PAURA DEL BUIO

Sentii nominare per la prima volta il Babau il giorno del mio sesto compleanno.

E’ passato del tempo da allora, ma ancora lo ricordo come fosse ieri. Mia madre mi disse che il Babau viveva dove il buio è più completo: nei fossati, nei tubi, nei condotti di aerazione delle vecchie case, nelle cavità degli alberi, negli scolmatori dell’acqua sporca… e che ogni tanto usciva fuori in cerca di bambini.

E il Babau adorava la notte. Era il suo regno. Per cui, in pratica, ovunque c’era il buio o scendeva la notte tu potevi incontrarne uno. Io, che ero un bambino già impressionabile e che adorava volare con la fantasia, ma che, fino ad allora, mi ero limitato tutt’al più a svegliarmi nel cuore della notte gridando il nome dei miei genitori, rimasi assai colpito da quella storia.

Cominciai a temere il buio ancora di più di quanto già facessi.

Mi misi sempre più in disparte: evitavo la cucina di casa perché avevo paura di cosa si poteva nascondere in tutte quelle credenze chiuse e oscure, eliminai tutti i giochi in scatola per lo stesso motivo, smisi di prendere l’automobile di papà o l’autobus perché sentivo strani fruscii provenire da sotto le poltrone dei passeggeri, evitavo come la peste la scala sul retro di casa mia, quella che conduceva al giardino, perché ero convinto che prima o poi una mano pelosa e ricoperta d’artigli sarebbe sbucata fra un gradino e l’altro e mi avrebbe afferrato una caviglia… e, soprattutto, avevo cominciato ad odiare la notte.

Non uscivo mai di notte, nemmeno a Halloween, nemmeno la sera di Natale quando i miei genitori insistevano per portarmi a casa dei nonni per passare la “magica” notte insieme.

Dormivo e mi spostavo di camera in camera soltanto se ero avvolto da intensi ed estesi fasci di luce.

Poi, qualcuno rincarò la dose: mi disse che di Babau non ce n’era uno solo, ma che ne esistevano tantissimi, gruppi di Babau che vagavano di notte per le città, intere famiglie di Babau, milioni e milioni di Babau che non sapevano cosa fare e che per passare il tempo si nascondevano negli anfratti della terra e nelle intercapedini e nelle crepe marce dei palazzi antichi per dare la caccia ai poveri bambini…

Ero diventato un bambino asociale. Alla fine avevo smesso anche di andare alla scuola, che avevo appena cominciato, perché il tragitto fino all’edificio municipale era ormai divenuto impossibile per me, che saltavo dallo spavento alla vista di ogni tombino, di ogni cassetta delle lettere, perfino di ogni semplice cartella!

E poi, come avrei mai potuto sopportare quei terribili banchi scolastici, col ripiano che si ribalta?

Sarei entrato in classe col pensiero costantemente sintonizzato sull’immagine di me che infilavo le mani nel banco per tirarne fuori due moncherini insanguinati…

Mai. Sarebbe stato proprio impossibile per me. Per essere più sicuro nei miei spostamenti all’interno della casa e verso l’esterno, avevo cominciato a scavarmi una fitta rete di gallerie, che illuminavo con le torce elettriche che trovavo in giro, che alimentavo con le pile che compravo coi soldi della mia paghetta.

Pile. Ecco tutto ciò che mi compravo con le mance della Domenica, delle feste e dei compleanni. Pile. Montagne di pile che utilizzavo e che quando erano esaurite facevo sparire con un’abilità da ladro. Ero divenuto, in verità, davvero una specie di piccolo ladro, abituato a spostarsi di camera in camera, di ambiente in ambiente ed anche di casa in casa in maniera furtiva, senza farsi mai vedere da nessuno.

Sì, perché con questi cunicoli, o tunnel di cui vi sto parlando, io arrivavo fino alle abitazioni dei vicini, dei negozi del quartiere, delle case dei miei già ex-compagni di scuola. Ero diventato un mago nel costruire botole sotto la moquette (praticamente invisibili), nel realizzare passaggi segreti sganciando parti delle assi dei parquet (ingegnosi, ma non del tutto immuni dall’essere scoperti), e nel creare autentiche vie di fuga (o di entrata) assolutamente non individuabili a occhio nudo nei muri, nelle scale, ma anche nelle parti della casa e negli oggetti di arredamento e di utilizzo quotidiano più insospettabili. Creavo porte ovunque. Avevo capito come ricavare accessi da qualsiasi cosa. Se questo fosse un dono oppure una maledizione non lo so dire neppure adesso, fatto sta che sono assolutamente convinto che tutto questo racchiuda già di per sé una grandissima abilità.

