VIII TROFEO LA CENTURIA E LA ZONA MORTA: V CLASSIFICATO

IDEE PER UN RACCONTO

di Alessio Giusti

La luna ed il sole si fronteggiavano indecisi in quella azzurrina mattina d’aprile, in un anno imprecisato tra gli splendori di un mondo nuovo e le incoscienze di un marinaio genovese. L’una ancora si attardava, forse per scorgere la terra in quella luce che segnava l’ora della sua ritirata, l’altra già allungava le dita dorate sulla campagna come a voler sottrarre quanto più mondo potesse allo sguardo della sorella ritardataria.

Io, sudando una goccia fredda e l’altra bollente, sellavo il mio cavallo in silenzio, fermando di tanto in tanto lo sguardo sulla peluria dell’animale e i brividi che la percorrevano, ma in realtà senza vedere niente di tutto questo, assediato dalla torma di mille pensieri che ad onta di ogni codice cavalleresco non avevano cessato di martellare per tutta la notte, beffandosi della stanchezza e del bisogno che avrei avuto di dormire.

Furabosco invece, il mio baio di quattro anni, sembrava immerso nella più infantile delle innocenze. Non un suono, non uno scrollo della testa o un passo caracollante, fermo immobile come stesse dormendo, lasciando intuire che ancora tratteneva l’anima ben salda al corpo solo grazie a quei brividi sovrapelle ondeggianti nei miei occhi.

Dovevo tener la mente concentrata su qualcosa di concreto, di stabile, non foss’altro che per dare un senso al fortunale di pensieri che procuravano mal di mare alle idee. Ripassai con la memoria tutto l’equipaggiamento da portar dietro, mi sembrava la cosa migliore, avrei tenuto occupato il cervello e reso al contempo un utile servizio alla mia impresa… ah si è vero dimenticavo, anche alla mia vita.

La solita roba di sempre, bisacce e provviste per diversi giorni, due spade e due pugnali, una daga corta dall’impugnatura d’avorio, più un portafortuna che un reale pericolo per gli avversari, e sorvoliamo sull’archibugio che mio padre aveva voluto assolutamente caricarmi sul mulo, balocco adatto più a far rumore e fumo che ad impallinare chicchessia, ma il progresso è progresso, e un’arma di ultima presa fa sempre un bell’effetto. Ma siccome la vita è mia e non c’è miglior alleato di se stessi (in verità bisognerebbe includere anche la fortuna tra gli alleati degni di nota, ma vai a pescare dove e quando ti dà una mano, troppo instabile per puntarci l’anima), mi sono premunito anche di una gran bella balestra con l’affusto di quercia e due bei tiranti ferrigni innervositi alla piega da un vibrante budello ben ingrassato. Mi piaceva anche solo guardarlo quell’aggeggio, così massiccio che avrebbe fulminato e messo in fuga un paio di irascibili che si fossero parati sulla mia strada anche senza scompigliare la penna ad un solo verrettone.

Cordame vario, coperte e vestiti di ricambio, libri… i miei libri, e non saprei proprio in quale altro modo parlarne se non come di un qualcosa che possiedo e mi possiede e dai quali non potrei separarmi, e poi tanto già mi vedo a vagare in una regione così tranquilla che ogni tanto fa la guerra solo per ammazzare il tempo tra la festa di un patrono e l’altra, accovacciato all’ombra di qualche albero beatamente assorto alla lettura, infischiandomene bellamente delle assurde imprese alle quali mio padre mi vota quando ha l’illuminazione di una nuova scoperta.

Acciarino, due lanterne, l’olio e un bel crocifisso d’oro incrostato di preziosi come le cozze su uno scoglio, forse non altrettanto massiccio come la balestra, ma comunque un bel fanale di richiamo per l’Altissimo.

Mi verrebbe da ridere come un ossesso, se la preoccupazione (di cosa poi visto che non ci credo) non me lo impedisse.

