“…sono certa, signor Bini, che la notizia darà una svolta alla sua carriera. Per un promettente e temerario reporter di nera – brillante vincitore del Premio “Cronache a Sud” – ma tuttora locale (sottolineò locale) non è cosa da poco. Io, dal canto mio, entrerò nella storia dell’archeologia”.
Più che altro conoscendone cinismo e cupidigia, pensai le interessasse soltanto divenire ricca e potente.
Sara Cubi, direttrice del Museo Magnogreco dello Jonio – famelica mangiatrice di uomini nella cui lista annoverava anche Tuccio Faccendieri – corrotto ministro dei Beni Culturali – mi guardò con atteggiamento provocatorio.
Era poggiata a braccia incrociate sul bordo della sua raffinata scrivania in stile liberty. Alle sue spalle, appeso al muro, in una grande foto primi anni del ‘900, risaltava il ritratto di un uomo bizzarro con una folta chioma grigia sparata a raffica alla Einstein.
La donna, spregiudicata e piacente, chiusa in uno dei suoi tailleur bordò, che le modellava perfettamente la superba figura, con gesto studiato si sedette e accavallò le lunghe gambe.
Deglutii scrutandole dapprima nella camicetta sottile socchiusa sui seni pieni, per giungere allo sguardo fatale dei suoi selvaggi occhi verde cinabro.
Si tirò indietro i lunghi capelli di un rosso seta. Inalò dalla sigaretta sottile e avvicinò le labbra tumide a due centimetri dalle mie, soffiandomi il fumo in faccia. Poi con voce sensualmente arrochita mi chiese “Ci sta?”, mentre con un dito mi sfiorò una mano. Quindi risalì lentamente per l’avambraccio tastandomi il bicipite per soffermarsi sul pettorale.
“Però…muscolatura ben definita e non si direbbe visto gli occhialetti modello intellectual”, soggiunse con scherno ma al contempo lasciva.
“Le sorprese sono il mio forte – replicai con un sorriso forzato a trentadue denti. Poi aggiunsi ostentando falsa modestia – per il resto si tratta di residui di qualche annetto di attività agonistica!”. La domanda di prima e il suo atteggiamento inequivocabile mi fecero pensare ai suoi paradisi carnali.
Non mi ero mai occupato di archeologia ma accettai.
L’occasione di essere il primo a scrivere sul ritrovamento – di cui da sempre si favoleggiava – della leggendaria Città Sacra intitolata a Poseidone, con tutti i tesori annessi, era a dir poco straordinaria.
“…Ma quell’Eden del passato è abitato da un demone – riprese la donna -. E’ scritto nei preziosi appunti del geniale professor Thomas Samale, da me rinvenuti”, disse indicando la figura eccentrica con i capelli esplosi della foto, mentre io le lanciavo un’occhiata interrogativa.
“Facoltoso, uomo erudito e poliedrico, fondatore di questo museo oltreché cercatore di tesori, egli sosteneva che vi fosse un anatema” – aggiunse ancora la donna con voce grave scrutandomi -, “chi entra in quel regno eclissato perirà straziato per mano del suo custode: LESAK, il Gran sacerdote del Dio, colui che strappava il cuore delle vittime sacrificate al Signore dei Terremoti e se ne nutriva!”.
“Vorrà dire che inviteremo Lamak… Lusax o come diavolo si chiama a cena, magari in un ristorante vegetariano. Chissà se cambierà idea sui cibi”, ribattei beffardo, mentre pensavo che la paura è sorella da un lato al piacere e dall’altro all’orrore. E poi – pensai ancora – assecondandola avrei potuto fruire delle sue grazie mozzafiato e ciò non aveva prezzo.
Così, quasi a volermi prendere un anticipo, allungai il collo tentando di baciarla, squilibrandomi in avanti, mentre lei con un gesto agile si scansò lasciandomi scivolare in modo goffo sulla scrivania.
“Dopo l’impresa avrà anche l’altra di ricompensa…”, garantì lei sbrigativa.
La fenditura nel pavimento
La seguivo nell’atmosfera ovattata del Museo deserto a quell’ora della sera. Ci circondava un ambiente austero e misterioso. Camminava davanti a me rapida, con passo elegante, nel silenzio del lungo corridoio tra le teche con i reperti di un arcaico passato.
