SANGUE DI STREGA
di Fabio Calabrese
Il tempo era cambiato bruscamente, il cielo poco prima limpido, si era rannuvolato, e le nubi all’improvviso si erano fatte scure e qualche goccia pesante di pioggia aveva cominciato a cadere.
Il duca Ulderico alzò gli occhi verso il cielo nuvoloso dove fra le nubi aveva iniziato a scoccare qualche lampo.
“Dobbiamo cercare un riparo”, disse rivolto ai suoi compagni, “o rischiamo di essere sorpresi da un bell’acquazzone”.
Quella mattina il duca era uscito a caccia in compagnia di Raimondo, il suo gastaldo, e di un giovane scudiero che si chiamava Marco. Non doveva essere una grossa battuta, giusto l’occasione di fare un po’ di tiro con l’arco a qualche uccello o qualche lepre di passaggio, e trascorrere la mattinata.
I tre uomini erano montati.
“Se usciamo dal bosco”, disse Raimondo, “Non lontano da qui c’è la vecchia abbazia”.
Ulderico annuì.
“Mi sembra una buona idea”, disse.
I tre uomini diedero di sprone, mentre le gocce cominciavano a tamburellare con sempre maggiore insistenza sui rami e le foglie degli alberi.
L’antica abbazia sorgeva in una radura poco distante.
Col tempo e l’abbandono, alcuni edifici laterali erano crollati, i marmi si erano ricoperti di striature di sporcizia grigio-nere e i lineamenti delle statue sulla facciata erano stati erosi dalle intemperie, ma il corpo principale della costruzione appariva ancora solido.
L’abbazia era stata un tempo la sede di un importante ordine monastico, che era poi decaduto fino a non lasciare quasi traccia dietro di sé; l’abitava ancora un uomo, Gabriel, il vecchio eremita che l’aveva eletta a sua dimora molti anni prima. Gabriel, o come lo chiamava il popolino, “il venerabile Gabriel”.
Il duca Ulderico smontò da cavallo e picchiò con forza il battaglio del robusto portone che chiudeva l’accesso all’edificio principale.
Dopo un minuto di attesa, il portone si aprì ruotando silenziosamente sui cardini.
L’uomo che era venuto ad aprire aveva una figura sottile e un volto esile con una lunga barba che ai lati del viso si congiungeva con una raggiera di capelli candidi e lo rendeva più incavato, indossava una veste grigia di lana greggia che a Ulderico parve più un abito da penitente o da pellegrino che da ecclesiastico.
Ricambiò lo sguardo di Ulderico con una assorta tranquillità che fece salire un brivido lungo la schiena del duca: quello era un uomo, capì, su cui non aveva alcun potere. Forse per la prima volta da quando aveva assunto la guida del ducato, si trovò a chiedere invece di comandare.
“Vostra paternità”, disse con un tono umile che sorprese lui stesso, “chiedo un riparo per me e per i miei compagni finché dura il temporale”.
“Siete i benvenuti”, disse Gabriel l’eremita.
Indicò con la mano una tettoia.
“Potete legare là i cavalli, senza lasciare queste povere bestie sotto l’acqua”.
“Un tetto posso offrirvelo”, proseguì, “ma da desinare ho solo il povero pane di un eremita”.
“Vostra paternità non si preoccupi”, rispose Ulderico, “Abbiamo le nostre provviste, ma rimarremo qui solo finché non smette di piovere”.
Il vecchio fece strada ai tre. Lo spazio dell’edificio era quello di una chiesa con due file di colonne che dividevano la vasta navata centrale da due laterali, ma mancavano quasi del tutto le panche, o in luogo di esse in diverse file vi erano delle assi marcite; tuttavia osservò Ulderico, l’altare in fondo dalla parte dell’abside era coperto da una tovaglia di lino, e si vedevano le candele e il calice. Senza dubbio l’eremita diceva messa, magari in solitudine.
Il gastaldo e lo scudiero avevano preso posto su una panca, ma Gabriel fece cenno al duca di seguirlo.
Raggiunsero quella che era stata la sacrestia ed era al presente l’abitazione dell’eremita.
“Duca Ulderico”, disse Gabriel, “da molto tempo speravo di avere l’occasione di parlarti. Diciassette anni fa facesti mettere sul rogo una strega, una certa Livilla”.