Per tornare a quanto dicevo poco prima, non c’era quasi un mobile, una suppellettile, un elettrodomestico, posto che fosse abbastanza voluminoso, che mi impedisse di inventare un passaggio attraverso di esso.

Gli armadi, i ripostigli, gli scarichi dei bagni per me non avevano segreti.

Ma se vi dicessi dei divani, delle poltrone, degli sportelli dei contatori del gas e dell’acqua, delle cabine telefoniche e dei condizionatori d’aria da parete forse non mi credereste… Beh, pazienza! E senza dimenticare tutte quelle “porte” che realizzavo da zero, come già vi ho detto, nei muri e nei pavimenti.

Nel mio piccolo, mi sentivo davvero un artista. In compreso come tutti gli artisti all’inizio della carriera. Ma pur sempre un artista…

Vivevo ed ero sempre più solo.

Il fatto che fino ad allora non avessi avuto la bruttissima sorpresa di incrociare nemmeno uno di quei maledettissimi Babau, non era sufficiente a tirare su il mio morale.

I miei genitori si erano rassegnati ad avere un figlio “strano” e non facevano più caso a me. La mia solitudine toccava a volte punte così alte (o così basse) che più di una volta mi sono scoperto, in un puro atto di incoscienza, a sfidare la notte uscendo sul tetto di casa a ululare alla luna. Naturalmente ben circondato e “cosparso” della luce proveniente da una decina fra torce elettriche, lampade a olio e lampadine portate fuori con una prolunga…

La curiosità verso il mondo esterno cominciò a farsi sempre più forte.

Non so bene né come, né perché ma, nei lunghissimi periodi che passavo da solo, avevo lentamente sviluppato dentro di me una sorta di venerazione per gli altri. Insomma, spiavo chiunque avessi a tiro. Cominciai con i miei genitori, a vedere ad esempio con quale metodo e perizia al mattino mia madre preparasse la colazione (è incredibile la quantità di azioni consecutive che ci sono da compiere), a seguire come mio padre si tuffasse letteralmente sui piatti che la mamma gli preparava per scappare via quasi subito dopo, rituffandosi nella sua auto in direzione dell’ufficio. Ma ben presto, annoiato anche da questo, dovetti passare ad altro e cominciai a contemplare i vicini di casa, poi i proprietari dei locali della zona, poi, sempre più in là, a spingermi fino alla mia vecchia scuola. Avevo ricavato il passaggio… No, non indovinerete mai, quindi tanto vale che ve lo dico subito: avevo ricavato un passaggio dalla ribalta del mio vecchio banco! Fui spettatore di molte risate, di molte lacrime e delusioni, di molte gioie (come quando la vicina rientrò in casa col suo piccolo appena nato), di molte liti e punizioni e castighi, di molte bugie e verità che fanno ancor più male, di tafferugli, baci, carezze e confessioni, di molte unioni (ma non entravo mai per mia scelta nelle camere da letto), matrimoni, nascite, morti e quelli che avevo compreso essere tradimenti. Entravo, non visto, nelle vite di molte persone, nessuna delle quali aveva mai pensato di poter essere spiata in quei momenti cruciali delle loro vite (tutti i momenti della vita sono cruciali), e tanto meno che quella spia potessi essere io. Quelle persone non avrebbero mai saputo né quale era la mia faccia, né il mio nome.

Per un bambino (ero ancora molto piccolo) che viene privato così del tutto della sua infanzia, non è certo uno scherzo. Mi mancava la mia vecchia vita sociale. Oddio… “Vita sociale”… avevo sei anni l’ultima volta che ricordavo di averne avuta una, quindi non era stata sicuramente niente di che… Diciamo che mi mancava quell’abbozzo che ricordavo della mia vita sociale. Mi mancavano i bambini delle elementari, i giochi all’aperto nel cortile, le altalene, lo scambio delle figurine… Mi mancava insomma tutto quello che è il mondo di un bambino della mia età e delle età precedenti che non avevo vissuto. Mi mancavano i miei genitori, anche se ero sicuro che, anche vedendomi, non mi avrebbero neppure riconosciuto.