Il mio sguardo cadeva spesso, per un riflesso condizionato, sul suo eloquente fondoschiena.
Da fuori si iniziò a udire un ritmato ticchettio di pioggia. In breve grosse gocce batterono fitte sui vetri e da lontano arrivò forte l’eco dei tuoni.
Si annunciava una tempesta.
Cattivo presagio – pensai.
Prendemmo una scala che scendeva a chiocciola nel caveau.
Avevamo pattuito che non avrei portato con me la macchina fotografica: “Niente foto per ora – aveva detto perentoria la Cubi -, per il servizio tutto dovrà essere concordato”, in quella fase non potevo che assecondarla. Così per il primo sopraluogo teso essenzialmente a localizzare l’ubicazione del sito ci eravamo muniti di un minimo di equipaggiamento, tra cui potenti torce da speleologi. Ce ne servimmo immediatamente, dopo che un fulmine sconquassò l’impianto elettrico del Museo.
“Come certamente saprà, signor Bini, questo Museo risale agli inizi del secolo scorso. Il fondo iniziale fu costituito dalla collezione privata del professor Samale. Fu lui che fece realizzare in quest’area il suo museo personale, infatuato com’era della colonizzazione greca. Ma lo volle anche in prossimità del Mar Jonio per guardare quella che definiva La Spiaggia degli Dei. Qualche anno fa, poi, l’ultimo discendente vendette tutto allo Stato”.
“ Certo, grazie ai buoni uffici del suo amic… ehm… volevo dire del ministro Faccendieri che fece acquistare il museo allo Stato per una somma strabiliante …”, si vociferava che l’uomo politico, come suo costume, avesse ricevuto una rilevante tangente per avallare l’operazione.
Lei mi guardò in tralice, poi continuò dando a intendere di non aver udito.
“Ma quello che lei non sa è che il professor Samale aveva fatto realizzare questo stabile all’ingresso del luogo più prezioso dell’antichità: la Sacra Città dei sacrifici intitolata al Dio degli Abissi nella quale sono stipate immense ricchezze si troverebbe proprio sotto i nostri piedi!”
Trattenni il fiato. Non dissi nulla e diressi il fascio di luce sull’impiantito, chiesi:
“Chi ne è informato?”
“Io soltanto… e adesso lei ovviamente”.
“Come e quando è avvenuta la scoperta?”
“E’ presto detto. Tutto era rimasto come ai tempi dell’istituzione da parte del professore, ma poi, lo scorso anno ci fu uno straripamento del fiume Bradano“.
“Certo, lo ricordo”
“…che allagò i sotterranei del Museo. Quando la furia delle acque si ritirò aveva lasciato una grossa crepa nel pavimento sotto il quale erano emersi dei segni
che solo un esperto poteva decifrare. Non ne parlai con nessuno e feci mettere tutto in sicurezza raccomandando alla ditta di eseguire dei lavori contenuti, casomai, in seguito si fosse deciso di avviare eventuali scavi. Al contempo avviai alcune ricerche tra le carte di Samale e scoprii che egli stava seguendo alcune tracce: l’ingresso alla magnifica Città Sacra edificata sulle rive dello Jonio che – si narra – venne sepolta da un maremoto per un impeto di ira del Dio stesso il quale accusò i suoi abitanti di non venerarlo abbastanza”.
“Ma ci sono collegamenti con Poseidonia, l’antica città sulle sponde del Tirreno?”, il giornalista faceva il suo mestiere.
“Probabilmente la città realizzata molto tempo dopo sul Tirreno e successivamente ribattezzata Paestum dai Romani fu fondata per riprendere il culto del Dio ma non aveva assolutamente nulla dello splendore e delle ricchezze della Città Sacra precedente”.
“E invece qui cosa successe?”, continuai con le domande.
“L’affascinate ipotesi di Samale sosteneva che per far cadere nell’oblio la sciagura dovuta alla scomparsa della Città Sacra di Poseidone, dopo la fondazione di Metaponto gli stessi colonizzatori vollero realizzare – nel sesto secolo avanti Cristo – il magnifico Tempio dorico di Hera, situandolo esattamente nel punto dov’era stato il Tempio della Città intitolata a Poseidone.
