Lunigiana, terra di mezzo tra Liguria, Toscana e Emilia, dalla morfologia piuttosto complessa e dalle influenze eterogenee: etruschi, romani colonizzatori arroganti e poi a cascata bizantini, longobardi, franchi carolingi e ancora i brutti musi dei frazionati Malaspina, e il riformista gran duca Leopoldo.
La Val di Magra.
L’alta Val di Magra.
Qui, in una frazione di Mulazzo, Arpiola. Attorno, dorsali selvosi e altri rosari di piccoli paesi e pievi solitarie. Qui vicino c’è Pontremoli, un grosso borgo medievale dei dintorni, tutto portali scolpiti, architravi, madonne marmoree nelle nicchie di pietra sopra ai portoni.
Ho voglia di visitare il cimitero monumentale. Me ne ha parlato qualcuno, e non ci sono mai stato. Il cimitero si trova in un grande piano coltivato, tra il torrente Verde e il fiume Magra.
Parcheggio all’ombra di alcuni cipressi altissimi e ombrosi che incorniciano il recinto ottocentesco e l’ingresso a volta con due grandi statue marmoree, due angeli, di cui uno, quello sulla sinistra, copiato da un altro angelo di Staglieno a Genova. Sulla destra, la casupola del custode e una piazzetta imbevuta d’ombra, con la fontanella e una bancarella di libri usati. La cosa mi colpisce subito.
Entro nel monumentale.
Il luogo ha una pianta quadrata. Nella parte centrale le inumazioni sono nella terra, ai lati lunghi porticati con le cappelle e le cripte private, le edicole, cippi marmorei con dediche delicate e poetiche. Cammino in quella città di pietra, assorto dalle varie scritte pietrose, ammirato dalle figure oranti scolpite da pregevoli, quanto anonimi, artisti del luogo. Scorgo il tema caro degli angeli piangenti chini a sorvegliare gli ingressi delle cappelle più prestigiose. Qua e là medaglioni, bassorilievi, epitaffi per i tanti caduti delle due guerre.
Dopo una mezz’oretta di passeggiata solitaria, senza incrociare un vivente, torno davanti al caseggiato del custode.
L’uomo dietro la bancarella di libri ha sulla sessantina, una corporatura media, gli occhiali da vista senza montatura e dei baffi neri e la faccia allegra e vispa. La bancarella non è molto grande, ma i libri sono ben esposti e ordinati, cosa non comune. Scorgo numerose pubblicazioni sulla zona, libri anche rari che, da tempo, mi sono promesso di comprare. Libri della “Manfredo Giuliani” o di etnografia e antropologia del territorio. Magari potrebbero servirmi per un lavoro futuro, un libro capace di mettere insieme il folklore della Lunigiana e il mio retrogusto dell’orrore.
Trovo due volumi dei Racconti di Dracula che non ho. Li compro per leggerli e farci un articolo per la Zona e il mio boss Longoni.
Comincio a parlare con l’ambulante e mi informo sul costo di alcuni tomi. Le chiacchiere perdono i confini. Complice l’ombra sempreverde dei cipressi, le chiacchiere portano altrove. L’ambulante Ennio mi domanda il nome di un autore degli ultimi trent’anni veramente valido. Io, senza indugi, faccio il nome di Sergio Bissoli e del libro uscito presso le Edizioni Hypnos con una cura filologica degna di un classico greco e latino.
Poi parliamo del pittore surralista Leo Squittinna, un grande amico di Buzzati, sepolto sotto i cipressi di Pontremoli.
Si discorre amabilmente a quel modo quando compare una figura magra, allampanata, alta e ossuta, un semischeletro in tinta col luogo funebre, in abito nero impeccabile e cravatta.
La figura si avvicina.
E’ un vecchio con una faccia vizza e a punta, col mento aguzzo, le spalle curve e gli occhietti intelligenti, indagatori. Una forte stempiatura scopre il frontone e i pochi capelli rimasti si arricciano sulle orecchie come cespugli di ginepro.
L’ambulante Ennio saluta il vegliardo con grande cerimonia e me lo presenta. E’ Loris Boggi, ex professore universitario, medico, poeta, scrittore. L’omino magro magro alto alto muove le braccia per schermirsi e le mani gli tremano leggermente come farfalle in volo. Tutta la sua figura comunica una certa fragilità, come sul punto di sbriciolarsi li davanti a noi. Anch’io mi presento.
Loris Boggi appartiene a una nobile famiglia genovese proprietaria di ville e possedimenti nella zona e, per tradizione, nella sua famiglia, sono quasi tutti medici o gran luminari. Il nome della sua casata è scolpito nel legno di parecchie panche del duomo di Pontremoli.
Boggi adocchia la pila di volumi che ho appena acquistato dall’ambulante Ennio e subito si rallegra per la scelta. Loris Boggi, premuroso, si dice subito disponibile a aiutarmi nel reperire altri testi rari su quegli argomenti, in particolare un modestissimo (a suo giudizio) contributo da lui vergato proprio su certi temi. Un libro purtroppo esaurito, ma di cui ancora dispone di qualche copia.