Sentivo l’atroce mancanza di moltissime cose. Ma soprattutto di un amico. Qualcuno della mia stessa età con cui confidarmi e condividere esperienze. Passavo notti intere (la notte non dormivo mai, avevo cominciato a scegliere per riposarmi il giorno, decisamente più sicuro) a fantasticare su come sarebbe stato divertente avere qualcuno con cui parlare e mostrarmi per quel che ero. Cominciavo ad essere spasmodicamente attratto dai bambini. Quelli della mia età, i figli degli uomini, i bambini dell’età di quando avevo abbandonato il sentiero sociale costellato di abitudini degli uomini. Quel sentiero di normalità fatto di risvegli al mattino, di pasti consumati in orari prestabiliti, di discussioni accese sulle cose inutili della vita e di poche parole sulle cose fondamentali. Quel viale incerto in cui si barcamena insomma per una vita intera ogni persona rispettabile. Guardavo quei bambini ogni volta che mi era possibile farlo. Cioè in continuazione. Li seguivo ovunque, qualsiasi cosa facessero: che giocassero, che parlassero fra di loro, che litigassero o facessero amicizia. Li cercavo perfino nelle situazioni meno interessanti, quelle dalle quali non avrei potuto “imparare” niente, pure quando dormivano o quando facevano il pisolino pomeridiano fra le braccia dei genitori.

Tale era la mia invidia per le loro vite autentiche che io, che una vita “autentica” non l’avevo già più da qualche anno, non potevo fare a meno di pensare in continuazione a loro ed alle loro abitudini, alle loro movenze di ogni giorno, ai loro improvvisi scatti d’ira ed alle loro altrettanto repentine dimostrazioni d’affetto, verso il papà, verso la mamma, verso il migliore amico, verso il cane… Li osservavo, rapito, da ogni possibile angolazione, creando mentalmente un album coi loro visi, le loro espressioni (che fossero di meraviglia per un nuovo giocattolo ricevuto o di disgusto per il cibo che non volevano, non importava), le loro routine, le loro preferenze.

Avevo preso ad avvicinarmi a loro in maniera sconsiderata. Quasi non mi importasse più di cosa potesse nascondersi nelle loro camerette, sotto i loro tavoli da pranzo, fra i fili d’erba dei loro giardini. Per di più, mi era anche passata la voglia di mostrarmi in piena luce solare per quel che ero. Per quel che ero diventato: un reietto. Uno scarto. Un bambino strano che sarebbe sicuramente stato deriso e scacciato da tutti.

Poi avvenne il fatto.

Come ho detto, ero talmente attratto da questi bambini (che consideravo ancora della mia età, ma che forse, ripensandoci, non lo erano più) che avevo iniziato ad avvicinarmi sempre di più a loro. Ormai non mi bastava osservarli, ma adesso avrei addirittura adorato di vederli più da vicino. Com’era possibile che io, un giorno, fossi stato davvero così? Era una cosa davvero immaginabile? I miei stessi genitori da parecchi mesi si limitavano a lasciarmi una semplice scodella di riso o con del pane e qualche verdura bollita davanti all’uscio della mia camera. Perfino loro non si ricordavano più, ne ero sicuro, che faccia avessi. E io avevo cominciato a dimenticarmi del mio stesso nome. B… Era qualcosa che cominciava per B, ma non mi sale più dalla memoria. Forse B come Bruno. O B come Beppe. O Benedetto… Non esistono molti nomi maschili che cominciano con la B. Perché io sono un maschio…

Comunque non importa… Dicevo che avvenne il fatto. Andavo in giro per una delle mie solite escursioni. Avevo appena finito di ultimare la mia ultima porta, costruendola all’interno del comparto delle verdure del frigo di casa mia. Dai, chi va mai a cercare nel comparto delle verdure? Ed ero proprio curioso di vedere dove quel nuovo tunnel mi avrebbe portato.   

Scoprii con neanche troppa sorpresa che conduceva al minimarket giù all’angolo. E dove poteva mai aprirsi una porta costruita in un frigo? Spostai con attenzione, in maniera da fare più piano possibile, alcune lattine che mi ero ritrovato davanti: ero sbucato nel banco delle bibite gassate, su un ripiano nel mezzo. Guardando meglio di fronte a me intravidi delle figure: erano dei bambini che parlottavano fra di loro su cosa sarebbe stato meglio e più gustoso da portare a casa e scolarsi per il fine settimana. Il loro piccolo carrello era già pieno di dolciumi assortiti. Si prospettava per loro davvero un bel week-end! Poi i bambini diventarono un bambino solo e questo si fece avanti. Forse aveva intravisto qualcosa fra le lattine della Coca Cola. Ne prese in mano una che subito gli scivolò di mano e precipitò nel carrello. Mi aveva visto! Ero io quel riflesso che aveva visto di sfuggita sullo scaffale! Fece un salto indietro, ma io lo fermai. Lo afferrai per una mano. E ,non so come, ma devo avergli fatto male perché lui disse Hai! e sul suo polso comparvero dei piccoli graffi.

Impaurito, il ragazzino mi chiese: Chi sei?

Io risposi: B…. B…. Babau.

Giuseppe Conti