PERSONAGGI PRINCIPALI
Roberto Santinovi: narratore e protagonista
H e Best: amici di vecchia data di Roberto
Rosi: 25enne milanese
Viola: giovane e bellissima ragazza di cui Roberto si innamora
Vanessa: ex fidanzata di Roberto
Ermanno: gestore della stazione balneare e guardone
Gina: moglie di Ermanno, gestisce con lui la stazione balneare
Sergio: guardiano notturno della pensione
Nino: violento romeno al soldo della malavita
Anonimo al telefono: amico di Roberto
Mike: barbone che predice il futuro
Passarono diversi giorni. Scelsi deliberatamente di non scegliere niente. La mia strategia consisteva nel lasciare le cose invariate. In questo modo, Nino, quel mostro che girava per l’Italia alla mia ricerca con un coltello in tasca, non avrebbe avuto notizie di me dai giornali. Parallelamente, se mai le indagini delle forze dell’ordine avessero percorso la pista che portava a me, avrei avuto gioco forza nel sostenere che, non essendomi allontanato, era evidente che non avessi nulla da temere.
Stupide scuse. La verità era che non potevo abbandonare quella città, non potevo lasciare quella pensione. Lì c’era Viola. La spiavo sottilmente, nei momenti di cui la sorte mi faceva dono, durante i pasti e negli incontri nell’androne, dietro i lettini sulla spiaggia (condividevamo, come tutti i clienti della pensione, lo stesso bagno, quello di Ermanno e Gina) e tra gli scogli. Dietro gli occhiali da sole ne studiavo le linee del viso, quando lei era girata ne scrutavo la forma del corpo. Era sempre accompagnata dai genitori; questo dato, insieme alle fattezze, mi avevano fatto concludere che non dovesse avere più di vent’anni. La dolcezza dei suoi occhi si spegneva nella sua pelle intensa, ambrata, il naso morbido accendeva i suoi sorrisi.
Trascorrevo le giornate sognando il momento in cui avrei potuto incontrarla. Mi ero del tutto dimenticato di Rosi e delle indagini della polizia. Avevo addirittura scordato di acquistare i quotidiani per aggiornarmi sullo stato di avanzamento delle indagini. Qualcosa, però, era cambiato sulla riviera romagnola: le parole dei giornali avevano invertito il cadenzare del tempo, rovesciando la routine vacanziera in una linea d’attesa, fatta di esili paure consumate sotto l’ombrellone. Dalle ragazzine alle giovani donne, a tutte veniva intimato di non allontanarsi, di non uscire sole la sera, di non far tardi, di non parlare con estranei. La paura di un maniaco con la mano guantata che potesse ripetersi nell’opera assassina aveva impregnato l’aria. Gli sguardi di tutti, era evidente, si erano fatti più pesanti, le conversazioni più bisbigliate e meno sfarzose. Persino i locali presero a chiudere prima. Sulle spiagge, poi, vennero organizzate ronde notturne, per tenere alla larga eventuali aggressori.
Viola, di tutto ciò, pareva non curarsi: camminava liscia sulle superfici del terreno come se stesse scivolando sulle nubi, gli occhi sospesi in flessioni armoniche. Dalla sua pelle evaporava un profumo che, sarà stata una mia suggestione, pareva essere proprio di viola.
Una sera era venuto alla pensione un gruppo musicale a suonare le canzoni degli anni Sessanta. Gli inservienti avevano ammassato i tavolini su cui i villeggianti solevano sedere per giocare a carte all’aperto, la sera, e creato lo spazio per un piccolo soppalco. Le famigliole composte e dignitose del nord Italia sedevano ora diligentemente sul lato riservato al pubblico, qualche coppia danzava pesantemente nel cerchio formatosi sotto il palchetto. Le luci dei lampioncini rischiaravano le note di un tempo ormai defunto, che veniva resuscitato.
