Il thriller italico anni ’70 è un monumento centrale dell’immaginario ermetico, linguaggio penetrato nel cinema e lì rimasto, incapace di attecchire in letteratura (“I racconti di Dracula” copieranno su carta i sintomi del gotico italico o Hammer, pochissimo – e male – il thriller).
Fu una tabula rasa che accadde nella parentesi di piombo di quel periodo, tra stragi, golpe, Br, afa di lacrimogeni.
La P38 mutò in un rasoio calzato dal cadavere di una mano, ossia dal guanto surrealista della grande trasformatrice, la Morte!
Il planisfero del thriller ha pure una musica cosmica.
Trans Europa Express.
Ferrio.
Orlandi.
Umiliani.
I De Angelis.
Melodie sublunari fatte di armonia e numero, tetragrammi perfetti, cerchi genesi al cui centro è nascosto un punto luminoso in cui tutto è celato e non diffonde alcuna luce.
Torniamo a casa.
Torniamo al thrilling all’italiana, ai suoi lampi surreali, al connubio di morbosità, sesso e morte.
Agli occhi di bambola di quelle femmine, truccate in modo preciso (non come oggi, coi tratti somatici annegati da una non-luce televisiva d’obitorio), con calze nere, vizi e anime di ghiaccio.
Torniamo a quel decennio, al suo consumare, bruciare, qualunque speranza di reale rinnovamento.
Torniamo ai gialli-sexy.
Al lounge di quelle musiche.
Ai paesi di provincia.
Alle città anonime e borghesi.
A quelle storie da fotoromanzo censurato.
Scritte e girate, il più delle volte, da artigiani che passavano da un giallo a una commedia o un poliziesco senza colpo ferire.
(…)
Così scrivevamo in due precedenti articoli dedicati al thrilling degli anni’70.
E dopo? Nel decennio a venire? Negli anni ’80?
Molti considerano una forte cesura tra le pellicole dei ’70 e quelli della Milano da bere. Molti studi importanti segnano come data di fine il 1982, con Tenebre di Argento. E’ innegabile che vi siano delle differenze evidenti tra il modo di concepire un giallo tra le due decadi, tuttavia non crediamo corretto considerare il thrilling degli anni ’80 un figlio bastardo o minore. Esso risponde alle spinte d’una società che cambia pelle, generando nuovi valori, nuovi modi di vivere. E se il thrilling degli anni ’70 somma dentro di sé più impulsi (il cinema d’autore, la poesia, il jazz, la canzonetta pop, la commedia, l’eros & thantos, la modernità e il benessere economico del dopo boom), quello degli ’80 si radicalizza, concentrandosi maggiormente sul thanatos, sulla grafica splatter e un’estetica fotografica più uniforme, flou, da videoclip.
Dedichiamo un piccolo spazio della Zona a questi cambiamenti.
Il thrilling ’80 si muove su uno scenario mutato rispetto a dieci anni prima. Si può parlare compiutamente di thrilling postmoderni, intesi come postumi rispetto al canone delle morti che accarezzano a mezzanotte o camminano coi tacchi alti. Questi thrilling sono qualcos’altro; il loro scenario è caratterizzato dal disordine, dalla discontinuità, dalla contaminazione. Del post-moderno hanno la frammentarietà (una regia, una fotografia, un montaggio che spesso imitano i modi sperimentali, di libere associazioni del videoclip) della messa in scena; la superficialità dello sguardo (storie banalissime, già fiacche, stanche, con poca inventiva, tuttavia rivitalizzante dall’estetica della messa in scena o dall’euforia da emittente privata che si respira tra i personaggi) che non cerca significati altri, profondi, bensì s’accontenta di costruire degli universi narrativi piatti, decorativi; l’ironia demenziale, televisiva, di molti film (testi), affidata all’insulsaggine dei personaggi o all’esaltazione parodia della regia.
In molti film degli anni ’80 i registi si sentono di lavorare sulle macerie del cinema thrilling precedente, sentendosi autorizzati a esasperare i linguaggi, abbandonare definitivamente ogni pretesa di verosimiglianza e abbandonandosi a un gioco di stile, di pastiche citazionistica (e in questo senso il lavoro di Argento, Bava, Soavi è molto rappresentativo).