Il duca Ulderico si irrigidì. Ma perché, si chiese, lui che era il signore di quelle terre, sentiva di doversi mettere sulla difensiva di fronte a quell’uomo?
“Fu un atto di giustizia”, disse, “la colpevolezza di quella donna era provata al di là di ogni dubbio”.
“Un giorno”, rispose Gabriel, “come tutti noi, risponderai dei tuoi atti a un potere ben più grande del mio. Io non intendo giudicarti, ma avvertirti del pericolo che ti sovrasta”.
Ulderico atteggiò le labbra a un’espressione di scetticismo.
“Pericolo, e quale?”, chiese, “Livilla è ormai cenere da molto tempo e non costituisce più una minaccia per nessuno”.
“Lei no, ma sua figlia si”.
Il duca sobbalzò come se fosse stato colpito da una staffilata. Impallidì e le sue labbra si contrassero in una smorfia.
“Che ne sai tu, monaco, di questa storia?”, esclamò.
“Non più di quel che saprebbero tutti se sapessero mettere insieme gli indizi”, rispose Gabriel. “Non è forse vero che qualche tempo dopo l’esecuzione di Livilla, tu riconoscesti come tua figlia una bambina, la piccola Clelia, l’identità della cui madre è rimasta segreta? Non è forse vero che all’epoca eri da poco vedovo e avevi tre figli, tutti e tre maschi? Per un feudatario i figli maschi, tranne il primogenito che ne è l’erede, sono un problema perché non è facile trovare loro una sistemazione, ma una figlia femmina è un utile oggetto di scambio, la si può sempre far sposare a qualche nobile signore vicino, ed è noto che le streghe mettono al mondo solo figlie femmine. Il processo fu insolitamente lungo, durò poco meno di un anno. E’ chiaro che le hai concesso il tempo di portare a termine la gravidanza. Io non voglio sapere se l’hai posseduta di forza o magari con la promessa di renderle la libertà. Dirò io a te qualcosa che non sai, che è noto solo a pochi versati nelle scienze spirituali e segrete. Livilla non era una strega qualsiasi, apparteneva a un genere di esse dotate di grandi poteri, che sono chiamate drakas o dragonesse. Possono gettare incantesimi di ogni sorta e assumere qualsiasi aspetto vogliano, umano o animale. C’è chi dice che non siano neppure esseri umani, ma demoni provenienti da un mondo lontano e misterioso. Alcune non assumono quasi mai forma umana, ma vivono sotto forma di draghi o mostri alati sui picchi più inaccessibili delle montagne più alte, ma per riprodursi devono assumere l’aspetto di donne e scendere fra noi, perché fra di loro non vi sono maschi.
La figlia di una draka, per diventare anch’essa una strega e ricevere i suoi poteri, deve, prima che tramonti il sole del giorno del suo diciottesimo compleanno, compiere un atto blasfemo ed esecrando che è la sua consacrazione a Satana: DEVE UCCIDERE L’UOMO CHE L’HA GENERATA. Se non lo fa, dovrà trascorrere il resto della sua esistenza come una donna comune”.
“Mi hai spaventato, monaco”, disse Ulderico, “E ti assicuro che non è facile”.
“Forse ho qualcosa che ti ridarà tutto il tuo coraggio”, disse l’eremita.
Aprì una cassapanca che teneva in un angolo e ne tolse una balestra.
“Ma di queste ne abbiamo quante vogliamo nella nostra armeria”, disse il duca.
“Non come questa”, replicò Gabriel, “i suoi dardi hanno le punte d’argento e sono stati benedetti, sono mortali per le drakas e le creature della magia”.
Clelia era una fanciulla minuta ed esile, mostrava meno dei suoi diciassette anni. Bionda e d’incarnato naturalmente chiaro, era di un pallore estremo, perché di sole era costretta a vederne ben poco. Il suo corpicino sarebbe stato anche grazioso se non fosse stato avvolto in un abito che era pressappoco un sacco informe dai colori smorti.
Clelia sapeva che la parte più sopportabile della giornata, quella in cui le era concesso di avere un po’ di tempo per sé, per pensare a se stessa almeno mentre riordinava la camera e si rifaceva il giaciglio, stava giungendo alla conclusione, e che il resto fino a sera, come ogni giorno, sarebbe stato oppresso dalla ingombrante figura di Marcolfa.