Avere un padre reputato luminare nelle scienze, dotto, erudito, conoscitore delle arti mediche come dell’astronomia, fautore a tal punto dell’esigenza di correre sempre più verso il futuro da rifilarmi quel cannolo di polvere inutile, l’archibugio intendo, devoto meglio di un apostolo, geniale e rivoluzionario nel pensiero; e questo apice di sapienza, questo maestro di dottrina, questo olimpo dello scibile, un bel giorno incontra uno zingaro che gli rifila una mappa, si convince che la zona vergata sopra sia nei pressi delle nostre contrade, si chiude nel suo studio per un mese, legge, calcola, almanacca, sonda, interpreta, e tutto il suo genio esplode una mattina di aprile in un’Eureka allucinante gridando dalla finestra con le guance rose e la barba lunga:

- Ci sono! C’è un drago sotto il monte Caparzio! -

Essendo ancor giovane e in buona salute avevo udito distintamente quel vaneggiamento da tumulato, il cui senno non più abituato al sole ma al freddo prolungato dello studiolo, era evidentemente evaporato di un botto appena uscito all’aria aperta. Ma volli farmelo ripetere da quei pochi che affollavano la corte della mia dimora, perché il cervello ostacolava prepotentemente quello che le orecchie avevano tradotto. Vinsero i sensi sul discernimento e tra l’udire e l’aprire fu un tutt’uno ritrovandomi catapultato in quella stanza col fiatone e la mano poggiata alla porta. Mio padre mi guardava sereno, felice come chi ha da poco scoperto come si starnutisce e mi tendeva le braccia barricato dietro libri e pergamene che lo incorniciavano ieratico come una madonna senza il bambino.

Poi fu il tempo delle spiegazioni, talmente azzardate e bislacche che nonostante la mia educazione ed il mio amore per la lettura, ebbi non poche difficoltà a capire sul momento, non parliamo poi di poterle ricordare. Parlava di una leggenda, e di cataclismi senza motivo, di fumate da un monte che vulcano non era, di quella stramaledetta mappa zingara che sembrava una lettera spedita dal principio del mondo, dove io tutto ci vedevo meno che il monte Caparzio, che per dirla tutta non è che una collina cresciutella ad un giorno di distanza da qui, che non è buona nemmeno per pascolarci le mandrie perché i briganti ogni tanto se ne portano via una… ah no, gravissimo errore, ora i briganti ai quali mio padre aveva creduto per sessant’anni suonati, mutatis mutandum, erano diventati il drago famigerato in preda ai morsi della fame!

Ma come si fa dico io, barattare virtù, fede e scienza per ricascare in una simile baggianata. Una credenza che avrebbe fatto sorridere anche gli antichi, un rigurgito pagano a un banchetto di vescovi, e lasciamoli perdere i sangiorgi e le santemarte, che ormai lo san tutti che i loro draghi erano solo un sogno satanico, un’apparizione teatrale nel canovaccio della loro beatificazione. Mio padre non parlava di miti, di credenze, di simboli, mio padre parlava di zoologia, di un essere dotato di forma e forse anche di intelletto, di una creatura da giardino delle meraviglie, da circo ambulante.       Ero sbigottito, anzi no, confuso, udivo sgorgare da quella sorgente di sapienza parole indegne del  vaneggiamento di uno scemo. Poi, così come aveva straripato e divelto ogni mia certezza, quel diluvio di scempiaggini si arrestò, ritirando di colpo tutto il suo impeto. Restò una piatta attesa limacciosa, qualcosa in cui ero già invischiato senza avvedermene, mio padre alzò lo sguardo e i suoi occhi schermavano la fiamma della verità e del giudizio. Sussurrando con un fragore la cui eco avrebbe sbriciolato una montagna comandò:

- Tu mi porterai la Bestia -

“La Bestia”, ricorderò quella parola fin che avrò memoria dove celarla, perché la sola sua pronuncia mi mette i brividi e mi stira lo stomaco.

Eccomi dunque, con un cavallo, e un mulo senza un  nome con cui chiamarlo, come un essere di nessuno destinato al niente dell’oblio, in partenza per una follia in cui non credo, perché se ci credessi saprei come affrontarla e non mi metterebbe addosso tutto questo spavento. Perché allora lo faccio? Domanda ricorrente quanto inutile, per dovere ovviamente, e perché ho sempre creduto in mio padre nonostante tutto, e perché non c’è follia più grande del gusto per la follia. Sì, ora posso ammetterlo, ora che non devo mentire più nemmeno a me stesso, posso ammettere che io quella mattina ero felice! Felice di partire, con quella gioia di chi si innamora della persona sbagliata e spasima di dolore senza cercare nient’altro, lieto solo della prossima deflagrazione che gli squarcerà il petto, ingannandone l’attesa con la finzione della vittima in lacrime che non si dà pace, confortata dalla pietà di amici e parenti, sorridente sotto la maschera del beota senza più speranza.

