In L’alfabeto di Eden, romanzo di Nino Filastò edito da Hobby & Work in edizione cartonata nel giugno del 2007, il sottotitolo lo cataloga come thriller. Un thriller certo, nondimeno originale, che segue di due anni quel saggio/fiction totale che è Storia delle merende infami.
Filastò è uno scrittore di razza, dotato d’una lingua colta e scorrevolissima, a dimostrazione che l’intelligenza non sempre fa rima con “noia” e “pesantezza”. Filastò ha dalla sua una sintassi ampia e un agio nel maneggiare trame, e plot, tanto che al suo confronto il gotha di genere italiano pare per quel che è: poca roba.
Quest’opera, al momento l’ultima del nostro, prosegue appunto nell’ombra del thriller, genere già ampiamente frequentato (assieme alla fantascienza) dall’autore. Ci pare comunque arduo incasellare le 367 pagine del testo.
Si parte da una scomparsa – un archeologo d’una certa fama – e da qualcuno che, per diletto o per noia, si mette a cercarlo su di un’isola della Bretagna, luogo perpetuo nel tempo in un paese (l’allusione è comunque traslata sull’Italietta) depresso e smarrito. La trama si apre a varie sotto-trame, a vari narratori. C’è il giornalista in pensione che fruga tra i file dell’archeologo. Ci sono i file dell’archeologo riguardanti una spedizione in Algeria avvenuta nel 1975, alla scoperta di un santuario che potrebbe riscrivere la storia delle religioni e diffondere un contagio regressivo e cannibalico (e qui si sconfina quasi nell’horror). Poi il libro cambia pelle senza che ce ne accorgiamo e introduce una riflessione pacata sulla letteratura fantascientifica e utopistica degli anni ’70, affidando la scena a uno scrittore oscuro ed etilico di nome Flècher, quasi un Philip K. Dick trash.
A questo punto il romanzo nel romanzo si contorna di miti di fondazione: un conflitto alla base della vita tra il bene e il male, tra perturbatori e guardiani, con l’isola come accumulatore d’energie arcane. Una congiura cosmica inaspettata che si lega alla scomparsa dell’archeologo, all’isola sterpigna a picco sul cosmo.
Dopodiché Filastò decostruisce il suo plot, quasi senza delitti (forse uno, alla fine): monaci templari, romanzone rosa mistery, sette ufologiche, cerchi nel grano, chupacabras, un mare di complicazioni né gialle, né noir, senza il presupposto di una vera investigazione.
Eppure L’alfabeto di Eden un thriller lo è veramente, per l’appassionata capacità di frequentare astruserie e spargere tra le pagine il virus dell’incompleto, del non detto. Comunque un delitto c’è stato (o ci sarà), forse di massa (romanzo di date senza essere epistolare, l’ultima è quella fatidica dell’11 – 09 – 2001). Filastò decostruisce il genere e ricomincia daccapo, facendo i conti con il catastrofismo metafisico dell’Occidente, sempre pronto alla propria veglia funebre per mano di qualcuno o qualcosa ubiscente.
Un capolavoro!