Insomma, questi thrilling post-moderni (diciamo dal 1980 al 1989, anche se già verso la fine dei ’70 si poteva cogliere qualcosa di questo cambiamento produttivo, magari in Trauma di Gianni Martucci del 1980, ibrido con uso del plot evidentemente privo di varietà, già slasher) usano l’ermeneutica della paura, dell’angoscia per raccontare (involontariamente certo, in quanto Bava, Argento, Soavi sono autori nella tecnica, non certo per finezze intellettuali) un mondo postfordista in cui i mercati traboccano dai naturali confini nazionali e si mondializzano, frammentando il lavoro (e i lavoratori) in un universo flessibile, atipico, molecolare, unito dall’estrema fragilità dei loro diritti, del loro tempo libero.
Certo il thrilling non mette in scena i piani bassi (ma questo, con le sue belle donne-bamboline hostess giramondo sempre attorniate da bei guaglioni dallo sguardo spermatico come George Hilton, non lo faceva nemmeno quello dei ’70) della catena di montaggio, tuttavia mostra ampiamente un mondo dedito al calvinismo e al capitalismo produttivo oltre ogni limite, oltre ogni morale. L’idea del lavoro che nobilita l’uomo (anziché alienarlo) s’arricchisce col nuovo mito del web, del digitale, di cui questi thrilling sono anticipazione (Argento brutalizza i suoi set, anelando il momento in cui potrà seguire i percorsi di un coltello dentro la pelle, fino all’esofago della sua vittima, perdendosi nel racconto delle carni che si spaccano anziché nella cronaca d’una storia di relazioni qualunque, e questo s’avverte già in Opera, pellicola spettralmente scopica) e vessillo.
L’Italia è diventata un paese di piccole imprese, di sommerso, di piccoli egoismi individuali. Derive agricole, lavoro nero, nuovi imprenditori senza peli sullo stomaco, assenteismo e doppi lavori degli statali, i simulacri delle regioni, il qualunquismo dei dipendenti pubblici e il fallimento generale del sistema partiti. Questa la miscela del “riflusso”, della fine del linguaggio collettivo, di lotta, dei ’70. Basta con le ideologie. A cosa sono servite? A cambiare in meglio il paese? No. Allora tanto vale divertirsi, risolversi i problemi in proprio, magari truccando le carte alla faccia del prossimo. Se io non pago le tasse ci sarà sempre un fesso che lo farà. E così, mentre il terrorismo raggiunge il suo apice fin verso il 1982, il mondo guarda altrove. L’atmosfera italiana s’adegua e muta. La speranza in un cambiamento generale della società è tramontata, langue in piccole sacche politicizzate, per il resto gli italiani ne hanno le tasche piene e rifiutano in blocco la politica. I prodromi della fine delle Brigate Rosse e dello Stato lasciano sul selciato una valanga di morti e le sirene della polizia lacerano per un’ultima volta le città italiane.
E mentre la nebulosa del piombo si spegne, ecco emergere le prime luci strobo delle discoteche, nuovi templi in cui celebrare il proprio ritrovato privato. Alle assemblee si sostituiscono le piste da ballo, alle grandi fabbriche sovvenzionate dallo Stato le piccole aziende, i piccoli imprenditori. Alla violenza delle bombe quella metafisica, post-moderna, d’una memoria lacerata, piena di buchi, non raccontabile. Il divertimento è l’epitaffio della Repubblica, e sarà come se avessero vinto certi gruppuscoli reazionari di estrema destra. L’Italia delle emittenti private è assolutamente incredibile, surreale, priva di qualunque ideale, impegno. Alla partecipazione collettiva alla società si sostituisce la partecipazione individuale ai programmi tv come concorrenti. Un modo per partecipare all’euforia collettiva. Al nuovo boom dell’ottimismo. E mentre gli italiani seguono Ric & Gian o i culi delle soubrette, i socialisti si concentrano sul Palazzo, inaugurando la politica della leadership, basata sull’appeal del capo aggressivo, sessuale, ottimista per principio. Un leader che intona il suo canto a un’Italia nuova, lussuosa, che rinasce ogni mattina e che pulsa come un cuore. Un’Italy del lavoro, tanto, troppo, ma prezioso come l’oro. Un’Italy generosa, che ti mangia e ti divora. Italy che ti adora, positiva, ottimista, efficiente. Italy-Ramazzotti da vivere, da sognare, da bere. Nell’hinterland si diffonde il settore terziario, l’abuso del terziario, il fiorire di università dedicate al terziario. Sembra che non ci sia più bisogno di gente con la vanga in mano (salvo poi rettificare trent’anni dopo, a guasti tracimanti, con le trasmissioni tipo linea verde che incensano i giovani che mollano lo studio per tornare al primario, alla terra da zappare perché non c’è più lavoro), bensì di informatici avanzati, magici. O di ragazzi nel fashion system. In questo mondo di superfici, l’inquietudine scivola sotto pelle, si mimetizza col tessuto sociale.