Un folle, un cavallo sapiente e un mulo anonimo, niente male davvero come compagnia, all’inseguimento di una fiera senza tempo né memoria, sorta dalla nebbia dell’improbabilità.

Trascorsi buona parte della mattinata camminando a fianco di Furabosco, con la cavezza del mulo in mano come un guinzaglio. I mandorli in fiore nevicavano i prati di seta rosata, l’orgoglio della mia terra sembrava starsene lì solo per mostrare tutta la sua baldanza, e quella grazia avrebbe aperto il cuore di un lupo. Non una piega in tanta perfezione, ero libero, meraviglioso e meravigliato dal mondo, tanto che la cosa più istintiva che mi venne di fare fu quella di salire in sella, dispiaciuto di dover tediare la schiena del povero Furabusco, ma desideroso soltanto di ergermi su quella maestosità come se non esistesse che per merito mio. Respiravo la brezza, o forse io stesso lo ero, nell’ondeggiante calma del mio animale godevo l’oceano della bellezza.

E tutto quel pomeriggio transitò sul mondo come una fanciulla vista di sfuggita ad una festa, incapace di trattenerla e tiepida nell’attimo che è già ricordo.

Riporto tutto quello che avvertii quel giorno, perché forse fu davvero l’unica cosa degna di essere fermata tra queste pagine, al di là di tutta un’avventura che ebbe risvolti così grotteschi e inconsueti, che adesso quasi stonano con la perfetta armonia di quell’immagine. Ma questa è una cronaca di fatti accaduti, non un compendio poetico, ed è quindi doveroso che tramandi a chi mi sopravviverà tutto il vero che mi accadde allora.

Il mattino dopo giunsi, al monte Caparzio, immerso in un risveglio lirico che se un essere orribile come un drago lo avesse davvero abitato, quel giorno avrebbe avuto vergogna di mostrarsi. E così fu, visto che dovetti andarmelo a cercare, da solo ovviamente.

Furabosco una volta giunti all’imbocco di una caverna ben nascosta dalla vegetazione e ingannevole nella forma, a causa delle concrezioni rocciose che non lasciavano affatto intuire un’apertura al di là da esse, perdette d’un lampo la sua calma monastica, e quella fissità meditativa degli occhi si spalancò come una vescia scoperta nella macchia, lasciando sbocciare il bianco pavido del bulbo, danzante per un attimo prima della fuga.

Non cercai di ritrovarlo né tanto meno di corrergli dietro, era così folle quello che mi accingevo a fare che ogni strategia o calcolo preventivo aveva il sapore dell’inutile arrovellarsi. Il destino avrebbe condotto nel bene e nel male i miei passi all’interno dell’antro.

Il mulo, forse per stanchezza o per darmi un senso di frustrazione e impotenza di fronte agli eventi, decise la strada della passività, non riuscii a farlo muovere di un palmo. Imbracciai la balestra, l’unica spada rimasta, la daga bella e inutile, il crocifisso premuto sul cuore e la lanterna.

Una lucciola corazzata spinta verso la fiamma del proprio olocausto.

Come mi sentivo? Beh, difficile a dirsi, la grotta mi infondeva sgomento e coraggio insieme, la temperatura si abbassava ad ogni passo, ma in compenso il cunicolo non era troppo ampio, se l’ipotetico animale si fosse servito di quel passaggio per l’esterno la sua grandezza non doveva essere maggiore di quella di un orso; congetture, analisi, raziocinio, mi ci aggrappavo quando confermavano le mie migliori intenzioni, le scacciavo se muovevano obiezioni troppo sconfortanti correndo sull’orlo dei miei brividi.

Poi la luce scomparsa ormai da tempo cominciò a dare di nuovo segno della sua presenza. Quella capocchia di spillo in lontananza si allargava ogni istante di più, fino a rendere inutile l’artificio della lampada. La poggiai ancora accesa in un angolo e continuai a seguire il bagliore.

Il cunicolo si aprì sfolgorando in un’immensa sala sotterranea luminosa e algida per via dell’apertura in alto al contempo rosone luminescente e sfogo di vento a quella prepotente navata demoniaca. La caverna riverberava di tesori indegni della più famelica avidità. Ve ne era una quantità tale da nauseare Mida. Accecato e incuriosito mi addentrai nel profondo raggiungendo il centro.

