Il diavolo, si sa, ha mille facce, ma nel cinema non tutte sono necessariamente malvagie, basti pensare al dispettoso ma ingenuo Benigni de Il piccolo diavolo. Nell’horror però c’è regolarmente la presenza del Male assoluto, che si manifesta in modi diversi, per cui il cinema a sfondo demoniaco si può dividere in vari sottogeneri. C’è il tema della possessione, in cui Satana, come essenza spirituale, adoperando il metodo subdolo che gli è proprio, si impadronisce del corpo di uno o più esseri umani, che diventano quindi indemoniati; l’esempio più conosciuto (anche se in questo caso il demone ha origine pagana) è l’ormai classico L’esorcista di William Friedkin (1973). C’è il tema dell’Anticristo, in cui Lucifero – l’angelo sconfitto da Dio e precipitato negli inferi – tenta, personalmente o mediante emissari, di combattere la potenza del Signore e far trionfare il Male nel mondo; e c’è quello delle sette, in cui gruppi di adepti – non sempre per la verità appartenenti al credo cristiano, ma più spesso adoratori di altri culti – si adoperano per il ritorno del loro antidio. Registriamo però anche dei film in cui il Demonio è presente in forma fisica, a volte solo embrionale, nascituro che una volta cresciuto rivelerà la sua vera essenza. Il primo pensiero non può non correre a Rosemary’s Baby di Roman Polanski (1968), tratto dal romanzo di Ira Levin Nastro rosso a New York (1967), dove una straordinaria Mia Farrow scopre a poco a poco in un crescendo di tensione angosciante di essere incinta del Diavolo, cui il marito l’ha ceduta la notte del concepimento in cambio del successo nella sua carriera di attore. Il film si chiude con l’accettazione, nonostante il disgusto iniziale alla vista del neonato, del ruolo di madre, enfatizzato dalla celebre ninnananna.
Passando al periodo interessato, nel 1978 ci pensa il regista Ugo Liberatore, che anche sotto l’influsso di Un dicembre rosso shocking decide di ambientare la storia a Venezia con il suo Nero veneziano. E’ la storia di due fratelli: Christine, la più grande, eredita una pensione nella Giudecca e non trova di meglio che adibirla ad albergo a ore, e il quattordicenne Mark è cieco ma ha delle visioni in cui vede il Maligno, che poi diventerà un ospite della pensione. Dopo una serie alquanto pasticciata di avvenimenti e di tragiche morti, Christine pur non avendo avuto rapporti sessuali (!) dà alla luce un bambino che Mark, ritenendolo figlio del Diavolo, uccide, e così facendo riacquista la vista (!). Ma inutilmente, perché il Diavolo non può morire. Infatti ricomparirà (anche se, sotto lo stretto ambito in cui lo consideriamo, ci vorranno una decina di anni) e lo farà con le fattezze di Robert De Niro e di Jack Nicholson, rispettivamente in Angel Heart e in Le streghe di Eastwick.