Non me ne accorsi nemmeno che Viola si era venuta a trovare a pochi passi da me. Ascoltavo le note prodotte dalla pianola elettrica, provavo ad isolarle dal suono prodotto dagli altri strumenti musicali. Fu quando sentii quel suo profumo, che mi ero convinto essere proprio di viola, che me ne resi conto: era in piedi, le braccia conserte, con lo sguardo seguiva i gesti del cantante, con un colpo del collo faceva di tanto vibrare i capelli. Tutto in lei era composto e armonioso, emanava un’aura che imponeva un amoroso rispetto. Mi guardai attorno: i suoi genitori non c’erano. Dovevano essere saliti un attimo in camera, a recuperare il maglioncino per la sera, o a prendere i soldi per il gelato. E lei era lì, a mezzo metro da me.
Fu solo dopo aver ascoltato ancora una canzone che parlava di un amore sbocciato al mare e tanta malinconia per il distacco dato dal ritorno alle città, che ebbi il coraggio di avvicinarmi a Viola. Si accorse del mio movimento e porse il mento nella mia direzione. Gli ero finito davanti, come fossi stato un magnete attirato dalla calamita. Ora non potevo più far finta di niente, dovevo parlare.
- Ciao – balbettai.
Sono sicuro che lei mi rispose qualcosa, ma non potevo sentire nulla in quell’istante. Le orecchie mi si erano tappate e le cose vicine sfuggivano risucchiate da una forza che le trascinava lontano.
- Ti piacciono le canzoni?
- No. Mi mettono tristezza – queste parole sono sicuro uscirono dalla sua bocca.
- Anche a me.
Non riuscivo a pensare a nulla. Ma il suo sguardo, fisso su di me, mi dava la forza di andare avanti, anche se il mio procedere era goffo e limaccioso.
- Ci allontaniamo un po’? – mi uscì dalla bocca.
Non tentennò nemmeno per un istante. Attese semplicemente che io le facessi strada, per venirmi dietro.
Furono solo pochi minuti quelli che trascorremmo insieme, da soli, quella sera. Doveva fare un giro in città con i suoi genitori e non avrebbe potuto farsi sorprendere mentre parlava con un estraneo, così mi disse. Non ricordo neppure tanto bene il contenuto della nostra prima chiacchierata. Lei era, questa fu l’impressione generale che mi lasciò, una persona molto calma, piena di energia solida che le scorreva dentro. Certi suoi sguardi, però, tradivano una malinconia. Come se, in fondo a lei, si celasse un segreto amaro, insondabile. Era proprio quella sorta di mistero che mi attraeva verso di lei. Quella sua energia contenuta e composta, pensavo, era solo uno schermo, una scusa per non fare emergere quella che in fondo, ne ero certo, era una condizione di ontologica e irreparabile solitudine.
- Ti posso rivedere? – le chiesi prima che lei facesse ritorno sotto il palco della band.
Viola aveva detto sì. Anche se dai suoi discorsi era chiaro che avesse molti anni meno di me, anche se i suoi genitori non le avrebbero mai permesso di coltivare quel rapporto alla luce del sole, lei voleva rivedermi.
L’occasione per stare di nuovo soli arrivò due sere dopo. Sua madre non stava molto bene a causa di un improvviso mal di testa e il padre rimase in camera con la moglie. Io mi trovavo ai tavolini all’esterno della pensione. Avevo trascorso gli ultimi giorni seguendo meticolosamente gli spostamenti di Viola, nell’attesa di un suo cenno, di una sua indicazione che segnalasse un momento di guardia bassa da parte del controllo dei genitori. Pareva lusingata da questo mio attaccamento a lei: una ragazza della sua età credo avrebbe finito col sentirsi pedinata, controllata; forse qualcuna, dato il recente omicidio e il sospetto calato sulla riviera, avrebbe addirittura avuto paura. Lei no. Pareva che le sue mosse fossero guidate da una forza di tanto superiore a lei, alla sua età e alle sue fattezze corporee. La stavo ovviamente idealizzando. Ma tutta la mia vita aveva finito col correre in funzione di lei, di quell’attesa di sguardi furtivi e di reciproca intesa che si stava creando, all’insaputa di tutti, contro ogni rigore di logica.