“Ciò significa che il Tempio di Poseidone si troverebbero proprio al di sotto delle Tavole Palatine?” chiesi esterrefatto.
“Sì”, ribatté asciutta lei.
Detto ciò Sara Cubi si diresse in un angolo. Tornò porgendomi un piccone.
Non mi ci volle molto per smantellare la nuova leggera pavimentazione. Nel mentre altri boati provenienti dal cielo, con sempre maggiore frequenza, facevano tremare tutt’intorno.
“Sarebbe meglio tornare di sopra, dati i precedenti. E magari riprendere le ricerche quando il tempo si mette al bello”, proposi prudente.
“Mi delude signor Bini. Non pensavo di avere a che fare con un finto temerario”, il suo atteggiamento era di sfida, il tono irritante.
“Ok, come vuole. Ma non si appigli a me se qui dovesse scatenarsi un’altra inondazione. Ho smesso di fare il bagnino da parecchio”.
L’ingresso alla Città Sacra
Dall’ampia fenditura ci calammo dentro.
Quando puntai i piedi per terra mi sentii come trasportato indietro di due millenni.
Di fronte si aprì l’area sacra. Vi affioravano decine di tombe in poderose lastre di roccia tufacea vecchie e logore, ricoperte di muffa.
“Dalle caratteristiche sono certa che appartengono ai divini sacerdoti del Dio. Ciò conferma le giuste intuizioni di Samale”, affermò l’archeologa.
Si sentiva forte l’odore del mare non molto distante. A quel punto Sara Cubi tirò fuori dalla borsa che portava a tracolla una vecchia mappa, la osservò con attenzione e fece segno di seguirla.
Osservando sommariamente quelle tombe non danneggiate pensai che l’inondazione qui non fosse giunta o comunque fosse stata marginale e ciò, per certi versi, mi confortò. Qua e là erano presenti alcune pozzanghere di putrida acqua in cui strisciavano frotte di serpentelli che al nostro passaggio sibilarono infidi.
“Simpatica l’accoglienza”, mi venne spontaneo dire.
“Non si faccia mordere né sfiorare. Il professor Samale aveva appuntato e disegnato tutto quello che aveva visto. Questi piccoli serpenti appartengono a una specie che non dimora in superficie. Li aveva denominati Il soffio del male. Il loro veleno, anche con il solo contatto sulla pelle è mortale”, mi avvisò secca la Cubi.
“Allora vedrò di non importunarli troppo! Scusi ma a proposito del professore che fine fece?”
“Secondo le testimonianze del discendente poco tempo dopo l’istituzione del Museo scomparve e nessuno ne seppe più nulla”.
“Mmm… non avevo dubbi…”.
Un altro tuono risuonò cupo e forte e dal soffitto caddero dei frammenti di pietra mista con terra e sabbia.
“Secondo me il vecchio Poseidone è ormai al corrente dei nostri propositi e credo stia tentando di informare anche il fido LESAK… se non l’ha già avvisato”, dissi cercando di fare lo splendido.
“Non faccia l’idiota e mi segua. Se può confortarla LESAK si appaga nell’immolare esseri umani di sesso femminile quindi tra lei e me sappiamo chi sceglierebbe…”, fu la risposta acida di Sara Cubi.
“Beh… allora, se è così…”, farfugliai.
Frattanto alcune gocce di acqua iniziavano a filtrare dalla vecchia volta. Fuori era scoppiata una bomba d’acqua. Esitai, poi mi portai avanti anch’io, anche se tutt’intorno non sembrava promettere niente di buono.
Muti di respiro, nel silenzio funereo, attraversammo l’area sepolcrale tra grossi ratti dal pelo folto che indisturbati regnavano in quel luogo solenne.
Seguendo le indicazioni della cartina disegnata dal professore arrivammo sul margine di un’elegante cripta incisa da fregi e figure in adorazione scolpite che lodavano il Dio con il tridente.
All’interno, sul fondo vi era un portale in oro massiccio. Lo oltrepassammo e accedemmo al budello che sulla mappa era indicato come l’ingresso alla Città Sacra.
“Mi segua a breve distanza, la mappa indica un intrico di passaggi sotterranei se si perde nessuno la verrà a trovare”…
Annuii.