Siamo dunque nel 1987, in cui dobbiamo registrare altre due pellicole: una da dimenticare immediatamente, Il figlio dell’Inferno di Deryn Warren, in cui comunque non è nemmeno chiaro se il giovane stregato da un padre snaturato sia davvero progenie di Satana. L’altra, Soprannaturale di Camilo Vila, è appena un gradino più su e racconta di un giovane parroco inviato in una chiesa cattolica di New Orleans che era stata chiusa tre anni prima per la morte misteriosa dei suoi due predecessori; infatti la chiesa è abitata da Lucifero, che tenta in tutti i modi di corrompere il giovane prete (soprattutto tentandolo nelle vesti di avvenenti ragazze) ma alla fine sarà sconfitto, anche se a caro prezzo. Ma si diceva di Angel Heart – Ascensore per l’inferno, diretto da Alan Parker su soggetto liberamente tratto dal romanzo Falling Angel di William Hjortsberg del 1978, dove appunto un De Niro un po’ gigioneggiante interpreta un personaggio dal nome scopertamente rivelatore di Louis Cyphre, contrapposto al detective Harry Angel (Mickey Rourke in ottima forma: gli manca solo il trench). Fondamentalmente è un poliziesco di indagine che vede un detective alla ricerca di una persona scomparsa, da Harlem al Delta del Mississippi, dove scoprirà altri misteri collegati con la magia voodoo, assisterà a delitti efferati e metterà in pericolo la propria vita, fino alla straordinaria rivelazione finale, straordinaria non per l’idea che non è originalissima ma per come ci si arriva. Il tutto condito da una buona dose di suspense che il regista realizza con più di un riferimento (omaggi, non scopiazzature) a certe inquadrature hitchcockiane, confermandosi autore non prolifico ma di grande qualità. In Le streghe di Eastwick, diretto da George Miller, un misterioso individuo di nome Daryl Van Horne (notare l’assonanza tra Daryl e Devil) arriva nella cittadina del titolo e concupisce tre donne con lo scopo segreto di avere da loro un figlio, ma le tre signore infine capiscono la vera essenza di Daryl e, utilizzando gli stessi poteri magici di cui egli le aveva fornite, si ribellano e riescono a ricacciarlo all’Inferno. Basato sull’omonimo romanzo di John Updike, che però è molto più cupo e privo di ogni aspetto romantico, il film è una riuscitissima commedia molto basata sulla bravura degli attori: Jack Nicholson, Veronica Cartwright (che non è una delle streghe), Cher, Michelle Pfeiffer e Susan Sarandon (lei talmente brava che nella scena in cui si esibisce al violoncello suona davvero e non ricorre al playback). Indimenticabile, anche per la potenza delle scene, l’indovinata scenografia, l’uso delle luci.
Nel decennio successivo troviamo Il figlio delle tenebre di Marina Sargenti (1991) in cui il principale interesse è costituito forse dal fatto di essere stato diretto da una donna. Per il resto siamo abbastanza nel consueto, con una trama che prende spunto dai classici ma che non scade nel ridicolo, per cui il film anche se si trascina senza particolari guizzi resta vedibile. Va un po’ meglio con Cose preziose di Fraser Clarke Heston (1993), non fosse altro che per la presenza di Max Von Sydow, che sotto il nome di Leland Gaunt cela il Diavolo, il quale apre a Castle Rock un negozio che vende qualunque oggetto ma a prezzi esorbitanti, allo scopo di mettere in conflitto gli abitanti della cittadina; lo contrasterà lo sceriffo, l’unico a quanto pare immune dalla febbre dell’acquisto. Si sarà notato che la location è quella tipica dei racconti di Stephen King, infatti il film è tratto dal suo omonimo romanzo del 1991, ma come spesso avviene il regista (figlio di Charlton) non coglie l’aspetto sociale delle opere di King, cioè l’indagine psicologica sul comportamento dei cittadini americani, e il risultato è un’opera epidermica, vedibile ma priva di significati. A interpretare Lucifero in L’ultima profezia, scritto e diretto da Gregory Widen (1995), è invece un poco convincente Viggo Mortensen in un film abbastanza pasticciato, più fantasy darkeggiante con sfondo mistico che vero horror, basato sulla lotta tra l’arcangelo rinnegato – quindi praticamente un demonio – Gabriel (Christopher Walken troppo sopra le righe) e un angelo fedele al Signore per il possesso di un’anima a quanto pare importantissima per l’eterna guerra tra Dio e il suo principale antagonista. Al di là dell’idea di base, alla quale bisogna riconoscere una certa originalità, il film è troppo complesso, in alcuni momenti involontariamente comico e denso di sottotrame per essere convincente, ma proprio per questo ha originato una serie di sequel, nessuno dei quali degno di essere visto: L’angelo del Male di Greg Spence (1998), La profezia di Patrick Lussier (2000), The Prophecy: Uprising di Joel Soisson (2005) e La profezia prima della fine di Joel Soisson (2005).