Scivolò a fianco al mio tavolino mentre stavo consumando una birra (avevo anche smesso di bere super alcoolici e di fumare, da quando l’avevo conosciuta). Si girò e mi indicò un punto sull’altro lato della strada.
Attesi alcuni minuti per non far sì che il suo allontanarsi dalla pensione fosse direttamente riconducibile al mio. Mi alzai, controllando che nessuno fosse intento a osservare i miei movimenti. Nessuno: le famiglie erano assorte nella partita di scopone, di ramino, qualcuno parlava con il vicino di tavolo mentre le mogli consumavano un gelato.
Quando fui sull’altro lato della strada, che era in penombra rispetto alla maggior illuminazione del lato della pensione, proseguii fino all’angolo. Qui, girata di spalle, si trovava Viola, che fingeva di attendere alla fermata dell’autobus. Si voltò quando sentì i miei passi. Non dicemmo nulla. Lei mi prese la mano e cominciò a camminare verso il mare. Gli echi delle onde scendevano per le vie annichiliti via via dal silenzio della notte. Pareva il russare di un vecchio. Arrivammo sulla sabbia e procedemmo fino a raggiungere la riva. Ci fermammo e ci guardammo per alcuni istanti. Poi il nostro bacio sbocciò sulla riva come il sogno fluorescente di un bambino.
Viola si era appena allontanata. Era scivolata via fissandomi negli occhi, sulla sabbia fredda e liscia. Non avevamo pronunciato una sola parola. Eppure i suoi occhi mi fissavano in un modo tale, che non avrei mai avuto bisogno di parole. Era tornata all’albergo, per non destare il sospetto dei genitori. E mi aveva lasciato sulla riva, come a dirmi “resta qui e pensa a me”. Cos’era stato quel bacio se non la promessa di un amore, intenso e primordiale, come di due anime sole fatte per congiungersi?
- Sì, eccomi qui – urlavo a me stesso, in ginocchio – mettetemi sotto quel capetto in una fabbrica di rubinetti del nord: obbedirò ai vostri ordini, sarò accondiscendente e accomodante, seguirò alla lettera le leggi del consorzio civile. Datemi un mutuo trentennale per un trilocale in periferia, un finanziamento per una utilitaria a basso consumo, le rate del frigo e della tv al plasma. Andrò a messa tutte le sante mattine, mi recherò al centro commerciale tutte le volte che avrò un istante libero! Sarò malleabile come rame, prostrato di fronte ai pochi potenti del mondo, servizievole verso i loro luogotenenti. Avrò un conto in banca e venererò il Dio denaro più ancora di quanto non venererò il Dio delle messe. E se mai vorrete farmi salire di grado, saprò essere severo con i sottoposti che mi assegnerete: li farò sgobbare promettendogli la mia stessa carriera, dimenerò sotto il loro naso tutti i giorni le effigie del vostro potere. Ma lasciate che sposi Viola, per tutti i Santi! Lasciate che la porti a vivere con me, piccola bellissima sposa, nel trilocale prefabbricato alle porte di qualche metropoli del nord!
Mi allontanai dalla riva. Il mare alle mie spalle si stava ritraendo lentamente, come un predatore che scivola nell’ombra in attesa. L’aria si era fatta all’improvviso più fredda, ma io non me n’accorsi, preso com’ero dai pensieri d’amore. Sulla strada, la strada senza lampioni che collegava in un reticolo di vie la pensione al mare, si erano spente anche le luci nelle case. Ancora solo poche luci azzurrine tremavano dietro le tende.
- Guarda che bel quadrifoglio!
Il ghigno sghembo di un barbone mi balenò sotto gli occhi. Il vecchio doveva essere sbucato da sotto un cassonetto, ma io non me ne ero accorto. Il ghigno era lì, beffardo, mi scrutava con le sue gengive gonfie come larve, agitandomi un fiore sotto il naso.
- E dai! – gli feci.
Provai a scrollarmelo di dosso, ma quello insisteva, mi tallonava brandendo il fiore e speronandomi con il gomito il torace. Cercai di scostarmi con un passo veloce di lato, ma quello agile come una cavalletta mi stava sempre innanzi. Tentai allora di guardarlo con sguardo truce, ma non si scomponeva, mi blandiva con il suo sorriso da ebete e mi respirava addosso con il suo alito di gin.
