La vittima e la vendetta di Daniel Scott (alias M. Ratti).
Thrilling psicologico del 1977, dove una morta rivive nelle membra della medium che l’ha evocata e s’adopra nel cercare il proprio assassino. Ratti, ebbro di labirinti freudiani, semina fertilità ombrose sulle pagine pulp; una sensibilità erotica generata dai fermenti stessi dei generi (barocco, gotico, romantico) dilaga: castelli, delitti, pornografie, insomma tutta la patologia infantile più elementare e selvaggia.
La vittima e la vendetta è romanzo chimerico che colpisce l’occhio interiore della mente con suggestioni vaghe, ineffabili come le parole utilizzate, lasciando al lettore il compito di immaginare, di far appello all’inconscio. Di evocare il romanzo.
Il morso del diavolo di Daniel Scott, 1976.
Gli pseudonimi se li passavano, infatti, qui, dietro a Daniel Scott (solitamente usato da Mario Ratti) abbiamo G. Pica, alias Giuseppe Paci. Lo scrittore giudice è alle prese con una follia che miscela gabinetti medianici, castelli, sabba demoniaci, bentley, coupé e danze nei cimiteri. La trama parte banale. Un uomo e una donna. Un patto col demonio per avere quel che tutti vogliamo: la felicità, la bellezza, la bella vita. Dunque il tema della bellezza medusea, della bellezza dell’orrido, con tutto il corredo dal Faust di Goethe. La coppia d’amanti rotolerà sugli altari del martirio, tra le forre dell’orrido. Alla fine, sul palcoscenico del vizio decorato da Paci, apparirà pure un esorcista e, al motivo della bellezza sfiorita da Antologia Palatina, si sostituirà l’handicap petrarcheggiante del film di Friedkin, con tanto di vomito verde e le stigmate sur le corps de la chère convalescente.
La leggenda degli Hoodlost di Irving Mathias (alias Stanis Mulas), 1973.
Mulas è un autore interessante, inoltre avrei voluto essere il panno rosso sulla copertina (e chi è l’uomo che osserva sullo stipite della soglia temporale della porta? Un balivo? Un motorboy? Mario Caria picture show!). I primi capitoli sono da romanzo erotico. I sensi palpitanti di 2 verginelle del popolo che si concedono a dei ruspanti. Poi si passa a un interessante dietro le quinte tra un editore e uno scrittore di genere, con l’editore interessato a sfruttare il boom dei pulp da edicola conditi con sesso, violenza e surrealismo da market. Ogni tanto i dialoghi tra le minorenni riprendono, in ossequio al genio scomposto di Pierre Louys. Su tutti, un’ombra del desiderio che spia la foia delle coppiette e attende la sua retribuzione, ossia il delitto quale asse dell’universo.
Insomma Mulas costruisce un clima opaco e odoroso, una materia letteraria fitta di voluttà sadica, attraversata da una lucidità inusuale per la collana, tanto da transitare da Simenon ad André Malraux.
Ecco alcuni squarci surrealisti:
“Un raggio di luce solare rivelò improvvisamente un microcosmo fatto di polverose particelle in sospensione che si agitavano e vorticavano lentamente”.
Oppure:
“Entrambi risero felici, mentre camminavano allacciati verso la foresta, illuminati dal sole che iniziava a tramontare”.
Il sesso e la morte di Guy de Saint Sever (alias Guadalberto Titta), 1973.
La prosa di Titta (ex giullare anche in qualche commedia all’italiana) è nominale, contratta sugli effetti espressivi della penna (apparizioni, burrasche a buon mercato) che si accendono e si spengono come un clic. A sorreggere i trucchi un’ampia cornice storica, che miscela il Concilio di Trento, Filippo II, Lutero e l’Andalusia superstiziosa d’un Garcia Lorca interpretato dalla sensibilità camp d’un Paul Naschy. Notevole inoltre il livello onirico delle scene, con impennate di raggelante malia. Il tema, comunque in soldini, è quello della reincarnazione, alla base d’una pila di Racconti di Dracula.
E ora ecco la quadrilogia di Harry Small, alias Mario Pinzauti: Il castello dei decapitati del 1969, Il suicidio dei Mostri del 1970, La metamorfosi del mostro del 1972 e Il club dei mostri del 1974.
Li prendo in stock e parlo in generale del tour de force gotico del Pinzauti. La materia è pressappoco la medesima. Come dire: l’éntrange, le merveilleux, le fantastique in Pinzauti. Dai libri (letti di fila, in un solo pomeriggio, senza quasi alzarmi dalla sedia, senza prender fiato) si esce come intossicati, squassati dalle bieche luci delle descrizioni, dai balsami di mummia delle pagine. La sintassi è prevedibile, appiattita su impulsi di sadismo sempre trattenuti, allusivi. Il let-motiv è la decadenza, ricalcata dal romanzo nero inglese, o dalla libidine borghese del D’Annunzio.