Marcolfa, la sua istitutrice a cui il duca l’aveva affidata, era una donna anziana, arcigna e massiccia. Il suo compito era quello di dare a Clelia un’educazione consistente nell’apprendere i lavori domestici, a cucire, pregare e soprattutto ubbidire, fino a quando il duca suo padre non l’avesse fatta sposare a qualche nobile dei dintorni per contrarre una conveniente alleanza. Se l’occasione non si fosse presentata, il destino di Clelia erano le ancor più gelide mura di un convento.
L’istitutrice era arrivata, e mentre si avvicinava, Clelia notò che c’era qualcosa di strano nel suo aspetto: Marcolfa era una donna anziana, obesa e sofferente di gotta, da molto tempo non aveva più quelle movenze fluide, giovanili.
Mentre veniva verso di lei, la donna subì una repentina trasformazione, il suo corpo divenne più sottile, slanciato. Anche il volto cambiò: ora era quello di una bella donna di cui sarebbe stato impossibile dire l’età, incorniciato da lunghi capelli neri e con le labbra carnose atteggiate a un sorriso malizioso.
“Ben trovata, bambina”, disse la sconosciuta.
Clelia sapeva che avrebbe dovuto avere paura, ma non riusciva a provarne, solo tanto stupore.
“Chi sei?”, chiese. “Come hai fatto a prendere l’aspetto di Marcolfa?”
“E’ semplice”, rispose la donna, “sono una strega, come lo era tua madre e come lo puoi essere anche tu. Il mio nome è Venusia e sono tua zia. Tua madre e io eravamo sorelle, figlie della stessa madre anche se ovviamente di padri diversi”.
“Mia madre”, esclamò Clelia. “Tu sai chi era mia madre!”
“E’ morta da molti anni”, disse Venusia. “Tuo padre, il duca Ulderico l’ha fatta bruciare sul rogo dopo averle dato appena il tempo di partorirti”.
“Mia madre era una strega?”, insistette Clelia.
“Ascolta, bambina”, disse Venusia, “ci sarà il tempo di darti tutte le spiegazioni che vuoi, ma ora dobbiamo fare presto perché sei in pericolo. Noi apparteniamo a un genere particolare di streghe: drakas, dragonesse, donne-drago. I nostri poteri sono i più grandi, ma per acquisirli dobbiamo, entro il diciottesimo anno di vita, uccidere l’uomo che ci ha generate. Il parricidio è il gesto che gli uomini considerano più infame. Per noi è il sacrificio che suggella il patto col nostro signore Satana. Devi saper che nella vecchia abbazia abbandonata nel bosco non lontano da qui, vive un uomo, l’eremita Gabriel, che ha una profonda conoscenza dei segreti della natura e sa tutto di noi. Lo tenevamo d’occhio da tempo ma non possiamo, non abbiamo mai potuto fare nulla contro di lui, perché è in un luogo sacro, lui stesso un uomo sacro e protetto dal potere della croce. Questa mattina è successo quel che temevamo, ha potuto parlare con tuo padre. Adesso il duca Ulderico sta tornando al castello con un solo proposito in mente, quello di toglierti di mezzo per mettersi al sicuro”.
Clelia aveva gli occhi sbarrati.
“Io… uccidere mio padre?”
“Perché”, replicò Venusia, “tu ami quell’uomo? E’ mai stato veramente UN PADRE per te?”
Clelia rivide mentalmente tutta la sua vita: no, quell’uomo non le aveva mai dato un gesto di affetto, una carezza, una buona parola, l’aveva sempre tenuta a distanza, sapeva di essere per lui solo una merce di scambio, ma non voleva diventare una strega e un’assassina, però non voleva neppure essere uccisa come un agnello sacrificale.
Anche in quel frangente, lo sgomento di Clelia era attraversato da una curiosità che aveva da sempre. Si slacciò il colletto dell’abito e mostrò a Venusia il collo su cui spiccava una vistosa voglia.
“E questa cos’è?”, chiese. “E’ forse un marchio di strega, del diavolo?”
Venusia la esaminò incuriosita.
“No, bambina, no”, disse. “A volte la natura ha le sue piccole irregolarità. Quando avrai i tuoi poteri, potrai farla sparire come vuoi”.
“Adesso andiamo”, proseguì, “non c’è più tempo”.