- Il quadrifoglio della verità – blaterava.
E io ancora a danzare da un lato all’altro della strada; e lui sempre a marcarmi stretto, fronte nella mia fronte.
Infine smisi di ciondolare. Mi fermai di colpo e quello si fermò con me. Come avesse finalmente la preda in pugno, si ricompose, fece un passo indietro e fissò un punto dietro le mie spalle.
- Tutto sa il quadrifoglio della verità. Verde magnifico come la sempiterna primavera – parlava da sotto la barba umidiccia, con un tono mefitico, trascinando le vocali come fosse un nonno che racconta al nipote ritardato una storia – sboccia nei sogni e ci dice il futuro. Tu cerchi l’amore.
Guardavo il caso umano senza più riuscire a reagire. Tutti cercano l’amore, pensavo, capirai che bella scoperta!
-Sì, tu cerchi l’amore. E forse l’hai anche trovato. – fece una pausa e portò le mani in alto, facendole poi cadere, creando un cerchio – Ma la notte è nera, nera come una sfinge a cui hanno tagliato la testa. E la tua donna dov’è? Dov’è?
Gli occhi del barbone brillavano come biglie d’acciaio in un cranio senza pelle. Il ghigno era ora scomparso dal suo volto, cancellato dall’ombra che saliva, così mi parve, dall’asfalto.
- Oh, Santo Dio! La tua amata è ora in un posto buio – attaccò a guardarsi attorno – lontano, lontano! -
Svuotando la cassa toracica con un ampio soffio, portò la testa tra le gambe. Quando risalì, ricomparve sotto il mio naso, il ghigno sghembo e le gengive gonfie come larve.
- Un euro! – sorrise sornione tenendomi per il bavero.
Quando finalmente riuscii a liberarmi del vecchio barbone, era trascorso un lasso di tempo che non sarei in grado neppure oggi di ricomporre. Per la strada non vi era più anima viva, scomparse erano anche le luci azzurrine dei televisori dietro le finestre. Una stanchezza improvvisa mi era calata sulle palpebre. Caracollai come un cieco nel reticolo di vie. Era un buio spesso, quello che sentivo attorno a me. Ogni tanto mi perdevo. Poi mi avvicinavo (ricordo che dovevo portare gli occhi fin sotto) ai cartelli delle vie, magari avevo sbagliato strada e dovevo riprendere da capo il tracciato, come dentro il labirinto di Minosse.
Arrivai a un punto in cui persi completamente l’orientamento, i nomi delle vie si ammassavano nella mia testa, si sfilacciavano e si confondevano, si ricomponevano mischiati. Le case, i bar serrati, i marciapiedi, le luci, gli alberghi mi parevano tutti identici. La pensione me la trovai improvvisamente davanti. Come un tempio che emerge di colpo dalla nebbia.
Scivolai dentro senza badare al guardiano Sergio che stava scendendo le scale dell’ingresso.
- Buonasera signor…
- Ciao – lo liquidai ansioso di ritrovare lo spazio chiuso della mia camera e il silenzio per compiere la mia preghiera alla statua della madonna nera.
Traversai i corridoi che scricchiolavano flebilmente sotto la moquette. Le stanze erano chiuse e non vi era rumore alcuno se non il vento che passava dall’androne e saliva fino all’ultimo piano, dove la porta di un balcone veniva tenuta aperta per tutta la durata della notte. Infilai la chiave nella toppa e feci per aprire la porta, quando mi accorsi che non era necessario, perché era già aperta. Indietreggiai, per un istante, provando a ricordare se fosse possibile che l’avessi dimenticata a quel modo. Poi la aprii. La luce del corridoio illuminò una pozza di sangue ai piedi del letto. Sul materasso, il viso rigato dai capelli voltato nella mia direzione, c’era Viola. Non so dire come feci a trattenere l’urlo. Lo conficcai nello stomaco come se dovessi buttare giù una lama rovente. Avanzai di due passi nella camera. Non c’era nessun altro. Da lì potevo vedere che il suo corpo era stato trafitto da diversi colpi di lama. Non avrei mai voluto indugiare su quanto vedevo, ma non mi era dato scegliere. Sul grembo della mia amata, c’era la mia statuetta, la statuetta della madonna nera, spaccata in due.