Detto ciò Sara Cubi puntò il fascio di luce verso il fondo e incominciammo il cammino. Dappertutto vi erano segni e iscrizioni che rappresentavano scene del Dio del mare e dei terremoti.
Trovammo sparsi ovunque cimeli d’oro e vasi intarsiati di pietre pregiate decorati con foschi rituali di immolazioni al Dio degli Abissi, che Sara Cubi accarezzava avidamente
L’ammonimento di LESAK
Procedemmo ancora nel silenzio tetro del budello sotterraneo attenti a non sbagliare il percorso indicato nella cartina di Samale. Spesso intersecavamo altri budelli che potevano confonderci, alcuni erano molto scoscesi se non addirittura a picco. Finché scorgemmo qualcosa che ci confermò che la strada era quella giusta.
In una nicchia nella parete distinguemmo una piccola statua di una creatura anfibia per metà uomo e per metà serpente marino con i tentacoli al posto delle braccia.
Aveva gli occhi spietati che sembravano scrutarci malevoli.
Sotto, quasi nascosta da una spessa coltre di polvere e ragnatele, che spazzai con il gomito, campeggiava un’iscrizione in greco antico.
Sara Cubi, sebbene avvinta dall’emozione, riuscì a tradurre le parole.
SACRILEGO FERMATI O LESAK – IL CUSTODE DEL DIO POSEIDONE – TI CAVERA’ IL CUORE TRASCINANDOTI NEL BUIO DEGLI ABISSI
“E’ il cupo ammonimento di LESAK a chi intende violare le vestigia della Città Sacra”, disse lei con la voce incrinata da un lieve tremore.
Al termine dell’iscrizione sulla parete vi era un grosso simbolo, sembrava un guscio di chiocciola con i cerchi concentrici interni sempre più piccoli che, per uno strano effetto ottico mulinavano. Dapprima lentamente poi sempre più velocemente. Come uno strumento dai poteri oscuri pareva ipnotizzare chi malauguratamente si soffermasse a guardarlo.
Notai che a quel punto la donna rimase immobile come fosse in catalessi.
Anch’io nel guardarlo avvertii, anche se debolmente, un richiamo ma ugualmente riuscii a distogliere lo sguardo ricacciando l’effetto ipnotico che quel simbolo trasmetteva.
Non so la quantità di tempo che passò, ma quando la donna si girò verso di me vidi il suo sguardo mutato. I suoi occhi avevano un brillio inquietante.
Dalla bocca le uscì una strana voce distante e meccanica come fosse posseduta e pronunciò teatrale:
“Andiamo, l’immortalità ci attende”.
A quel punto eravamo a una diramazione con vari condotti.
Lei non tentennò e ne infilò, certa, uno.
Mi accodai nella strettoia anche se iniziai a pensare che non era proprio una buona idea quella di continuare a seguirla. Si trattava di tornare indietro ma avevo bisogno della mappa. Lasciai andare: come sempre la curiosità spericolata del reporter di nera l’aveva vinta.
Ebbi l’impressione di sentire alle mie spalle, appena accennata, una strana folata maleodorante. Girai la testa, annusai, dietro era buio pesto.
“Dottoressa Cubi credo che qualcuno ci segua – dissi – sarà lo spettro affamato di quel simpaticone di LESAK in cerca della sua cena?”.
Lei non rise e nemmeno mi rispose.
Vuoi vedere – pensai – che mi sto facendo suggestionare dalla leggenda? Scrollai le spalle.
Scheletri
Ci addentrammo ancora nel passaggio sotterraneo. Lei mi precedeva di qualche passo.
Avanzammo perdendo totalmente la cognizione del tempo. Ci fermammo, abbagliati da ornamenti preziosi: scavate nelle pareti vi erano cripte funerarie dove giacevano scheletri, ricoperti di gioielli, che sembravano mummificati. Sicuramente si erano preservati per via dell’oscurità, della temperatura e dell’umidità dell’aria costanti. Tutti avevano la medesima caratteristica, il torace era squarciato, con lo sterno e le costole spaccate proprio all’altezza del cuore. Mi colpirono i capelli: anche se radi e stopposi erano lunghissimi. Dovevano essere spoglie mortali femminili. Non commentai ma il pensiero andò subito a LESAK.