Poi il giorno si fece notte. Una torre di squame salita dal nulla eclissò quella magnificenza, e allora rimase solo il gelo.

Ricomincio solo adesso a mettere ordine negli avvenimenti, perché allora, lo giuro, la mia mente svanì allo sguardo di quell’animale e fui come morto senza replicare. Quali parole avrebbero avuto un significato, quale gesto. Solo l’istinto restava vigile, o era solo cieca incoscienza. Forse passarono pochi secondi, forse molto tempo, in quell’assenza di esistenza che era il mio involucro corporeo.

Fu allora che una corona d’avorio piombò su di me imprigionandomi a terra. La zampa del drago bloccava ogni mio movimento, come se avessi mai avuto l’intenzione di compierne uno, quando avvicinò il muso alla mia testa sporgente tra le dita alitandomi in faccia e scrutandomi curioso. L’odore che sentii avrebbe nauseato uno scassa morti, ma non emisi un gesto, né uno spasmo di tosse, né un sussulto del ventre, non ero che materia inerte in bilico sull’orizzonte dell’esistenza. Attendevo solo la liberatoria spinta verso l’abisso.

“Noi crediamo tu abbia commesso un grosso errore.”

Senza dubbio ero già morto, udivo il drago parlare la mia lingua e avrei provato stupore, se mi fosse rimasta una sola emozione in corpo.

“Un terribile errore. Adesso piccolo quattrozampe comprenderai il vero significato del verbo Paura!”

Non so quale demone o spirito celeste mosse la mia lingua in quell’attesa inanimata, ma se posso narrare ciò che accadde lo debbo al sussulto istintivo del mio sapere:

“Paura non è un verbo… è un sostantivo”

Io stesso mi stupii allora riprendendo coscienza di ciò che avevo appena detto. Stavo correggendo un essere che fino a dieci minuti prima non credevo nemmeno potesse esistere e che adesso era padrone della mia permanenza terrena.

Il mostro sembrò più allibito di me, ritrasse la testa inclinandola di lato,  squadrandomi con gli occhi obliqui.

“Come dici, scusa?!”

Scusa? L’arroganza si era fatta educazione o forse solo ironia, ma comunque un effetto su cui mi resi conto potevo far leva. Cominciai la mia lezione di grammatica, gesticolando sotto la zampa per quanto potevo, come facevo d’abitudine quando volevo rendere più chiaro un concetto difficile. L’animale, Caparion avrei scoperto in seguito, il cui nome era passato al monte che lo ospitava, si accorse dei miei movimenti e ritrasse il braccio.

Fuggire non sarebbe stato né saggio né possibile, ma non fu questo scarto strategico che mi indusse a restare. Provavo un gusto eccentrico nell’insegnare, vedevo che forse avevo un’arma della quale non avrei mai sospettato la potenza, e che adesso infondeva in me una pedante e fascinosa sicurezza: lo stavo vincendo con la cultura!

Mentre affabilmente monologavo con l’animale mi resi conto di citare molti libri e al contempo di risultare oscuro e incomprensibile alle orecchie del mio uditore. Mi accorsi allora che la caverna non contemplava che tesori e monete d’oro, e quell’essere senziente dalla venerabile età di quasi duemila anni, come egli stesso sosteneva, aveva vissuto fino ad allora nella più totale e gretta ignoranza! “Se fondi col tuo soffio fiammeggiante una moneta d’oro, essa rimarrà sempre oro mutando solo forma, ma se incendi un libro, la sua ricchezza e le idee che contiene evaporeranno in un inutile fumo evanescente”. Questo esempio colpì maggiormente il drago, annichilatore per sua ammissione di centinaia di villaggi alla ricerca solo di preziosi, per poi concludere il  passaggio in un incendio definitivo, nonostante ormai da molti anni non si dilettasse più di saccheggi e stermini, approssimandosi anche per lui la dipartita finale.

Continuai così per non so quanto tempo, dissetando come potevo quella infantile aridità di sapere, tormentato dai continui “perché” di un bambino millenario.

Il mostro, anzi, Caparion, poiché alla terrificità del distruttore si era sostituita nel mio animo la dignità dell’allievo, era affascinato, incuriosito, a tratti soddisfatto quando capiva certi passaggi di filosofia, per poi chiudersi nuovamente in espressioni distratte come a tentare di digerire con le sue sole forze gli assunti più intricati.