Mi voltai. Non potevo sopportare oltre quella vista. Chiusi gli occhi e li tenni chiusi per un lasso indeterminato di tempo. Non ricordo come feci a uscire dalla pensione, così come non riesco a ricordare come trascorsi il resto della notte. Credo di aver vagato in uno stato di incoscienza per diverse ore e poi di essere crollato, stremato, ai bordi di un edificio a ridosso del mare.
Fu in quel posto che mi risveglia il giorno dopo. Il sole era già calato e dovevo aver dormito diverse ore. Un sonno che era di certo una estrema reazione della mia psiche a quanto avevo visto, una fuga dal dolore lancinante che avevo intravisto. Non appena ritornai lucido, tutto quel male mi venne addosso, mi travolse contorcendomi le viscere e stringendo in una morsa il petto all’altezza del diaframma. Colate di ansia sbrindellarono le mie vene, il vomito cominciò a colarmi dalla bocca, ma mi accorsi che si trattava della bile.
Solo quando la sera era cominciata e i lampioni costellavano le strade riuscii ad alzarmi.
Camminavo ai bordi delle strade come se il vento corresse nel canale lasciato vuoto dei palazzi e mi impedisse con il suo soffiare il procedere. Tutti i miei movimenti erano rallentati, la mia mente offuscata come da una pellicola di plastica. Raggiunsi la passeggiata che costeggiava le spiagge senza neppure sapere dove mi trovassi. Aveva cominciato a soffiare il vento, questa volta non era più la mia impressione, ne sono certo. La mia mente era un tremolare di pensieri e suoni che si sovrapponevano uno all’altro, luccicanti e ovattati. Una vecchia mi si profilò dinanzi e mi superò, dopo aver incrociato il mio cammino. Fu allora che vidi il demonio. Fu un istante: il collo della vecchia prese a girare come quello di una bambola di plastica e, quando arrivò al punto in cui il mento poteva toccare la spalla, proseguì la corsa, fino a far combaciare la linea del naso con la colonna vertebrale. E allora lo vidi: il volto tumefatto di un mostro nero, gli occhi neri senza iride e le narici dilaniate dal sangue. La fronte pareva cadere dentro le orbite e la mandibola grondava come un’altalena dalle gote. Quell’essere mi fissava senza emettere suono dalle fauci costellate di canini violacei. Distolsi lo sguardo, portandomi le mani agli occhi. Dopo essermi fermato e aver cercato un punto qualsiasi dell’orizzonte per provare a verificare la mia lucidità, riportai la vista sulla sagoma: la vecchia camminava sbandando alle carezze multiformi del vento. Di quel volto di demone non vi era più traccia.
Cominciai a correre. Luci e palazzi della città si confondevano in un bazar lattiginoso, i suoni attorno si scomponevano al respiro immutabile del vento. Corsi fino a raggiungere un’altra città sulla costa, l’ennesima città di cui non ricordo il nome. Chissà perché di questo trauma che è stato il mio soggiorno sulla riviera romagnola ho finito con il cancellare solo pochi particolari, tra cui il nome delle città. Quei paesini sul baratro del nulla, sospesi nelle loro notti di luci di discoteche, di musiche di giostre, rapiti nei baci verniciati sul mare… Tante inutili stazioni di un rosario di dolore erano diventati per me, lugubri carcasse di cemento nel vento… Da quando la mano guantata dell’assassino aveva cominciato a sprofondare il suo coltello di rabbia nelle viscere di Rosi e poi di Viola. La comparsa del demonio non era altro che la venuta di un’ombra, di un custode degli inferi sulle rovine di quei paesini sospesi sul vuoto. Quell’ombra era stata sottratta alla mia vista per tanti anni, sigillata nella statuetta della madonna nera che portavo sempre con me, nella scatola d’avorio. Ma ora quella mano assassina, dopo avermi strappato la donna che amavo, aveva anche spezzato la statuetta.