“Come usciamo da qui?”, chiese Clelia. “Fuori da questa stanza, il castello è pieno di armigeri, valletti, servitori. Come facciamo a passare loro sotto il naso?”
“Questo è più facile di quel che pensi”, rispose Venusia. “Ce ne andiamo in volo”.
La donna arretrò di qualche passo e il suo corpo subì un’improvvisa trasformazione: ingrandì e s’ingobbì, mentre il volto si proiettava in avanti assumendo l’aspetto di un muso aguzzo, e una selva di scaglie lo ricoprì, mentre un paio di grandi ali membranose spuntavano sulla schiena e una coda aguzza frustava l’aria. Ora l’aspetto di Venusia era in tutto e per tutto quello di un drago delle leggende.
“Non avere paura, bambina”, disse la creatura con la voce di Venusia. “Ora saltami in groppa”.
“Così, brava”, proseguì mentre Clelia le si arrampicava sul dorso. “Tienimi le braccia strette al collo e le gambe avvinghiate sul torace”.
Il drago-Venusia prese lo slancio e si tuffò attraverso l’ampio finestrone, con Clelia che si teneva aggrappata con tutta la forza che poteva.
Le ampie ali che sembravano fatte di pergamena fendevano l’aria battendo ritmicamente. Fu un volo di qualche minuto, ma Clelia era destinata a ricordare per il resto della vita il terrore e la meraviglia di librarsi nell’aria.
Oltrepassato il mastio e la cinta muraria del castello, Venusia si diresse verso una collinetta tagliata da un viottolo in direzione opposta rispetto al paese. Atterrò con una lenta planata, fece smontare Clelia di groppa e riprese forma umana. Le due donne si incamminarono.
“A proposito”, chiese Clelia, “che fine ha fatto Marcolfa?”
“L’avrei potuta uccidere facilmente”, rispose Venusia, “ma non ne valeva la pena. Tra qualche ora si sveglierà col più atroce mal di testa della sua vita”.
“Le sta bene”, commentò allegra Clelia. “E’ il minimo che si meriti quella vecchia strega… oh, scusa, non volevo offendere”.
“Ma figurati, bambina!”
Era passata una decina di minuti mentre le due donne percorrevano la strada di buon passo, quando si udì un forte scalpitio di zoccoli. Un gruppo di cavalieri si stava dirigendo verso di loro.
Con angoscia, Clelia vide che si trattava del duca Ulderico assieme a una torma di armigeri. Era pura sfortuna, o avevano notato il volo del drago e si erano messi sulle loro tracce?
“Là… là”, udì gridare il duca con voce aspra, “non lasciatele scappare!”
Subito si udirono due sibili in rapida successione: erano, a quanto pareva dal fruscio con cui solcavano l’aria, non frecce d’arco ma dardi di balestra.
Un dardo sfiorò il braccio di Clelia lasciandole una lunga scalfittura sanguinante, l’altro colpì Venusia.
Clelia osservò atterrita lo strano fenomeno che si andava producendo: avrebbe giurato che il proiettile avesse solo sfiorato la donna, eppure il suo corpo fu improvvisamente avvolto dalle fiamme, anche se il dardo non era per nulla incendiario, uno strano fuoco azzurrino che bruciava senza emettere calore.
Il corpo di Venusia subì l’ultima, la più orrenda delle sue trasformazioni: per un lunghissimo istante parve essersi mutato in un groviglio di serpenti che si contorcevano, poi di colpo scomparve, e al suo posto ci fu soltanto una chiazza bruciata fra l’erba.
Con la forza della disperazione, Clelia si mise a correre, anche se sapeva di non avere alcuna speranza di competere con i cavalli.
“Clelia! Clelia!”
Il suo nome echeggiò due volte, mentre da un boschetto a lato della strada usciva un altro cavaliere armato. Sebbene fosse solo, si diresse risolutamente contro il duca Ulderico e i suoi armigeri. Forse favorito dalla sorpresa, ne disarcionò rapidamente due a colpi di spada.
I suoi lineamenti erano in parte nascosti dall’elmo, ma Clelia non ebbe difficoltà a riconoscerlo: era Alfredo, l’ex apprendista di mastro Rainulfo lo zoppo. Alfredo, che era un abile artigiano come il suo maestro, era varie volte venuto al castello per compiere lavori e riparazioni di diverso genere. Clelia lo trovava attraente, ma non aveva mai avuto occasione di parlargli.