Poi incespicai in qualcosa. Puntai la luce: un altro scheletro.
Questo però era in pessimo stato, riverso per terra in modo scomposto. Sicuramente aveva tentato una fuga, oppure aveva lottato. La bocca, divenuta un nido di blatte, era aperta in una smorfia storta e orrenda. Aveva il braccio sinistro staccato. L’altro era disteso verso l’alto con l’indice della mano, che sebbene rattrappito era puntato verso la direzione che stavamo seguendo come a indicare di proseguire. Dalla chioma sparata e ancora fitta mi sembrò di identificare l’uomo della foto d’epoca: il professor Samale. Gli indumenti e le scarpe sebbene mezzi sbrindellati erano modelli di inizi ‘900 e avvalorarono ulteriormente la mia impressione.
Anche lui aveva il torace sfondato
Ecco la fine che aveva fatto Samale!
“Mi sembra la giusta punizione per un profanatore”, biascicò sottovoce la donna.
“Ma anche noi siamo profan…”, accennai.
Mi interruppe, “Lasci perdere!”.
Riprese a camminare lenta e rigida.
Gli spazi mentali erano tutti sui nostri movimenti. Scomponevo attentamente ogni minimo rumore che mi giungeva e appuntavo mentalmente tutto ciò che in quella semioscurità riuscivo a scorgere.
Sara Cubi aveva oramai un atteggiamento innaturale come fosse richiamata da una forza occulta e procedeva senza curarsi di nulla.
In quel tunnel claustrofobico l’aria si fece sempre meno respirabile e i miei occhiali iniziarono ad appannarsi per l’umidità.
Per terra oramai era solo fanghiglia.
Il percorso divenne più aspro e sconnesso, e sempre più spesso incrociavamo cunicoli e cambiavamo direzione seguendo i segni tracciati nella mappa.
Fino a quando dal buio, ma non capii bene da dove, avvertii chiaro e prolungato un sibilo, come di un grosso serpente, con dei suoni gutturali che mi tolse il fiato. Eravamo in pericolo!
Si mette male, pensai.
A quel punto, con la donna o senza, decisi che era ora di tornare indietro e alla svelta.
“Ehi, qui diventa pericoloso si fa dietrofront. Mi dia quella mappa!”, feci per afferrare la donna, ma scivolai nella melma e le lenti finirono in un anfratto di acqua torbida brulicante di strani vermi.
Tentai di recuperare gli occhiali ma appena infilai la mano nel buco quei grossi vermi mi si attaccarono alla pelle provocandomi un dolore lancinante come mi stessero spolpando le dita e che mi fece immediatamente desistere.
“Ehi si fermi! Torniamo indietro, subito!” urlai alla donna che mi precedeva oramai di una decina di metri. Non ebbi risposta.
Mi liberai dei vermi e tentai di rialzarmi ma avevo una gamba incastrata in una cavità.
“Dico a lei!” ma era troppo tardi per tutto.
In quel buio d’inchiostro sentii il sibilo e i timbri gutturali di prima. Erano echi bestiali ruttati come da un imbuto profondo, a distanza brevissima. Mi giunse una folata nauseabonda, che si fece sempre più intensa.
Rimasi interdetto per qualche attimo ma reagii e liberai velocemente la gamba.
Feci per rialzarmi.
Ma questa volta una presa d’acciaio mi bloccò entrambe le gambe.
Girai la torcia assicurata al mio polso con una cinghia resistente e nella penombra mi sembrò di vedere una belva immonda, una specie di orrido essere anfibio: LESAK si era materializzato!
Ero abituato a spettacoli di cadaveri straziati e ad affrontare assassini di ogni risma ma a mostri ancora no!
Riuscii comunque a divincolarmi e tentai di sferrargli una serie di violenti calci con le tecniche delle arti marziali – discipline nelle quali ero stato campione – ma sembrava di lottare contro una massa viscida su cui tutto scivolava.
Poi mi agguantò nuovamente con una presa che divenne fortissima e nonostante i miei tentativi di svincolarmi, l’orrenda creatura mi stringeva con gli artigli come pinze alle estremità delle zampe tentacolari quasi a spezzarmi le caviglie.