A offrire invece una interpretazione veramente luciferina è Al Pacino in L’avvocato del diavolo di Taylor Hackford (1997), dove il giovane avvocato Kevin trasferitosi dalla California (Keanu Reeves) scopre che i suoi successi forensi sono dovuti proprio al sostegno senza mezze misure di Satana, sotto le spoglie del suo datore di lavoro (che simbolicamente si chiama John Milton, come l’autore del Paradiso perduto), che infine gli rivela di essere suo padre. Mentre Kevin va incontro al suo destino, infine ribellandosi, la moglie (Charlize Theron) è preda di visioni raggelanti che a poco a poco la conducono alla pazzia e al suicidio – ma c’è un doppio finale a sorpresa. Gran film, molto basato sulla bravura degli attori ma che vanta anche un’ottima sceneggiatura e una splendida regia, tale da riuscire a far diventare New York – la Grande Babilonia, come la chiama la madre di Kevin, che corrompe e corrode tutto e tutti con il mito del denaro e del successo – un’altra vera protagonista, con i parchi, le strade, le chiese, i palazzi e persino gli uffici che sembrano respirare e partecipare al dramma. Restiamo a New York con Giorni contati di Peter Hyams (1999), uno dei tanti film del periodo che adombrano la minaccia della fine del Mondo, perché non solo siamo alla fine del millennio ma 999 è il Numero della Bestia rovesciato. Hyams si conferma regista non eccelso – in questo caso si difende come direttore della fotografia – e non in grado di riuscire a sostenere una sceneggiatura traballante, con una vicenda già ampiamente vista: nel 1979 è nata una bambina che porta il marchio dell’Anticristo e questo mette in allarme il Papa; vent’anni dopo Christine, diventata adulta, confida a Jericho (ex agente di polizia ora guardia del corpo di un banchiere che in realtà è il Diavolo), che l’ha salvata da un attentato di agenti del Vaticano che volevano ucciderla, di avere strani sogni e visioni. Eccetera eccetera, con tanto di manifestazioni demoniache, crocifissioni, l’uccisione di un sacerdote che si chiama Thomas Aquinas (!) e un finale consolatorio che salva la religione.
Il nuovo millennio ci porta il Faust di Brian Yuzna (2001), tratto da un famoso graphic novel disegnato da Tim Vigil e scritto da David Quinn (autore anche dello script del film) ovviamente ispirato nell’idea di fondo all’opera di Goethe, con tanto di signor M (che sta per Mefistofele) che conferisce, naturalmente in cambio della sua anima, al pittore John Jasper poteri sovrumani che gli danno la possibilità di vendicare l’uccisione della sua ragazza. Ma Jasper non si limita alla vendetta, diventa un mostro assetato di sangue, uccide anche senza ragione e si mette alla caccia proprio di M. Il regista filippino è un ottimo artigiano e non fa notare le carenze di sceneggiatura, anzi riesce a richiamare proprio l’atmosfera cupa e sanguinolenta del fumetto, anche se la versione cinematografica ne limita molto gli aspetti violenti e semi pornografici. Il risultato è una storia che pur con diverse banalità tiene gli spettatori con il fiato sospeso e fa provare spesso brividi di paura, grazie anche agli ottimi effetti speciali, e dunque apprezzabile da chi nell’horror cerca facili sensazioni. Constantine (2005) di Francis Lawrence è basato sui personaggi dell’omonimo fumetto della Vertigo e la derivazione da un comics si nota dalla scansione delle scene che ripropone quella delle tavole, dalle prospettive differenti utilizzate nelle varie sequenze, dai fermo-immagine, dai frequenti colpi di scena. La storia, che risulta dunque complessa ma visivamente affascinante, ambientata non casualmente a Los Angeles, la Città degli Angeli, vede sullo sfondo la rottura del patto che vorrebbe Angeli e Diavoli essere presenti sulla Terra solo in spirito e quindi mostrarsi in forma fisica (ovviamente mostruosa, per i diavoli), e in primo piano la vicenda di un esorcista laico che sa di essere condannato all’Inferno e spera con la sua attività di salvare la sua anima. Ma questo non basta: ci vorrà un supremo sacrificio per garantirgli il Paradiso, salvo un ultimo intervento di Lucifero che lo riporta in vita con la speranza di conquistare più tardi la sua anima, ma al contempo lo guarisce dal cancro ai polmoni provocatogli dalle sigarette. Oltre allo spot antifumo, c’è da notare tutto sommato una profonda cattolicità di fondo davvero inconsueta in un film horror, che pur privo di particolare pathos si può guardare e riguardare per la bellezza della messinscena, gli effetti speciali, le frequenti sorprese, l’azione.