Il demonio era una maledizione che mi portavo dietro fin dalla nascita. Nacqui settimino e, non avendo sufficienti energie, passavo da un malanno all’altro, finché non caddi vittima di una malattia che nessun dottore riusciva a curarmi. Mia madre, una donna religiosa, con la casa tutta piena di santini in ogni angolo e le croci agli usci delle porte, decise di recarsi da una maga. La maga era una vecchia che viveva in una minuscola casa, tra i boschi che cintavano i paesini sulle rive di un lago. La vecchia mi visitò per diverse ore (io ero troppo piccolo per ricordarlo e questi avvenimenti li riporto sulla base dei racconti di mia madre). Infine alzò il mento al cielo.
- Il bambino è stregato dal demonio.
Mia madre si fece il segno della croce e chiamò a raccolta tutti i santi.
- Il bambino è stregato dal demonio – continuava a ripetere la vecchia maga.
La maga si alzò, dopo avermi posato su un tavolo, prese la mano di mia madre e di mia zia, che era venuta ad accompagnarla, quindi le fece sedere a un tavolo. Prese le carte da un cesto e le rovesciò a casaccio. Quindi cinse il collo e i lobi di mia madre e mia zia con collane di perle e orecchini d’argento. Infine prese le loro mani e invitò a fare lo stesso tra di loro, in modo da formare un cerchio. Cominciò a parlare, gli occhi chiusi e il mento rivolto verso il cielo.
- Venere che dormi sotto il lago, Venere nera che piangi lacrime d’avorio, parlaci nei nostri sogni con preghiere cantilenanti. Nei nostri vespri abbiamo fatto dono al tuo ricordo, con lame di coltello sacrificato sangue vergine. Venere nera che stai sotto le acque del lago, guardaci. Scura e circolare come la notte, Venere nera, scura e circolare come il volto del lago… Salva questo bambino dal demonio. Salvalo, noi ti preghiamo. O venere nera del lago, che sotto le acque canti la tua solitudine beata, salvalo.
La maga aveva aperto gli occhi. Fissava ora un idolo nero alle spalle di mia madre, sugli scaffali impolverati. Era la mia statuetta.
- Demone, la tua anima sia imprigionata nelle viscere della piccola madonna nera. Lascia il corpo di questo bambino. Fino a quando la statuetta resterà integra, tu sarai suo ospite e prigioniero.
Durante l’infanzia, mia madre mi insegnò a tenere sempre con me la statuetta, ad averne cura. Mi insegnò anche (ma questo credo fosse una sua iniziativa, dato il suo forte spirito religioso) a dedicarle una preghiera nelle ore in cui calava il sole. Solo quando divenni più grande, e il mio animo non era più così impressionabile, mia madre mi spiegò quale fosse l’origine della statuetta e a quale episodio della mia vita fosse legata.
Così, quella statuetta era la mia fedele compagna di vita, il mio idolo da conservare gelosamente e da pregare, la sera. Ora era stata spaccata dalle mani insanguinate di un folle assassino. E, come il vaso di Pandora, lo spirito demoniaco che celava nelle sue viscere, era stato riportato alla luce.
Dovevo trovare un rifugio. Cominciai a realizzare questo pensiero soltanto quando già era alta la notte. Per pochi istanti la ragione si era aperta un varco nel turbine di immagini e pensieri nebulizzati che mi scuotevano la mente.
- Alla pensione tra poco troveranno il cadavere di Viola in camera mia – dicevo a me stesso – a breve la polizia sarà sulle mie tracce.
Cercavo di salvare questo semplice pensiero in qualche angolo residuo di razionalità all’interno del mio cervello. Con tutte le forze cercavo un pezzo della mente che non fosse contaminato dal caos. Poi, però, il nome di Viola cominciava a suonarmi nella testa, rivedevo il suo volto inchiodato al letto, il sangue. Un dolore smodato inondava nuovamente le vene, sentivo che parti di me si spaccavano come tronchi di legno.
(4 – continua)