Era sorprendente che ora si rivelasse anche un guerriero di tutto rispetto. Doveva essersi allenato in segreto, come in segreto doveva essersi procurato il cavallo e le armi.
Mentre i suoi armigeri arretravano disorientati, il duca Ulderico, imprecando, impugnò la lancia e diede di sprone verso Clelia come se stesse giostrando contro un avversario in un torneo.
“Maledetta!”
Clelia, impietrita dal terrore, non riuscì a fuggire ancora, solo all’ultimo momento, quando la lancia di Ulderico stava per infilzarla, la deviò a mani nude, d’istinto.
La lancia andò a colpire con la punta il tronco di una vecchia quercia duro come un masso, si spezzò, e il duca Ulderico, sbalzato di sella dal suo stesso slancio, andò a incontrare col petto il troncone scheggiato del manico della lancia, che gli trapassò le costole e il cuore.
Per un lunghissimo istante ogni cosa sembrò fermarsi.
Clelia rimase impietrita, raggelata da un terrore senza nome.
“HO UCCISO MIO PADRE, SONO UNA STREGA”, pensò, ed era un pensiero orribile: in cambio di poteri che non desiderava, il demonio si sarebbe alla fine preso la sua anima, e non le sarebbe stato concesso di impetrare la misericordia del Cielo.
Un violento strappo la riportò alla realtà. Alfredo l’aveva raggiunta al galoppo e, con un gesto energico e rapido, cinta con un braccio intorno alla vita e posta in groppa al cavallo davanti a sé, tra la sella e il collo dell’animale, e ora stava dando vigorosamente di sprone.
“Mettimi giù!”, gridò lei.
“Ma sei matta!”, replicò Alfredo. “Non capisci che gli scagnozzi del duca sono infuriati come uno sciame di vespe irritate? Se ti prendono, ti fanno a pezzi”.
“Sarebbe la cosa migliore”, disse lei. “Sei tu che non capisci: ho ucciso mio padre, sono una strega”.
“Ma nemmeno per idea!”
Non dissero altro per il momento. Alfredo spronava il cavallo come se avesse il diavolo alle calcagna, cercando di mettere la massima distanza fra loro e gli armigeri. Questi però dopo un po’ desistettero: dovevano aver concluso che non aveva nessun senso affannarsi per rendere i propri servigi a un signore morto.
Allora poté dedicarsi alla ragazza che si divincolava sull’arcione davanti a lui.
“Tu non hai commesso nessun delitto”, le disse. “Ti sei solo difesa. E poi quell’uomo, il duca Ulderico, non era tuo padre”.
“Cosa?”
“Ti ricordi di mastro Rainulfo?”
Clelia accennò di sì con il capo.
“Fu arruolato in una delle tante guerre del duca, e fu ferito a una gamba rimanendo zoppo. Poiché non era più abile al combattimento il duca gli assegnò il compito di carceriere nelle segrete, ma non era un mestiere adatto a lui, era troppo umano con i prigionieri. Quando tua madre fu arrestata e torturata, lui fu l’unico a dimostrarle un po’ di gentilezza e di umanità, a cercare di alleviare le sue sofferenze. Lei gli si concesse, e quando il duca la possedette per avere una figlia femmina, non sapeva che era già incinta di te. Poco dopo il rogo di tua madre, Rainulfo fu scacciato dal castello. Ulderico voleva che coloro che si occupavano dei prigionieri fossero aguzzini crudeli.
Per sua fortuna però, Rainulfo era un uomo ingegnoso. Durante il servizio militare, per passare il tempo aveva imparato a intagliare figurine di legno. Decise di fare di questa sua abilità un mestiere: aprì una bottega e in poco tempo divenne noto come il miglior falegname che ci fosse da queste parti. Poi mi prese come apprendista, mi ha cresciuto lui. Sul letto di morte, mi ha fatto giurare di fare quanto era in mio potere per liberarti dalla prigionia in cui ti teneva il duca. Ed eccomi qua”.
“Ma tu”, disse Clelia, “come puoi essere certo che sono figlia di Rainulfo e non del duca?”
“Quella grossa voglia che hai sul collo”, rispose Alfredo, “Rainulfo ne aveva una uguale”.
Clelia cominciò a sentirsi come se un peso enorme le fosse stato tolto di dosso, come se una nuvolaglia folta di uragano si fosse dissipata all’improvviso, lasciando il posto alla luce del sole e a un cielo limpido.