Mi sentivo più tranquillo, presi una posizione comoda da banchetto accademico, poggiai le armi, il corsetto di cuoio rinforzato e slacciai la camicia ancora impregnata dell’acre odore della paura, che quasi mi sorprese come un lontano e insipido ricordo di prudenza.

Fu allora che Caparion scorse il crocifisso sbucato dalla tela bianca, ma non erano l’oro o le pietre ad attrarre la sua avidità, un appetito più famelico lo stava divorando senza che nemmeno se ne accorgesse: voleva sapere. Ora che conosceva più cose sugli uomini e il loro pensiero, ora che aveva appreso come molti vivano per ideali più alti della fame e della sete, si rendeva conto che forse la forma di quell’oggetto poteva avere un significato diverso.

La caverna in effetti annoverava, più o meno intatti, molti crocifissi preziosi, e Caparion si domandò se non ci fosse un significato diverso a quelle apparenti coincidenze geometriche.

“Questa croce rappresenta il supplizio subito spontaneamente da Nostro Signore affinché tutti noi fossimo salvati e liberi dal male”

“Ti riferisci forse a Tibur, il serpente toro, creatore della vita e dispensatore delle piogge?”

Chiese Caparion rispettoso e solenne.

A questo, ma a tante altre cose, non avevo minimamente pensato. In cosa credeva Caparion? Una volta compreso che si trattava di qualcosa di molto più di un animale, che poteva aspirare ad un superiore balzo intellettivo, e che era in grado di comprendere perfettamente quello che gli insegnavo, perché non avrebbe potuto anche lui avere un Dio in cui credere?

Il suo Tibur assomigliava in tutto e per tutto ad una divinità pagana, ad un idolo oramai estinto, una credenza sconfitta e superata. Mi resi conto mentre pensavo queste cose che una nuova scintilla di follia sperimentale alimentava la luce dei miei occhi. Volevo convertire il drago alla religione cristiana! Ben presto dovetti arrendermi. Un Dio la cui forza più grande è il perdono, il cui atto più potente era stato quello di farsi ammazzare in nome di milioni di persone che nemmeno aveva mai visto in faccia, era troppo per la logica di un drago vendicativo e terribilmente potente.

“Come ha potuto salvarvi se è finito su un banco di tortura? Avrebbe dovuto piombare sui suoi denigratori con la furia del tuono ed abbatterli in una sterminata foresta di fiamme, questo avrebbe mostrato la sua potenza e fatto prostrare gli scettici al suo cospetto!”

“Ha lottato come un leone senza spargere una sola goccia di sangue se non il suo, mondando la terra di tutto il suo male e salvando la vita a tutti noi”

“L’unica guerra che ha salvato la vita a tutti voi fu lo scontro immenso tra i mille soldati di Urz e gli invasori guidati da Winili, quella fu una battaglia della quale serbare memoria”

Io parlavo di tutti gli uomini, il drago di un gruppo sparuto del quale nessuno aveva mai sentito parlare. Io parlavo del mondo e dei suoi abitanti, il drago forse di una zona che non arrivava neanche fino a casa mia. Io parlavo di anime, il drago di poche centinaia di persone, in un tempo dimenticato forse prima di esistere. Mi resi conto che il suo mondo era così limitato che avrei potuto girarlo tutto in un giorno solo.

“Uno scontro tra poche migliaia di soldati non è una battaglia tra eserciti, è una partita a scacchi in armatura. E detta fra di noi, nessuno ha la minima idea di chi siano questi Urz e Winili di cui parli. I tuoi duemila anni avrebbero potuto fare di te il cronista veritiero della nostra civiltà. Avresti potuto narrare da testimone vivente i fatti che hanno determinato il cammino dell’uomo. Avevi la possibilità di conoscere di persona il Salvatore di cui ti sto parlando. Ti sei limitato invece a lasciare gli anni scorrere sulla tua corazza, intento solo a placare la tua fame e la tua ingordigia, circondandoti di montagne d’oro delle quali non sai cosa fartene, solo per il gusto effimero e passeggero di un’avidità nella cui abbondanza ti sei consumato senza sfamarti.”