Loris Boggi mi chiede a bruciapelo se mi interessa la magia nel folklore locale.
Mi interessa la magia e la società di massa, rispondo. Mi interessano i vecchi riti, le vecchie credenze apotropaiche. La magia contro l’ansia di questa precarietà lavorativa.
Loris Boggi, uomo novecentesco, annuisce comprensivo. E’ un bruttissimo momento per voi giovani, capisco quello che vuole dire.
Poi fa un discorso interessantissimo sul potere magico della merce, sulla magia della pubblicità.
Vede, quando passa una pubblicità su, mettiamo, una crema per il viso che mantiene giovani, ecco, anche quella è una forma di magia. La crema diventa un oggetto magico, la gente la usa, si convince che funzioni, cerca di trarne un effetto benefico. Una volta c’erano gli amuleti. Gli scongiuri, ma è lo stesso. Oggi il guaritore è la pubblicità o la politica.
La considerazione di Boggi mi pare bellissima.
Boggi mi prende sotto braccio e, con signorile premura, indica alcuni simboli che si ripetono con impressionante ciclicità sulla facciata del cimitero.
Vede quello? E’ il simbolo dell’iris.
Subito penso a Suspiria, ma il mio gentile amico vuole parare da un’altra parte.
Ebbene l’iris è un simbolo primordiale. Le interessa?
La prego.
Ficino ne parla nel “De Vita” come di un talismano, quasi una medicina che riflette le virtù occulte delle stelle. La fleur de lys.
La fleur de lys, ripeto con la mia solita pronuncia da logofrenico.
La forma a mezzaluna è simbolo femminile. Assiale, dritta e capovolta al medesimo momento. E’ il fiore di Firenze. Kémia di morte e vita. Un talismano floreale. Luigi VII vide nell’iris un simbolo di salvezza. E così, prima di lui, Clodoveo, che ne ricevette da Anastasio, imperatore d’Oriente. L’iris di qui, di questi posti è legato a quello fiorentino, ma se voglio traghettarlo fino a noi le citerò subito Dan Brown col suo “Codice”.
Le è piaciuto professore, chiedo io.
La ringrazio per l’epiteto.
Non è professore?
Sì lo sono stato per trent’anni a Torino. Di chemioterapia. A proposito, le piace Cocteau? E Markevic? Controllo l’ora. E’ tardi e devo rientrare. Con delicatezza, cerco di interrompere il flusso bellissimo del vecchio professore.
A casa leggo di fila i due Dracula.
Entrambi bellissimi.
Uno è il Paci, Pica, Schneider.
IL MOSTRO DI STEVENBORG. Romanzo del 1971, con forti ascendenze surreali verso il thrilling del periodo. Casuali somiglianze con i baccanali de Il mio vizio è una stanza chiusa e il bellissimo banchetto orgiastico contenuto nella parte centrale de Un bianco vestito per Marialé.
Dentro a un libro ve ne sono molti altri.
Comunque.
Le prime ottanta pagine del mostro vivono imprigionate in una atmosfera sospesa, statica, un mondo misterioso che non si può conoscere se non nel sogno.
“Nuvole grigie sormontavano lentamente le tonde e tortuose gibbosità delle colline. Il cielo assumeva un colorito scialbo. Le grandi chiome degli alberi, rari e selvaggi, più fitti lungo le sponde del fiume, erano ormai immobili, in quell’aria senza un filo di vento.”
I personaggi si dividono in nobili votati alla lussuria e sguattere amorose, che usano i corpi burrosi per divertirsi, raggiungere la felicità materiale e liberarsi dagli istinti.
Una vita primitiva, raccolta tra i baldacchini e le coltri dei letti o i camini, la notte, a scacciare il freddo col vino e i liuti dei signori.
Arrivano pure dei commedianti girovaghi muniti di Land Rover. E il carosello degli istinti sessuali riprende a girare, mentre nei piani alti del castello, la moglie del duca è una paralitica isterica e rancorosa verso quelli che se la spassano. Su tutti grava il peso della colpa, dell’invidia, dell’egoismo, rappresentato dalla leggenda occulta del mostro, un’entità fantasmatica che uccide, stupra e torna nelle tenebrose cavità del castello per dormire e risvegliarsi nei secoli e ricominciare ancora a incatenare alle pareti le carni ingoiate delle conserve. Poi, nelle ultime venti pagine, i vizi della carne scoppiano e tra il mugghiare del vento perenne e gli squarci dei lampi, la tragedia della polpa finisce.
Libro immenso.
Un thrilling gotico dal sapore acidulo.
Come un Terence Fisher andato a male.
L’altro Dracula è un Irving Mathias, Stanis Mulas.
Leggo il titolo.
Alzo gli occhi sull’ora.
Una coincidenza.
DOPO LA MEZZANOTTE.
Inizio a leggere.