“Dì un po’”, disse in tono quasi allegro, “se io sono figlia di Rainulfo, non è che tu sarai mio fratello?”
“No”, rispose lui, “sono un trovatello che ha preso con sé per pura bontà, era fatto così, era un uomo generoso, e mi stupirei molto se sua figlia fosse una creatura malvagia”.
Nell’abside della vecchia abbazia il venerabile Gabriel, l’eremita, era inginocchiato davanti all’altare. Sapeva che la sua azione aveva dato seguito a una serie di eventi che avevano portato alla distruzione due esseri malvagi e dato una possibilità di vita a una fanciulla. Certo, la piccola Clelia aveva sangue di strega, era la figlia di Livilla, ma non sono le sue origini a rendere qualcuno buono o cattivo, ma i suoi comportamenti. Tuttavia non era fiero di quel che aveva compiuto, sapeva di non essere stato del tutto leale con Ulderico.
Congiunse le mani e pregò:
“Signore, perdona il male che talvolta siamo costretti a commettere nella speranza che ne nasca un bene più grande”.
Due fuggiaschi si erano rifugiati in un paese a diverse miglia da lì: un giovane uomo e una giovane donna. L’uomo aveva dissodato un terreno incolto e poi, ai margini di esso aveva eretto quella che era stata dapprima una capanna provvisoria, poi si era man mano trasformata, con tanto lavoro e fatica, in una casa da esseri umani così come nel campo avevano iniziato a spuntare le prime messi.
I due nuovi venuti avevano detto di chiamarsi Alfredo e Clelia, ma i paesani non erano riusciti a sapere altro del loro passato. Tuttavia, poiché erano tranquilli e affabili, non arrecavano disturbo ma erano pronti a dare una mano se se ne presentava l’occasione, finirono presto per essere accettati.
Dopo essersi un po’ sistemati, si sposarono nella chiesa del villaggio.
Qualche tempo dopo, Alfredo cominciò a farsi notare per essere un artigiano molto abile nella lavorazione del legno, e cominciarono ad arrivargli ordinazioni una dopo l’altra.
Era passato all’incirca un anno, e l’aspetto di Clelia era cambiato. Al loro arrivo al villaggio, la giovane donna aveva un aspetto esile ed emaciato come chi esce da una lunga malattia oppure non vede mai il sole. Ora aveva sempre la pelle molto chiara, ma il suo colorito era sano, non più un pallore quasi cadaverico, era comparso del rosso sulle guance e qualche efelide picchiettava le gote e i lati del naso. Aiutando il marito nel lavoro per quel che poteva e dandosi da fare in casa, si era anche irrobustita: il suo corpo non era più scheletrico e presentava delle rotondità più armoniose. Erano i segni di una nuova vita, dura e semplice, ma libera.
Ben presto, cominciò a essere visibile una rotondità di altro genere.
Alfredo, oltre a essere un gran lavoratore, aveva un carattere sereno e allegro che lo faceva apprezzare da quanti lo conoscevano, ma nel fondo dell’animo di Clelia c’era sempre un dubbio che ogni tanto si manifestava con un brivido d’improvvisa angoscia. Lui, senza cattiveria, per sollevarle lo spirito, la motteggiava.
“Ti è forse apparso il demonio?”, le chiedeva. “Hai forse difficoltà ad avvicinarti alla chiesa? Riesci a fare la più semplice delle magie, ad esempio accendere il fuoco senza acciarino?”
Clelia aspettava la conclusione della gravidanza come la prova decisiva. Alfredo faceva quel che poteva per incoraggiarla.
“Ricordati”, le diceva, “che se anche fosse una bambina, questo non significherebbe niente. Nella metà dei parti nascono bambine”.
Era venuta un’anziana donna, la vecchia ed esperta levatrice del villaggio a occuparsi di Clelia. Alfredo attendeva impaziente fuori dalla soglia di casa, quando l’aria fu attraversata da un forte vagito. Rientrò in casa quando la levatrice, dopo aver tagliato il cordone ombelicale, puliva il bambino.
Lo avvolse in un panno e glielo porse.
Lui abbracciò suo figlio, poi andò a deporlo accanto a Clelia ancora stremata dallo sforzo.
“E’ un maschio”, disse.