MANIAC DEL THRILLING: DANIELE VACCHINO E LE OSSESSIONI PROVINCIALI D’UNO SCRITTORE FUORI DAI GRANDI GIRI

Ho letto l’ultimo lavoro thriller di Daniele Vacchino e subito dopo ho riletto i suoi primi due scritti nel genere, traendone alcune impressioni.

La dea madre”, ultimo testo del nostro, dovrebbe uscire a breve qui sulla Zona, oppure potrete trovarlo al solito su Lulu.com (gratis!).

I primi testi che ho riletto si intitolano “La notte delle crisalidi” e “La bambina bianca”. Il primo è possibile reperirlo all’interno del volume intitolato “Del bene più prezioso”, mentre il secondo è contenuto nella raccolta “Le maledizioni”, sempre caricati su Lulu (gratis!).

Bene.

La notte delle crisalidi” segna l’esordio di questo autore anomalo, esordio nel thriller perlomeno.

Si tratta di un testo breve, un racconto dalla prosa ancora fortemente poematica (Vacchino nasce come poeta simbolista e non come narratore) che raccoglie grumi di parole dal suono spinoso, incagliate le une dentro le altre; non sempre la lettura fila come in un bestseller americano (o italiano) da anestetizzati della lettura. Spesso ci si deve fermare, rileggere, assaporare le sfumature prismatiche delle frasi che esplodono dentro la mente. Prima di Amer, o di The strange color of your body tears, Vacchino re-inventa un thrilling puramente estetico e rilegge i suoi amati anni ’70 e le pellicole di genere ascrivibili a quel periodo. La prosa è allusiva, ellittica e procede per mezzo di piccoli capitoli flash, costruiti più sul non detto, sull’impressione. Egli dà poi enorme importanza all’atmosfera, vero centro di gravità permanente della sua opera. Cos’è per lui l’atmosfera? Vacchino la intende in modo militante, intransigente: è una sospensione descrittiva del racconto fatta di parole suoni, parole colori che costruiscono un luogo mentale, danno spazialità al racconto e si sottraggono all’azione o ai dialoghi frenetici, tarantiniani. L’atmosfera è una sospensione che non fa progredire la trama, non crea un climax, ma dona profondità, ombre, sfumature intense al racconto. I luoghi sono fondamentali in questo discorso. E i luoghi tornano con puntuale precisione in quasi ogni suo scritto. La provincia vercellese, la campagna diroccata, il parco delle lame del Sesia e il rosario di paesi abbandonati, occultati dalla baraggia. Questo è il mondo nel quale cala le sue carte, i suoi personaggi, anch’essi ossessivamente rifiniti e identici libro dopo libro. Come un Carpenter della Bassa, Vacchino si affida a figure per lui essenziali nella costruzione di un mondo mentale: gli sfaccendati che camminano nella notte in cerca di un modo per non lavorare, le coppiette di adolescenti che si appartano in macchina ai bordi dei fiumi, coppiette illegali di giovani amanti già intossicati dalla malinconia dei ricordi. Ragazzi e ragazze della buona borghesia di provincia in procinto di esordire nel gran ballo di società. E poi c’è lui, il maniaco, il mostro, l’ombra onnisciente del killer fiorentino, resuscitato sotto altre (1000) spoglie dallo scrittore piemontese; il mostro della pianura, già in questo primo lavoro, è rappresentato come un doppio fradicio di pulsioni arcane, carnali. Ed è attraverso la sua sacca che Vacchino riversa sulla pagina l’amore cristallino verso il thrilling italico degli anni ’70 (è interessante segnalare come lo stratagemma usato dal maniaco per avvicinare le coppiette sia desunto dalla lettura a bocca aperta del capolavoro di Nino Filastò, “Storia delle merende infami).

