e nitidi ricordi.

Non rivelò a nessuno cosa vide e come andarono i fatti, chi l’avrebbe creduto ? La porta rossa era scomparsa, non fu trovato niente.

Prima del funerale si rifiutò di vedere il corpo della moglie. Era un avvizzito tizzone di carbone , riarso, irriconoscibile.

La vita divenne una prigione, come la casa e la carne che gli teneva serrata l’anima appesantita. Pensò più volte di farla finita, ma era un atto vile. L’esistenza e gli anni da vivere erano le bolge dell’inferno da scontare. Impugnò un coltello, avrebbe preferito tagliarsi la faccia e vedere il sangue sgorgargli dallo specchio. Pagarla in qualche modo. Lo stava facendo quando una parte del vetro si appannò e comparve una scritta:

“ Marco ti amo.”

Corse nel salone e lanciò le sedie e i tavoli sulle pareti. Un’espressione attonita apparsa in un lascito di resa lo confinò in una tristezza inesplicabile. Cadde a peso morto sul pavimento, con le spalle afflosciate e gli arti pendenti. Ancora quell’immotivata rabbia lo manovrava, era un pupazzo che non riusciva più a controllarsi. Una marionetta impugnata dalla follia.

 

Una soddisfazione era stampata nel volto di Primo Gualtieri, la manifestava senza trattenerla.

« Quindi non mi credi pazza? »

« No, anzi. È impossibile che un’ignorante mi citi queste cose.»

Giovanna s’era un attimo turbata. Primo aveva calibrato male le parole, con una faccia che chiedeva scusa riprese a parlare.

« Ignorante nel senso che ignori la mia materia. Insomma non sei un’etruscologa. »

« Se ti dicessi che ieri dopo essere stata colpita da uno dei miei attacchi di tristezza ho scritto sul vetro una frase gentile a Marco e poi ho assistito a un caso di poltergeist. Tu mi crederesti lo stesso? »

Primo era in parte eccitato, si sedé sulla sedia ad ammirarla.

« Questo non lo so. Per il resto sì. Vedi… » Giovanna si accomodò di fronte, seduta al tavolo. « Mi hai descritto con perfezione la demone etrusca Vanth e anche una necropoli. Persino quella porta che non è stata trovata che sostieni di aver visto. È la porta dell’inferno, Vanth tiene con sé le chiavi per aprirla. Tu questo non lo sapevi affatto. Né tantomeno ti sei documentata. Come fa una persona a descrivermi una necropoli etrusca se non l’ha mia vista prima? E sapere che proprio quella popolazione in tempi antichi viveva nell’Agro Pontino. Io credo che quello che mi hai detto è assolutamente vero. »

Giovanna si mise le mani intorno alla testa.

« Marco c’è morto. Cosa stai tentando di dirmi Primo, che è all’inferno?»

« No cosa c’entra. »

Ansimava quasi dalla tensione, provò a mettersi più comodo. La sofferenza di Giovanna lo metteva in soggezione.

« Vedi, Vanth è rinomata per provocare rabbia e tensione. Si diceva che lei avvicinasse alla morte le prede, però non le toccava. Gli Etruschi credevano che dopo la vita ci fosse l’inferno, solo l’inferno. Vanth aveva il compito di guidare le anime nel trapasso, le assisteva, in quanto lei stessa personificava la morte. Io ti sto solo spiegando quello che hai visto. Se ti dicessi come la penso, l’idea sulla fine che mi sono fatto da sessantacinque anni a questa parte e che non c’è alcuna differenza tra essere vivi e morti. Però è una considerazione personale. Ho sempre pensato che l’unica cosa che cambia sono i legami che si perdono. »

Giovanna lo guardava con interesse.

« Allora ieri sera ho avuto un contatto con Marco. Era lui che mi ha distrutto le sedie. »

Primo mosse la testa in senso di negazione.

« Ti sei mai chiesta chi è vivo tra te e lui? Sai questo fatto della nascita e della fine non mi è mai stata chiara. Non lo so, un’idea strana che mi sono sempre fatto e man mano che mi avvicino alla settantina comincio a pensarla continuamente. Magari è meglio se fai finta di nulla, lascia stare quello che ti ho detto.»

Giovanna fu ossessionata da pensieri. Smaniava con le mani.

« Strano, molto strano che una necropoli di quella portata sia stata nascosta. Di sfregi li compiono continuamente. Quando si ha il settantacinque per cento del patrimonio culturale mondiale si è veramente cinici con l’arte. Mica come all’estero che edificano un museo tappezzato di bandiere nazionali solo se trovano una misera coppetta di una civiltà semisconosciuta. Già dovevo arrivarci prima, non mi stupisce. Poi Giovanna, non so se lo sai ma degli Etruschi non gliene importa nulla. Pensano solo agli antichi Romani. Questo dovrebbe dirla lunga sul perché siano ancori così misteriosi ai giorni d’oggi… »

Primo continuava a parlare sfoggiando appieno la sua pedanteria. Il discorso divenne un soliloquio perché Giovanna era assente.

Aveva la mente occupata da altro.

 

Il parroco muoveva la bocca, a Giovanna pareva andasse fuori sincrono, la voce giungeva ovattata e le parole persero d’importanza. Amici e parenti arrivarono in chiesa a dare l’ultimo omaggio a Marco, seduti sulle panche in quel modo erano come ombre che lasciavano un alone scuro in un oceano annebbiato.

Stringeva nel pugno la fede nuziale ed era l’unica cosa reale rispetto a quello che la circondava. Tinte chiare e scure di varie tonalità si mescolarono in un unico colore omogeneo e indefinito. La navata della chiesa, il pavimento e il soffitto, sembrava ruotarle intorno.

Fissò la bara di mogano. Era il solo oggetto a non avere perso forma e consistenza. Quando il giorno dell’incidente aprì gli occhi, ritrovandosi in una stanza d’ospedale, si accorse che nel tunnel bianco aveva lasciato suo marito. Forse Primo aveva ragione, chissà quale tra i due era morto ? Chissà chi aveva attraversato la porta rossa ? A lei in quel momento interessava dare un addio a Marco e strofinando la fede lo cercava.

Avrebbe ancora assottigliato la dimensione e il tempo come accadde a casa sua, quando dopo aver soffiato sullo specchio e scrittoci sopra, sedie e tavoli sbatterono per il muro.

Rievocava il nome di Marco, aveva iniziato una cantilena.

La bara si muoveva, stava per aprirsi…

Darkum Neik