Il thrilling non smette di raccontare efferatezze criminali, solo le contestualizza a un paese in pieno carnevale. Un paese distratto che finge di non aver più paura del domani. E del suo presente.
Abbiamo già detto dal punto di vista estetico.
Il thrilling anni ’80 è meno colorato, vario rispetto a quello precedente.
Le trame si semplificano.
Divengono dei canovacci.
I personaggi/attori sono sempre più piatti. Senza psicologia.
La moda americana dello slasher si fa molto sentire.
Ciò che conta sono i morti ammazzati, maciullati nella foga splatter degli artigiani del lattice.
Le sonorità si fanno elettroniche, cupe, minimali.
Neurili.
Claudio Simonetti sarà il capofila con la score di Tenebre.
Seguito da Carlo Maria Cordio.
Francesco De Masi.
John Sposito.
Molti registi degli anni ’70 continueranno a girar thrilling, tra loro Martino, Lenzi, Argento, Fulci, De Martino, Deodato, Milioni. I nuovi autori saranno Lamberto Bava, Michele Soavi. Numericamente la produzione non sarà più la medesima. Il thrilling sopravvive tra i generi, ma ha perso definitivamente il primato avuto tra il 1970 e il 1973. Tuttavia i gialli girati tra il 1980 e il 1989 saranno di più rispetto a quelli approntati nei vent’anni a seguire. Per questo il laboratorio del thrilling degli ’80 non è affatto da sottovalutare.
Veniamo ai film, ora (per quanto riguarda i due lavori ispirati dalle gesta del mostro di Firenze, rimando agli articoli scritti per la Zona).
BUIO OMEGA di Joe D’Amato. Slasher necrofilo, tra le opere più belle di Joe. Malato. Grafico. Esasperato. Un bel fumettone tipo Oltretomba.
ASSASSINIO AL CIMITERO ETRUSCO di Sergio Martino. Noioso. Lento. Piatto. Con dei momenti d’atmosfera e una Volterra misterica. Ancora un pochino anni ’70.
TENEBRE di Dario Argento. Da molti considerato l’ultimo film del filone “puro” del thrilling italiano. La luce domina la scena, gli omicidi vengono perpetrati di giorno. Ma è una luce bianca, da pomeriggio al supermercato, e la pellicola trabocca di anonimato, manichini in piedi dietro le vetrine e sangue che odora di conserva. Un’umanità fattiva e senza anima, un dispiegarsi del tempo in oblungo, in verticale. Su questo bianco anonimo senza fine e senza tempo che sono le nostre vite domina, sola, la morte.
LO SQUARTATORE DI NEW YORK di Lucio Fulci. E’ la vera e propria ouverture del thrilling anni Ottanta. La città italiana evapora, in favore della megalopoli statunitense. I colori si fanno più vivi, le musiche perdono il lounge, i delitti si fanno più efferati, l’assassino è ovunque, è veloce, spietato. Soprattutto, la mano guantata è slegata dal contesto, opera a pieno regime su tutto il territorio urbano, di giorno, di notte, in casa, in metropolitana, nell’autolavaggio. I personaggi non sono che manichini pronti a essere gettati via. Domina il tema della velocità, i momenti morti sono, se non estinti, per lo meno ritagliati, il ritmo da seguire è quello della megalopoli che pulsa, che non dà spazio. Per alcuni istanti, si potrebbe pensare che è proprio lei, la grande mela, a uccidere…