La trama de “La notte delle crisalidi” è ancora involuta, a tratti gira a vuoto, introducendo lunghe digressioni che non portano ad alcuno sviluppo. Tutto questo è abbastanza eretico rispetto alle linee guida della letteratura odierna, studiata a tavolino dagli editor rapaci (e permettetemi, dopo un’estate dedicata alla lettura furiosa di quanto oggi, in Italia, passi per thrilling, un commento a riguardo: i pregi di questa nuova letteratura li ho esposti in un articolo intitolato “Le nuove radici del thriller letterario italiano, ora vorrei coagulare un unico grande difetto; questi romanzi sono tutti uguali, figli di visioni più che di letture, imprigionati dentro una gabbia schematica che si rincorre da autore ad autore; la scena occupata dalle indagini scientifiche, poliziotti in scena dall’inizio alla fine, una verosimiglianza ossessiva, razionalità, trame, intreccio, personaggi ritornanti da serie tv americane; eppure quel cinema dei ’70 era molto più folle, antinarrativo, surreale di questi libri così rifiniti di oggi; pochissimi hanno tentato altre strade e qui voglio sempre ricordare l’indimenticato Giovanni Buzi). Eppure l’anti-narratività del testo di Vacchino ben si sposa con le incongruenze di quel cinema dei ’70 (oggi produttivamente improponibile, come dimostra l’amaro fallimento di un film bellissimo come “Tulpa”) o con le sperimentazioni del primo Tiziano Sclavi, autore non a caso molto letto dal nostro.

Il secondo testo, “La bambina bianca” è anch’esso un racconto breve e segue di poco il primo.

Anche qui abbiamo una prosa densa, ibridata con un’inedita nitidezza visiva.

Anche qui sono i vuoti a parlare, a creare un’atmosfera impalpabile da incubo surreale. Le scene si consumano in ritualità quotidiane, dove ai neon dei discount (letti come totem malefici) si contrappone la campagna incontaminata, metafisica. I capitoli, brevissimi galleggiano sopra ai bianchi della pagina, lasciandoci impressioni visive mai pulp, action o psicologiche. Per Vacchino (come per Bissoli) conta solo il suo mondo interiore, i suoni, i colori, le densità clorofilliache dei paesi d’ombra di cui scrive.

I personaggi riprendono e amplificano la gamma: un circolo di paesani falliti, interminabili partitelle notturne di poker, loschi traffici noir con mafiosi, killer da basso cabotaggio, camionisti, macellai col sogno del macello personale, bancari corrosi dal lavoro. Tutti egualmente prigionieri di una pianura (potenzialmente) infinita che li soffoca e li culla nel medesimo tempo.

Da “La bambina bianca” si staccheranno i semi che andranno a formare romanzi brevi come “La ragazza sul maggiolone giallo” o l’ultimo racconto “La dea madre”.

La dea madre” appunto.

Dal gotico rito con la statuetta della dea pregna a lume di candela del prologo (che delinea perfettamente l’atmosfera ed è la scena più bella) alla Movida beach di una Loano malarica. Due universi che coesistono l’uno dentro l’altro, come il buio e la luce, la vita e la morte. Il racconto presenta moltissimi punti in comune coi precedenti, al punto da sembrare quasi una riscrittura. E l’idea della riscrittura, dopotutto, non è aliena al Vacchino, visto il lavoro fatto su “La ragazza sul maggiolone giallo” (scritto due volte, ampliando e tagliando differenti snodi). Anche qui abbiamo il vecchio cimitero, i lumini che ondeggiano, le coppiette, i tradimenti di coppia, il ragazzo più ricco del paese, il milionario che l’ha sfangata, il mantenuto, eccetera. La trama, rispetto ai testi sperimentali dell’esordio, c’è, ben infittita da un maniaco e da omicidi maggiormente delineati, grafici. Altra novità potrebbe essere quella di affidare buona parte della scena al gruppo di ragazze, anziché ai soliti perdigiorno di provincia. Le ragazze si prestano bene al modo di scrivere, dopotutto femminile, delicato e adolescenziale dell’autore piemontese. Anche il tasso del sesso è salito, senza mai scadere nella mera pornografia. Molto irrituale il modo in cui vengono risolte le indagini della polizia, messa in scena da lontano, più per irridere una certa scrittura procedural, oggi diffusissima. Bella l’idea della statuetta della fertilità alla base di tutto. Nel complesso lo trovo paritario con altri lavori, diciamo che è un nuovo “Omicidi seriali” (ma le foto son più belle, si vede che l’autore ha fatto l’occhio al taglio delle inquadrature e nella miscelanza dei colori), meno eretico rispetto agli esordi.

Davide Rosso