1 – KOMOS/COLLEGE
Che dietro al genere slasher (americano o anche europeo e, perché no, italiano) vi sia la minaccia di una metamorfosi incompiuta (irrealizzata/irrealizzabile) è chiaro.
Le molteplici prove di quel cinema – oscillante come un pendolo tra gli ’80 (reaganiani/craxiani) e i due decenni successivi (quelli dell’avvento del digitale su tutti noi e alla materializzazione dell’art. 18) – recano al loro interno i riflessi di un lavoro sotterraneo (neanche tanto) attorno alle sagre di Dioniso e alla loro esaltazione bacchica (in Hell Night con Linda Blair, basta la sequenza iniziale coi boys festanti a formare una lunga processione di automobili dirette verso il castle).
Immagini perdute di una qualche fata morgana orchestrata su plot schematici, ripetuti (il luogo chiuso, determinato nel suo spazio/tempo; il fantasma del sesso; i satiri di un qualche college, raramente portatori di qualche psicologismo).
La mimesis è quella dei giovani e delle loro libagioni, del loro impulso (incontrollato?) vitale, sessuale (Jolly Joker).
Il komos del college s’illude di scacciare l’inevitabile, annegando la coscienza di gruppo nel vino (nella birra di sottomarca), nella danza (tecno – rumoreggiante, lontanissima dalle raffinate melodie dei thrilling italiani – e qui rivedo la sequenza nella discoteca di Ripper, dove si consuma uno degli omicidi più violenti e argentiani), negli umori levigati del corpo palestrato (pensiamo al fitness di So cosa hai fatto, coi personaggi manichini/bamboline, già virtuali, inesistenti, matrici spalmate invase dalle creme di bellezza e dagli steroidi – cosa su cui ironizzerà Roger Fratter nel suo capolavoro malato Anabolyzer).
La turbolenta gazzarra scortica i nervi della società (sonnolenta e rincoglionita, composta da genitori assenti, imbalsamati dinanzi agli altari orfici delle Tv private, come nell’incipit de Il tunnel dell’orrore di Tobe Hooper), fa chiasso e irrompe sulla quiete della provincia.
Il corteo di fanciulli e fanciulle invasate si sente al di sopra di tutti, si sente intoccabile, esente dai divieti e dalle leggi (il gruppo anarcoide di studenti che organizza la festa revival in treno in Terror Train).
Estasi & divinazione di giovinetti col loro riso crudele, sempre pronto a farsi beffe dei benpensanti o degli sfigati, di chi non riesce a stare al loro passo (Cherry Falls, film – sperimentale? – oppure l’intro stupidissima di The Graveyard).
Genitori invecchiati troppo presto e compagni/e brutti/e finiscono illuminati dal riso scorticante dei bulli, scherzi atroci sommergono i deboli (come in Smiley).
Si profila allora una società di forti che si sentono protetti dalla loro bellezza, dalla loro ricchezza, rinserrati nelle case gadget (Black Christmas remake, portentoso apologo sul bisogno di tornare all’ovile per scoprire che l’ovile non c’è più, non c’è mai stato).
I coreuti guidano nella notte.
Si amano nella notte.
Urlano nella notte.
Senza sapienza.
Senza intelligenza.
Senza rispetto.
E umanità.
Senza solidarietà.
Senza.
La gioiosa ebbrezza della comitiva rumoreggia fastidiosamente nelle orecchie di chi si deve alzare all’alba per travagliare in qualche cazzo di azienda totale (ma a ironizzare sui poveracci che travagliano senza diritti e orario di lavoro definito ci sono anche gli ex-poveracci, che, per lasciti famigliari, paraculismi finanziari, riescono a farsi mantenere e sfangare dall’orrido buco del lavoro nel tempo della moneta unica).
I ragazzi sciamano coi tamburi o l’autoradio e le macchine luccicanti (anche qui l’avvio di The Pool in quel di Praga basta per 1000 film).
Sono esseri di luce, alle volte ridotti al semplice fanalino di una motocicletta, come accade al Michele Soavi preda del mostro furioso in Rosso Sangue di Aristide Massaccesi.
Furiosi col Rolex pronti a sfasciare una filiale della Cariplo per poi fiondarsi all’Expo e comprare il cibo bio.
Tra loro, a volte, appare una sibilla che prova a indicare le nubi all’orizzonte, ossia le prime avvisaglie del male incombente (Laurie in Halloween, o la Zora Kerowa di Antropophagus di Joe D’Amato).
Naturalmente il komos non le bada e la schermisce come una rompicoglioni (My soul to take, capolavoro di Wes Craven, regista che forse più di chiunque altro ha saputo rileggere negli anni il sottofilone slasher).
2 – L’OMBRA DI SILENO
Vi è poi sempre un vecchio (d’animo se non di corpo) che incarna il precettore di Dioniso, Sileno (un custode, un bidello, un prete, un professore, un padre, una madre del college/collegio – e qui le figure sarebbero tantissime; mi limito al giardiniere bidello libidinoso interpretato di Non entrate in quella casa): anch’egli è il custode profetizzante sventure.
In Sileno si nasconde la verità a cui i cortei fallici dei collegiali vogliono sfuggire, ovverosia che la vita è dolore e che altro non c’è se non la morte (il finale bellissimo di Compleanno di sangue, che poi fa il paio con l’altrettanto splendido Madhouse di Ovidio Assonitis) .
Nessuna danza, nessun pigiama party (come nell’incipit danzereccio dello splendido Profondo Tenebra di Jess Franco), nessuna gita, vacanza al campeggio potrà salvarci.
3 – METAMORFOSI
Il maniaco calza la maschera della morte.
A volte la sua faccia non ha nemmeno bisogno di una maschera. Gli basta la piattezza del suo viso (Il collezionista di occhi col wrestler burino, o il Luigi Montefiori monumentale di Rosso Sangue il più bello tra gli slasher italiani, e perché no il viso angelico/ebete di Elija Wood in Maniac, lo stupefacente remake del film di Lustig) per restituire il mistero di una testa tagliata, recisa da una lama. La testa-maschera è linfa sapiente del decapitato, di colui che dimora nel grembo della terra e possiede il segreto di ciò che è nascosto, non visto, percepito da tutti.
La maschera epidermide di un volto senza viscere, emozioni, umanità (Jason, Michael Meyers, il maniaco di ricalco di Bloody Murder 2, o ancora il vecchio sciamano de Il camping del terrore di Ruggero Deodato). La maschera è solo vaso risuonante, cavità, fisionomia d’incubo in bronzo, creta, lattice, fx.
La maschera del maniac restituisce, dal grembo della fossa, un corpo annullato, profetico, che invade la skené del film e ne segna i fotogrammi, distraendoci dalla danza rutilante dei boys imbecilli.
Ecco allora che la metamorfosi dei ragazzi diviene utopia carnevalesca, inutile speranza di ribellarsi all’ordine eterno e antico delle cose.
Alla fine di ogni party.
Per quanto ubriachi.
Belli.
Abbronzati.
Palestrati.
Ricchi.
Up.
Alla fine di ogni danza.
Corteo.
Alla fine di ogni fuga.
Di ogni tentativo di scappare.
Di nasconderci.
Di trasformarci in menadi ubriache.
Per non farci riconoscere.
Alla fine di tutto.
Sileno.
Le Cassande.
La maschera.
Ci avvertono.
Ogni fuga è impossibile.
La ribellione dei giovani è neve ad agosto.
Futile
illusione
dai
lacci
della
condanna.
E adesso toccatevi pure le palle.