LA CASA CON LA SCALA NEL BUIO di Lamberto Bava, del 1983. Minimale, tutto sembra ridotto all’osso, come certi dischi d’elettronica. Pochi personaggi, una sola location, una trama esile ma densa di richiami. C’è il trauma. C’è la violenza grafica, la paura. Bava è al suo apice. E La casa rende esplicite le differenze coi thrilling dei primi ’70, con quella luce abbacinante e quell’aria di non so che, di vacanza, di perenni viaggi. In molti thrilling dei ’70 le belle donne (truccate come bamboline, con gli occhi grandi e le ciglia lunghe) sono sempre con la borsa in mano, pronte a schizzare da un jet-set all’altro. Dalle studentesse di Torso, alla Susan Scott giramondo, l’aria è quella di un bel mondo assolato, estivo, caldo, in un perenne movimento di bossa nova, beat, easy tempo, J&B; frequenti sono le panoramiche in macchina – per prendere metraggio – sui litorali italiani o stranieri; le donne (e gli uomini) del thrilling anni ’70 viaggiano lungo la penisola, magari con mani guantate al seguito. Un film già tardo come La sorella di Ursula (1978), con la sua bella Amalfi e l’albergo a picco sul mare ne sono un esempio. Già solo due anni dopo, con Giallo a Venezia, i thrilling hanno perso quella patina vintage dei ’70, sono altro. La casa con la scala nel buio sembra distante anni luce da quelle pellicole, da quel mondo diegetico. Tutto chiuso, una luce bianca, fredda, d’obitorio televisivo. In questo il film pare ambientato nel medesimo mondo di Tenebre di Argento. Un mondo vuoto, spopolato da qualche catastrofe, ricostruito su una classe media (catodica) diffusa sull’azzeramento e la scomparsa della altre classi sociali, del concetto stesso di classe. Non c’è turismo nel film di Bava. Bensì un mondo analogico, tecnologico, ma d’una tecnologia oggi pesante, inservibile, risibile. Un mondo parallelo di vuoto e consumi, di taglierini, ville vuote – simulacri d’una modernità alla portata di tutti – e una città anonima, senza storia, senza rural landscape. Il nocciolo poi è il medesimo, con un individuo che esce dalla norma, col suo bel trauma che lo porta ad ammazzare a rasoiate. Ma la parabola di questo assassino è più vicina all’alienazione e all’emarginazione di un contesto urbano che a certi sovversivi killer degli anni ’70.
MURDEROCK (vedere Zona di Gordiano Lupi & As Chianese).
CAMPING DEL TERRORE di Ruggero Deodato. Da qualche parte ne abbiamo già parlato, forse riguardo al mostro di Firenze.
DELIRIA (1987) di Michele Soavi, soggetto e sceneggiatura di Luigi Montefiori, è uno dei cult del thrilling anni ’80. La produzione (e parte della fotografia) è di Aristide Massaccesi. Il cast è ottimo, ben sorretto dalle prove di David Brandon, Barbara Cupisti, Giovanni Lombardo Radice che donano sfumature a personaggi bidimensionali. La storia si confronta col contemporaneo trionfo dello slasher americano, tuttavia il regista milanese mette energia e colore nella messa in scena; si parte con intelligenza filmando una sorta di grand guignol al neon e musicarello e si finisce col palco ricolmo di corpi straziati dalle lame fantasiose del mostro, un simil Jason con la maschera del barbagianni! In mezzo, la solita combriccola teatrale composta da un regista cocainomane e sopra le righe, attricette puttane e un produttore puttaniere. Le battute sono quelle sgangherate del genere, esasperate dal blob televisivo. E Deliria è questo: un prodotto mascherato da film americano, fintamente girato nella provincia americana, sui gusti americani, per intrattenere un pubblico giovanile, distratto, incasinato, abituato ai culi delle ragazze fast-food del Drive in di Antonio Ricci. Il brutto, la pecca, di Deliria è che visto una volta te lo ricordi bene e finisce per stufarti. Il plot è parecchio scontato, già abusato allora, nel 1987.
LE FOTO DI GIOIA di Lamberto Bava. Sciatto, tirato via, con poco thrilling e molto erotismo da ingrosso. Trama risibile e pornazza. Effetti delirio con le soggettive dell’assassino che vede le proprie vittime come insetti. Eppure questo film racconta di più l’Italia del tempo di 100 Sotto il vestito niente.
