La settima arte contempla evidentemente le precedenti sei, ma a parte che per l’aspetto formale (l’immagine, il suono, il dialogo) c’è da considerare che spesso il cinema si riferisce alle altre arti proprio nel soggetto. Nel campo dell’horror questo è particolarmente vero per la pittura (quante opere, oltre al Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, sono basate su quadri maledetti?) e per la musica, la quale in aggiunta a costituire un elemento essenziale di un film perché ne sottolinea o esalta l’atmosfera, può essere spunto per una trama. E’ questo è particolarmente vero per la musica metal o hard rock, perché la sua carica dirompente e sovversiva ben si sposa con quella altrettanto destabilizzante e anticonformista dell’horror.
Possiamo allora iniziare il discorso con Le streghe di Salem del 2012, perché il suo regista Rob Zombie è un musicista, leader del gruppo alternativo White Zombies, e il suo film è totalmente imbevuto di cultura rock: la protagonista è una musicista e DJ che riceve un disco demoniaco suonato dai Lords of Salem, una band che farà fortuna e che la invita a un suo concerto nella città del Massachusetts, dove lo spettacolo sarà però molto diverso e torneranno gli incubi del passato. Il tema musicale nel cinema del terrore è però molto più antico: nell’ambito nel New Horror risaliamo al 1974 con Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma – ma in questa sede non ci occupiamo dei musical. Del 1977 è Sette note in nero, thriller parapsicologico di Lucio Fulci, sicuramente uno dei suoi migliori prodotti, dove la protagonista ha delle visioni che la porteranno a credere di aver scoperto un delitto del passato (un cadavere murato in una casa) ma che scoprirà invece essere una premonizione del futuro. Le sette note sono quelle di un carillon che le viene regalato e che costituiranno il leit-motiv di tutta la colonna sonora, sottolineando alcuni momenti importanti, e che alla fine si riveleranno essere la soluzione di tutta la vicenda, in un finale che conclude un film sofisticato e splendidamente orchestrato (è la parola giusta!) in tutta la sua durata. Una citazione veloce merita The Driller Killer del 1979, opera prima ingiustamente dimenticata di Abel Ferrara, in cui la musica non è l’elemento essenziale ma ha una sua importanza perché il protagonista (un pittore frustrato che diventerà serial killer a colpi di trapano) vive nel Low East End nuovayorchese, quartiere dei punk, e ne assorbe l’atmosfera, seguendo i concerti e le prove (sono vicini di casa) di un gruppo pisichedelico di nome Roosters. In ogni caso la musica ha qui più valore che nel mediocre Dodici rintocchi di terrore di Emmett Alston del 1980 (uno psicopatico che ha deciso di uccidere al rintocco della mezzanotte dell’ultimo dell’anno e riesce a inserirsi in una trasmissione di musica rock costringendo gli spettatori ad ascoltare l’agonia della sua vittima) e in Monster Dog – Il signore dei cani di Claudio Fragasso del 1984 (una band si reca in una casa isolata per girarvi un videoclip ma si troverà a lottare contro un cane mostruoso), mediocre anche questo. E lo stesso si può dire per il successivo Blood Tracks – Sentieri di sangue di Mats Helge (1985) dalla trama simile (in questo caso la band resta isolata da una valanga e si trova minacciata da una famiglia di cannibali) e per il blando fantahorror Vicious Lips di Albert Pyun (1986), il più brutto film di un già mediocre regista, che ricicla in chiave fantascientifica la stessa idea (una band, stavolta tutta al femminile, mentre è in viaggio su un’astronave è costretta ad atterrare su un pianeta popolato da mostruose creature).
Assieme a pochi altri (Sette note in nero, Paganini horror e forse Opera), il film più rappresentativo sull’argomento sembra quindi Morte a 33 giri di Charles Martin Smith (1986), e non a caso queste pellicole hanno anche i titoli più emblematici. Definire un’opera rappresentativa non vuol necessariamente dire che sia anche bella, infatti Morte a 33 giri è trascurabile, anche se rispetto alla sua prima apparizione è stato un po’ rivalutato.