Il mostro ebbe un moto di rabbia e sconforto insieme, alzò di nuovo la zampa artigliata su di me, e lessi nei suoi occhi la volontà di uccidere, lo fermai con la mia arma più potente:

“Io ho vissuto abbastanza, non temo la morte.”

Il mostro si fermò ancora una volta, capì che uccidere me era solo la via più semplice per non accettare la verità di aver vissuto invano anteponendo istinto e pregiudizio alla conoscenza. Comprese in un attimo perché i suoi simili si erano estinti, la loro gretta chiusura al mondo, il rifiuto al contatto esterno, consideravano gli uomini inutili quattrozampe senza rendersi conto di essere a loro volta considerati un ammasso orrendo dispensatore solo di morte. Due creature dalle menti eccelse, votate al reciproco annientamento per essersi rifiutati di capirsi.

Ormai era tardi. Tardi per noi, tardi per il drago e tardi per il mondo. La luce si era fatta più docile, l’ombra lentamente appannava il crepuscolo.

Il drago mi disse che era ora di andare, ma non si riferiva al mio ritorno a casa. I draghi non muoiono, mi rassicurò vedendo gli occhi che si facevano lucidi, si radunano insieme sotto l’ala immensa di Tibur, ritrovando amici e fratelli, nell’ombra fresca e limpida di un’ eterna primavera, dove nessuno ha più bisogno di niente. Capii che quello era il loro paradiso, e che non avrei rivisto il drago mai più.

Avrei voluto regalargli qualcosa, pensai al crocefisso, ma il suo aldilà mi sembrava bello quanto il mio, e non volli disturbare quel  sogno.

Uscii dalla caverna e trovai il mulo seminascosto da un cespuglio, ma non erano stati né il caldo né la fame a spingerlo là dentro. Rammentai che più di una volta lo avevo scovato avvolto nelle macchie più intricate, pareva divertirlo gettarsi nella vegetazione fitta e perdersi in quell’abbraccio verde e apparentemente inospitale. Ma se a lui piaceva così, perché avrei dovuto giudicarlo secondo il mio pensiero?

Tolsi dalla sua soma un libro e ritornai nella caverna per donarlo al drago. Parve felice di rivedermi ancora una volta e accettò di buon grado il regalo, dicendomi che Tibur gli avrebbe insegnato come leggerlo. Sorrisi dentro di me, sapendo che si stava illudendo… poi anche io riacquistai il senso di umiltà e scesi dal mio piedistallo illuminato per tornare uomo. Chi mi assicurava che anche io non mi stessi illudendo di tante cose, con quale arroganza potevo ridere del dio Tibur?

Il mulo era ancora lì, intrappolato tra i rami, e non so come accadde, ma lo chiamai per nome:

“Andiamo Malafrasca, torniamo a casa.”

L’animale voltò la testa, forse  ero rimbambito più di quanto sospettassi, ma parve distintamente che mi sorridesse. Si avvicinò docile e nonostante i bagagli, trasportò anche il mio corpo affannato fino a casa.

Passarono altri giorni, tra i ricordi e le spiegazioni, tutte menzognere, a mio padre, deluso che non avessi trovato un bel nulla sotto il Caparzio se non un nome adatto ad un mulo.

 

Una mattina fui svegliato dal terremoto, raggiunsi correndo l’esterno della dimora dove già si accalcavano tutti i miei compaesani, trafelati ed impauriti. Un fumo denso e nero saliva dal Caparzio. Alcuni si inginocchiarono a pregare, altri raccoglievano quante più cose potevano trasportare, altri ancora cercavano di tener buoni gli animali. In quella giostra d’ anime che mi volteggiava intorno con gli occhi spalancati, io solo sorridevo come un santo di fronte al martirio. Quello che per tutti era uno sconvolgimento della terra, a me suonava come una campana a morto per un amico addormentato all’ombra della primavera.

 

Ora sono diventato il signore di queste terre, mio padre e la sua scienza mi hanno abbandonato già da qualche anno. Il paese è ricco grazie alle miniere trovate sotto il monte, e anche la guerra sembra un ricordo ormai lontano, come se il mondo non avesse interesse a questo placido fazzoletto di terra verde. Il Caparzio è un tetto d’erba su un labirinto dal quale è stato estratto tutto ciò che si poteva, ma il mio libro non è stato più ritrovato, come del resto le ossa di un amico.

Chissà se gli sono piaciute le mie favole.