OPERA. Dario il Grande, con le tasche zeppe di quattrini, sfodera uno dei suoi migliori film, forse il migliore per potenza e capacità di regia, e ci consegna quello che è l’ultimo dei suoi grandi lavori. A dominare è l’immagine, sapientemente orchestrata da una telecamera nervosa, immaginifica e baritona. Lo sguardo trionfa su tutto: siamo condannati a vedere, a essere presenti, a farci violentare da ciò che ci circonda. Il killer obbliga la protagonista ad assistere agli omicidi, infilandole gli aghi nelle palpebre; parimenti, il regista induce lo spettatore a essere proiettato nella dimensione violenta e manichea da lui proposta. Gli anni Settanta sono distanti mille miglia e a dominare è un’atmosfera che risente dello slasher americano, con i suoi cambi repentini di ritmo, le inquadrature sincopate, le musiche distopiche, i colpi di scena improvvisi. Sono decadute le colonne sonore lounge, i momenti morti, le figure femminili portatrici di una sessualità disinvolta e leggiadra, la comodità borghese. Trionfa la violenza visiva, figlia di una diversa concezione della società, ora più camuffata, soffocata, distratta… Conta meno anche il trauma, che ora diventa meno psicologico, meno centrale, meno inquietante. Conta uccidere, versare sangue, e, soprattutto, mostrare tutto questo. Opera è il più grande thriller degli anni Ottanta e simboleggia proprio tutto questo: l’abbandono del canone italiano, in favore di quello a stelle e strisce.
NON APRITE QUELLA PORTA 3, meraviglia di Claudio Fragasso (o Fracasso?). Provincia americana. Slasher. Appartamenti da ceto medio. Signorotte imbolsite. Disperate housewifes pre-porno casalingo. Un maniaco che le insulta in modo divino. S’intrufola nelle loro cucine gigantesche e bianchicce. Mina le loro sicurezze, le loro carte di credito. Le violenta per bene. Le ammazza. Tutto tirato via, con trucchi da cartolaio. Il titolo che non c’entra un casso. La sceneggiatura che nemmeno esiste. E un regista mediocre all’apice della sua mediocrità. Eppure. Lo vedi e ti diverti come un pazzo. Almeno all’inizio – diciamo i primi venti minuti – col maniac gigione che anticipa quello altrettanto loquace di Scream.
MORIRAI A MEZZANOTTE di Lamberto Bava, 1986. La sceneggiatura è di Bava e del veterano Dardano Sacchetti. E la sceneggiatura è un po’ troppo secca, appiattita su cliché da fumetto. I dialoghi poi sembrano improvvisati. La regia di Bava è già televisiva (infatti il lavoro è prodotto da Mediaset). Tuttavia Lamberto Bava è uno dei maggiori autori di thrilling anni ’80 e anche questo prodotto conserva molti elementi di fascino assoluto. Anzitutto è un film ancora graffiante nelle scene di violenza. Inoltre la messa in scena sottopone il plot a una astrazione formale, tale da azzerare la soglia della verosimiglianza (una ragazza, aggredita in pieno giorno dal killer, sull’auto, riesce a scendere, apre una porticina e si ritrova in un teatro fatiscente, onirico). Le spiegazioni procedurali della polizia (tanto care ad autori contemporanei di thrilling come Michael Connelly) sono inesistenti, affidate a un Paolo Malco da saldi di fine stagione. Ciò che conta, più che la trama, sono gli ambienti, le atmosfere. Una Perugia ancora provinciale, storica, contraddetta da interni sciatti, percorsi da luci bianche, mortuarie, televisive. Abitazioni senza gusto, da ceto medio, nuova istituzione politica del paese, priva, rispetto ai grandi soggetti sociali dei ’70, di una riconoscibilità, di una identità forte e, per questo, facilmente orientabile nei gusti e nei consumi. Alla sciatteria degli interni, dei personaggi, si frappongono squarci atmosferici di rara potenza: l’albergo nebbioso, di fine stagione, in cui si rifugiano le 3 studentesse nel finale; il museo di antropologia criminale, coi suoi crani di criminali sotto formalina. Altro pregio indiscusso del film è la figura del killer, un tale Franco Tribbo, in cui si scorgono richiami forti alla vicenda del mostro di Firenze. Tribbo lacera le vagine delle ragazze con rompighiacci e frullatori; inoltre invia un lembo di pelle d’una vittima al poliziotto Paolo Malco per sfidarlo, esattamente come farà lo psicopatico fiorentino con la busta contenente un pezzo di seno di Nadine Mauriot alla dottoressa Della Monica. Ultimo aspetto: alla fine si scopre che l’assassino è la criminologa (una scialba e bruttissima tizia), ossessionata dalle gesta del vero Franco Tribbo, ormai morto e sepolto. Alla base del transfert uno stupro subito dalla criminologa, proprio come capiterà alla Anna Manni de La sindrome di Stendhal.
7 HYDEN PARK di Alberto De Martino.
MASSACRE di Andrea Bianchi. Una roba divertente e splatter, col redivivo Jack lo squartatore.