Sempre in tema di derivazioni da fumetti, nel 2007 c’è quella dal marvelliano Ghost Rider affidata a Mark Steven Johnson, più un action movie a sfondo misticheggiante che un vero horror, con Peter Fonda nel ruolo di Mefistofele a caccia di anime e Nicolas Cage in quello del suo antagonista. C’è anche un seguito nel 2012, Ghost Rider – Spirito di vendetta, diretto da Mark Neveldine e Brian Taylor, ancora con Cage (che con entrambi ha l’occasione di aumentare le suo nomine ai Razzie Award quale peggior attore!).
Molto particolare è Devil dei fratelli Drew e John Erick Dowdle (2010), che sfruttano un soggetto di M. Night Shyamalan abbastanza originale e tipico della visione del mondo misticheggiante del regista di origine indiana, ma forse non sfruttato a dovere. Se utilizzare l’ambiente chiuso e claustrofobico di un ascensore bloccato non è sicuramente nuova, ambientarci un horror con tanto di presenza demoniaca è una variazione interessante, anche se alla fine succede quasi tutto quello che lo spettatore si aspetta. Cinque persone si trovano intrappolate, e una di queste è il Diavolo il quale, durante i numerosi blackout, si adopera per uccidere gli altri, mentre anche fuori dall’ascensore si verificano omicidi misteriosi e il detective di turno ha il suo da fare per comprendere la situazione. Senza rivelare altro, possiamo dire che la tensione narrativa c’è anche se la trama è scontata, ma che i tratti caratteristici sono dati da un lato dal mettere a confronto in una situazione disperata cinque persone normali (eccettuato ovviamente il Diavolo), e dall’altro dal finale profondamente etico, in una storia che rinuncia al conflitto manicheo tra Bene e Male per mostrare invece le debolezze dell’essere umano, la sua fragilità e le sue paure.
Ci sembra azzeccata la definizione di “favola horror” che è stata data all’ultimo film della serie, Horns di Alexandre Aja del 2013, dal best seller di Joe Hill La vendetta del diavolo (2010), anche perché non c’è propriamente Satana in persona o un suo emissario, ma un protagonista cui misteriosamente compaiono le corna di cui al titolo. Ma andiamo con ordine: Ignatius detto “Ig”, incolpato dell’omicidio della sua fidanzata, si sveglia dopo una sbronza scoprendosi improvvisamente dotato di un paio di corna che cresceranno ancora; in seguito scopre che le persone con cui viene in contatto non possono fare a meno di rivelargli i loro pensieri più reconditi. Ne approfitta allora per indagare e alla fine scopre la verità, e al contempo si vendica di tutti coloro che lo avevano abbandonato, perdendo infine le scomode appendici craniali quando indossa una collanina con la croce, segno che si trattava di un dono divino e non infero. Sembrerebbe che la storia possa finire qui, ma c’è ancora qualcosa che non diciamo per non rovinare la visione. Possiamo però dire che il film rispetta il romanzo d’origine, forse anche troppo, perché una cosa è leggere e un’altra assistere a quello che succede: quello che sulla pagina scritta possiamo solo immaginare, una volta visualizzato sullo schermo diventa troppo invadente e dà l’impressione di un salto nel tenore dell’opera. Ed è questo il difetto principale, l’indecisione tra un approccio decisamente horror e quello più favolistico, tra il dramma personale e gli aspetti da commedia nera, con la conclusione che si tratta comunque di un film vedibile, con una buona interpretazione dell’ex “Harry Potter” Daniel Radcliffe, sufficiente ma che non lascia niente e si dimentica subito.
Gian Filippo Pizzo
Articolo tratto dalla “Guida al cinema horror” di Walter Catalano, Roberto Chivini, Gian Filippo Pizzo e Michele Tetro, Edizioni Odoya