Iniziò così a trascinarmi indietro facendomi mangiare la fanghiglia untuosa.
Le mie dita strisciavano sanguinolente sulla roccia e nella melma cercando appigliarsi ostinatamente.
“Qualunque cosa schifosa tu sia molla la presa!”, urlai alla creatura mostruosa mentre tentavo vanamente di liberarmi.
Nello stesso tempo la donna proseguiva senza curarsi di nulla. Una forza ignota sembrava calamitarla verso una destinazione precisa.
Guardai per l’ultima volta la sua silhouette sinuosa svanire davanti in uno dei tanti budelli.
In un tragico nastro vidi la rappresentazione della mia vita finire penosamente nel nero di quel labirinto.
Travolti dal fango
Si annunciò con un rumore assordante.
Tutto sussultò. Questa volta l’inondazione giunse gelida con una potenza inverosimile, come fosse franato di colpo lo sbarramento di un immenso invaso.
L’acqua rabbiosa del Bradano, sudicia di fango e detriti di ogni genere mi travolse sganciandomi dalla presa mortale.
Ne fui investito e schiacciato dapprima contro le pareti del cunicolo quindi sballottato come un fuscello. I miei muscoli erano tesi allo spasimo, i movimenti erano febbrili nel convulso tentativo di resistere alla corrente o comunque di tenermi saldo a qualche appiglio.
L’acqua scura mi trascinava e si faceva sempre più impetuosa come procedesse verso una cascata tra mulinelli che turbinavano facendomi piroettare e a malapena respirare, sbattendomi contro le pareti del passaggio segreto.
Poi il cunicolo di colpo si allargò sfociando in una gigantesca caverna sotterranea dove caddi finendo dopo un volo sott’acqua. Sempre più in fondo.
Aprii gli occhi e vidi uno spettacolo meraviglioso: la Città Sacra di Poseidone. Il Tempio con le possenti colonne, i ricchi ornamenti, i marmi, la pavimentazione con le pitture di delfini azzurri. Tutto sembrava incredibilmente intatto. Davanti al Santuario, delle stesse fattezze, altissima e predominante – da far impallidire i bronzi di Riace – si ergeva una statua titanica e perfetta che stringeva in una mano il tridente d’oro, simbolo dell’onnipotenza del Dio degli Abissi.
Sullo sfondo, poi, s’intravedevano le restanti vestigia della città sommersa.
Quasi non ci credevo, una scoperta così non aveva pari nella storia dell’archeologia, l’ipotesi di Samale si era rivelata esatta! Dovevo essere proprio sotto le Tavole Palatine e l’immenso tesoro di Poseidone era a portata di mano.
Nella confusione del momento non sapendo nemmeno se sarei uscito vivo da quella caverna pensai che era fatta: vidi la mia firma sulle prime pagine delle testate internazionali più prestigiose.
Ma l’incanto durò solo pochi istanti, i polmoni mi stavano scoppiando.
Avevo le vertigini e un disperato bisogno di aria.
Raggiunsi la superficie e spalancai la bocca per fare entrare nei polmoni quanta più aria possibile.
Puntai la torcia, ancora agganciata al mio polso. Intorno, l’acqua continuava ad allagare la grotta ed era giunta oramai a un metro scarso dal tetto della caverna.
Se non trovavo un varco per tornare in superficie avrei fatto la fine del topo.
E mentre consideravo il mio amaro destino di morte all’improvviso a poca distanza da me l’acqua schiumò e in un vortice apparve la creatura terrificante: LESAK!
Questa volta lo vidi bene e da vicino. Era una specie di anfibio con la testa triangolare e una cresta acuminata. La pelle era di un verde scuro, a scaglie, avvizzita.
Sobbalzai. Fu ancora peggio quando, di fianco a quell’essere, vidi galleggiare un corpo scomposto, con gli occhi fuoriusciti dalle orbite, che il mostro teneva per i capelli rosso seta.
Aveva il torace squarciato e il cuore strappato dal suo interno. Riconobbi quella che era stata la provocante Sara Cubi.
Sgomento tornai a guardare LESAK: i suoi occhi erano affilati, saturi di ostilità e rilucevano come tizzoni infuocati. Esibiva truci le fauci tra le quali si scorgeva il cuore sanguinolento della sventurata donna ed emanava un odore pestilenziale di putrefazione.