CARAMELLE DA UNO SCONOSCIUTO di Franco Ferrini, l’uomo di tanti script anni ’80 con Argento. Qui, la mano guantata di un assassino seriale in bicicletta e armato di lama terrorizza il mondo della prostituzione da strada e d’appartamento. Le musiche inquietanti e suspence di Smaila fanno da cornice, quasi una litania, alle efferate esecuzioni lama alla gola del malato di turno. Perdono la vita sul posto di lavoro diverse entreneuse e il maniaco è sempre lì, in bicicletta e pronto a tagliare gole.
La risposta del microcosmo delle prostitute partorisce una comica strategia comune, con le bellezze delle commedie di Berlusconi a tentare una sorta di sindacato del marciapiede, impavide e unite come il partito comunista.
L’atmosfera tiene, grazie a una regia agile, e ai discreti momenti thrilling. Il finale, poi, fa prendere quota al film: torna il rimosso, torna il trauma argentiano e l’assassino altro non è che la figlia di una di queste prostitute, obbligata anche lei a vendere il proprio giovane corpo. Il raptus finale dell’omicida, il suo svelamento, rimandano dritti agli anni Settanta di Quattro mosche di velluto grigio.
Sono cambiati i colori, è cambiata l’atmosfera, è cambiata, soprattutto, la propensione del film (il tema del varietà catodico, ora che l’elemento atmosferico del thriller conta di meno, prende il sopravvento), ma il thriller anni Ottanta riesce a proseguire anche attraverso pellicole del genere, più soft e televisive. E’ un filo sottile, che regge l’urto del tempo attraverso gli anni bui degli anni Novanta e che finirà con il consegnarci, poi, con gli anni Zero e la seconda decade del Duemila, i capolavori sommi di Tulpa e Amer.
LUNA DI SANGUE di Enzo Milioni.
PHENOMENA di Dario Argento, 1985. Siamo in piena emergenza mostro di Firenze. L’ultimo, atroce, delitto, è del 9 settembre del medesimo anno. Non si parla d’altro. La compagna del regista romano, attrice anche nel film, rilascia una intervista alla Nazione del 27 ottobre. Dice Daria Nicolodi: “L’idea è nata in agosto, mentre preparavo un documentario sull’argomento. All’improvviso ho mollato tutto e mi son messa a lavorare al film come spinta da una forza medianica. Ho condotto una mia piccola indagine privata e ho scoperto che la polizia dispone di un identikit inedito, fornito dalla figlia di un uomo politico”. Argento invece condirà gli spunti reali con la storia quasi fiabesca d’una splendida Jennifer Connelly catapultata in una Svizzera futuribile, tanto incantevole quanto spaventosa. Phenomena è un ibrido tra il thrilling e l’orrore splatter di tanto cinema americano (su tutti Tobe Hooper e Wes Craven). Argento immagina di una mostro che imperversa nella regione, ammazza ragazzine e ne conserva delle parti, dei feticci. A colpire l’immaginazione del regista è l’aspetto entomologico, ossia l’utilizzo degli insetti per calcolare la morte di un soggetto. Tra riutilizzi di vecchi plot (il collegio di Suspiria), i doppi finali, Argento continua il suo percorso negli ’80 con un film meno efficace rispetto a Tenebre e al monumentale Opera, ma che contiene i prodromi di un nuovo stile, lontanissimo dalla regia arty di Profondo Rosso. Qui non si guarda più ad Antonioni, bensì al videoclip, alla musica metal (fonte di suggestioni capaci di caricare le immagini d’una carica rampante, aggressiva, anti-narrativa), alle innovazioni tecniche del mezzo filmico (in attesa del digitale). Le parti migliori del film sono nell’incipit, con la casa isolata e il maniaco in catene, le sequenze con protagonista uno splendido Donald Pleasence e il finale grand guignol. Phenomena è un film veloce e ingenuo, che tradisce la voglia di Argento di sintonizzarsi con le nuove platee giovanili, di identificare il proprio candore elegiaco con quello dei nuovi paninari televisivi. E da qui il personaggio della Connelly, ennesima adolescente danarosa e trascurata, costretta a inventarsi una fiaba horror in cui trovare nuovi amici tra scimmie e insetti.
UN DELITTO POCO COMUNE di Ruggero Deodato. Molto originale nella trama.
NIGHTMARE BEACH di Umberto Lenzi, robetta da spiaggia demente e cogliona.