Pinzauti è un operaio a cottimo di romanzi horror costruiti su scalette improvvisate, mai riletti, dalle scene d’una inerzia sublime. I personaggi (quante volte lo avremo già detto, quante altre lo ridiremo con gioia!) maneggiano stille d’accessori, viaggiano, parlano, senza acquisire alcuna prospettiva. Alcun significato. Il dadaismo avrebbe gioito. I surrealisti si sarebbero dati convegno su queste pagine per gale e altro.
Le ambizioni esigue, dicevo, della prosa si limitano a dare un corpo alle copertine (sempre magnifiche di Mario Caria), quasi dei decameron satanique. I codici dunque si rincorrono: paesaggi gualciti da brutali maledizioni, un’aria vizza, passatista, empia di figurine femminili convulse e medusee, Afroditi spinte da tetaniche, allucinate, libidini boreali. L’affettazione del buon moralista è bandita da Pinzauti, uomo di bassa crapula commerciale (si darà anche al western nostrano). Poe e Dostoevskij non passano di qui. Il mondo di Pinzauti è quello grossolano delle torture, della gioia orribile per i pasti necrofili. Tutta materia già frolla nei ’70, pronta per fare il salto negli equivalenti filmici d’inaudita follia (su tutti il dittico di Sergio Garrone: La mano che nutre la morte e Le amanti del mostro con un Klaus Kinski in cupio dissolvi).
Sul Club dei mostri aggiungo a chiusa che è un romanzetto rococò, intriso di cose e spunti lasciati a metà, dal Pit and the canarin di Paul Leni al Sesso della strega del nostro Pannacciò, con richiami a Gaston Leroux, Corman, Browning e il pornofumetto. La chiusa poi pare rifarsi all’umorismo nero dell’Ecologia del delitto – Reazione a catena di Bava; anche qui c’è un ingente patrimonio, intorno al quale gravitano esseri umani corrotti e corruttori.
“La mole corrusca e severa del castello si elevava come un presagio di minaccia stagliandosi nel controluce del cielo (…) Ora era solo una specie di rudere abbandonato, che attendeva con le sue vuote occhiate l’arrivo dei nuovi proprietari (…) Con l’andare degli anni si era venuta a formare attorno alla potente costruzione, come una specie di paurosa atmosfera. Nella valle si erano manifestati dei fenomeni che le menti semplici dei contadini non erano riusciti ad accettare”.
Il passo è preso dal primo capitolo del romanzetto di Jacob Christopher (alias Aldo Crudo) Il nudo volto del demonio, un Racconto di Dracula del 1971 in cui il “peso” del Castello e delle sue rovine si fanno sentire sulle sorti della vicenda. Le rovine della magione torva sono alla base anche de L’interminabile orrida notte di Red Schneider. In entrambi i libri il castello/rovina è pregno di cose oscure, immagine simbolo dei fantasmi sbiechi della mente, stemperata nelle gole di cera d’un collegio svizzero. Oplà!
La donna eterna di Martin von Schatten (alias Libero Samale), 1978.
Scrittore lunare il dottor Samale.
Il romanzo è impastato coi rossi e i gialli dell’Ungheria orientale. I suoni sono quelli (etnografici) di un’orchestra zigana.
La storia tratta di reincarnazioni, maledizioni di un’antica strega innamorata e giocatori di scacchi ultraterreni. Si sente l’influsso di Poe (la bizzarra ipersensibilità dei personaggi), della Maschera del Demonio di Bava e di Danza Macabra di Margheriti (tra i gotici filmici quello che ha maggiormente impressionato I Racconti di Dracula) rivisti sotto le incongruenze arcane di un plot spruzzato di surrealismo naif. Si sente anche il richiamo allo schema iniziale del Dracula di Stoker, con l’ospite misterioso che tiranneggia (qui) sulla coppia di sposini. Soprattutto riesce la scrittura del dottor Samale, capace di dar respiro a un mondo letterario pre-moderno, per sempre fissato in una cornice remota e incantata.
Altro romanzo prezioso.
Oggi (a parte Sergio Bissoli) non si scrive più così.
Non si pubblica più roba così.
Non si legge più roba così.
Non si pensa più così.
I racconti di Dracula sono piccole, incerte, lampade a olio sulla lamina di falasco [1] degli occhi.
Davide Rosso
[1] Nel testo, il dottor Samale accenna al falasco, scrivendolo con una ortografia errata, ossia “falasto”; trattasi comunque di un’erba palustre dalle lunghe foglie e dall’etimo incerto. In letteratura se ne effonde l’uso dal Bellincioni e se ne attesta nel Pascoli.