Non ci pensai e, abituato ai combattimenti corpo a corpo, provai a vendere cara la pelle: gli assestai una serie veloce di pugni sulla faccia che rimbalzarono vuoti come su un copertone di un autotreno.
Il mostro ovviamente non batté ciglio.
Nemmeno in quella situazione disperata persi la mia ironia insolente:
“Sappi che ho il cuore amaro da far venire il voltastomaco!” gli urlai minaccioso e patetico, puntandogli il dito contro. Tanto non avevo più nulla da perdere.
Ebbi l’impressione che il mostro fosse sorpreso dalla mia reazione strafottente e, al contempo, disperata.
Furono momenti infiniti nei quali ci guardammo lungamente negli occhi.
Qualche attimo dopo il ghigno viscido della creatura si tramutò in una smorfia efferata e l’istante successivo ebbi modo solo di ascoltare il suo agghiacciante sibilo.
Poi con l’agilità di una gigantesca anguilla, si sollevò spaventoso dall’acqua saltandomi addosso.
Fu un tonfo.
L’abisso m’ingoiò.
L’ombra lasciva di Sara Cubi
Mi risvegliarono i placidi raggi del sole sulla spiaggia bagnata di Metaponto, a tempesta conclusa. Di fronte avevo il Mar Jonio di un azzurro intenso.
Ero frastornato, dolorante e ricoperto di alghe, tagli e lividi.
Inizialmente non capii perché LESAK non strappò il cuore anche a me.
Sicuramente non era stato per la mia assurda e audace, quanto ridicola, incoscienza nell’affrontarlo.
Di contro si rivelò vero quanto mi aveva riferito Sara Cubi: ossia che LESAK immolava esclusivamente esseri umani di sesso femminile. E questo spiega anche perché lei rimase ipnotizzata dal simbolo che mulinava sotto l’iscrizione in greco e io no. A LESAK, insomma, bastò il cuore della Cubi come bottino di cui saziarsi. Certo che nella vita ci vuole fortuna!
Non era andata così, invece, al povero professor Samale che, evidentemente, essendosi avventurato da solo nel cunicolo era divenuto facile preda dell’ira di LESAK. Quando si dice che bisogna avere sempre una donna al proprio fianco!
Fatto sta che – come per un tacito e deferente patto tra me e lui – non ho scritto mai nulla della mia allucinante avventura né di quel ritrovamento eccezionale che avrebbe portato al top la mia carriera di reporter.
So, comunque, che porterò sempre con me il segreto della Città Sacra di Poseidone, del suo custode e dei suoi tesori. Ma anche della misera fine dell’avvenente Sara Cubi: la sua ombra lasciva e senza cuore – in fondo non lo aveva nemmeno da viva – torna nottetempo dall’Aldilà a tormentare i miei sogni, TRASCINANDOMI, OGNI VOLTA, NELLE PROFONDITA’ DEGLI ABISSI.
Filippo Radogna (illustrazioni di Giusy Tolve)
Il racconto “Lesak, il Custode della Città Sacra” che vi abbiamo appena presentato è opera del giornalista e scrittore materano FILIPPO RADOGNA, da anni nostro collaboratore. Il testo, che ha ricevuto il Premio della Giuria al Concorso Internazionale “Cinque Terre Golfo dei Poeti” (edizione 2012) è un’avventura fanta-horror che si svolge a Metaponto, la cosiddetta spiaggia degli dei, sulle rive del Mar Jonio, tra i sotterranei di un museo magnogreco e una favolosa città sottomarina.
Avete visto il reporter dell’occulto, Ennio Bini, guidato da una sensuale archeologa affrontare i pericoli nascosti nelle profondità del mare trovandosi di fronte il feroce e spietato demone Lesak, posto a guardia della Città Sacra.
E voi l’avreste fatto per gli occhi dolci, e non solo quelli, di Sara Cubi?
Ringraziamo ancora Giusy Tolve, anche lei collaboratrice di lunga data della Zona Morta, anche se latitante da un po’ (quando torni Giusy?), per le splendide immagini che ci ha regalato a corredo della storia.