La storia di un divo del rock che muore in un incendio ma si ripresenta come fantasma o zombi, grazie a un suo fan che fa girare un disco al contrario, e dopo aver compiuto vari misfatti scompare grazie all’eliminazione della matrice del disco, non è particolarmente avvincente né ben costruita. Niente scene splatter, poca tensione, svolgimento prevedibile; quello che resta è la rivendicazione della vitalità della musica rock e la riuscita rappresentazione del contrasto generazionale tra i giovani e l’establishment (godibile la presenza del leader dei Black Sabbath Ozzie Osbourne nei panni di un sacerdote convinto della matrice satanica della musica rock!). E, naturalmente, la vibrante colonna sonora, che ha vissuto di vita propria, come accadrà poco dopo con il fortunatamente inedito in Italia Black Roses di John Fasano (1988), la cui colonna sonora heavy metal è conosciuta anche da noi.
Nonostante il riferimento al celebre compositore classico e virtuoso del violino, rientra nel nostro approccio anche Paganini horror di Luigi Cozzi (1989), perché vi ritroviamo una band femminile che intende registrare una canzone basata appunto su uno spartito inedito di Niccolò Paganini, ritrovato in circostanze oscure. Per girare il relativo clip le ragazze si recano proprio nella casa veneziana dove visse il violinista e dove secondo la leggenda strinse un patto con il diavolo per avere l’abilità che gli fu riconosciuta e gli procurò immensa fama; ebbene, pare che nella casa alberghi ancora il suo fantasma, che si renderà colpevole della decimazione del gruppo. L’idea di partenza era ottima, ma la realizzazione risulta manchevole, basata su stilemi ormai vecchi e abusati nonostante il ricorso a qualche scena di stile argentiano (Cozzi è stato aiuto regista di Dario Argento, e nel cast è presente la compagna di questi Daria Nicolodi, collaboratrice anche alla sceneggiatura). A proposito di Argento, nel novero dei film musicali va compreso anche il suo Opera del 1987, anche se la musica non è il tema centrale e non è completamente rock: Claudio Simonetti (ex Goblin) scrive delle arie di impianto più classico, in linea con l’ambientazione e l’argomento del film. Il cui spunto nasce dalla leggenda che il Macbeth porti sfortuna e provochi guai alla compagnia che lo mette in scena (in realtà la superstizione vale per il dramma shakespeariano e non per il derivato melodramma verdiano che è al centro di questo film, ma non ha importanza) e difatti abbiamo un incidente alla soprano e la sua sostituzione con una cantante più giovane, che sarà oggetto di attenzione da parte di un maniaco che uccide tutti coloro che le stanno intorno. Più thriller che horror, pieno come al solito di delitti efferati, con scene molto curate e ricche di riprese in soggettiva, rappresenta forse il massimo del cinema argentiano dal lato tecnico e l’inizio della sua parabola discendente da quello concettuale. Dario Argento tornerà all’ambientazione operistica con Il fantasma dell’Opera (1998), poco riuscita versione del romanzo omonimo di Gaston Leroux e di minor interesse dal punto di vista musicale.
Con la fine degli anni Ottanta il tema comincia a spegnersi, le pellicole horror rock sono sempre di meno, e ancora più rare sono quelle che arrivano nel nostro Paese. Tra queste, il giapponese Wild Zero di Tetsuro Takeuchi (2000), con il complesso Guitar Wolf alle prese contro uno stuolo di zombi comandati da alieni, e il sudafricano Slash di Neal Sundström (2002), che come il precedente può vantare una discreta colonna sonora rock, ma per il resto è brutto, a partire dal soggetto che vede il solito gruppo rock prigioniero in una casa dove avvengono fatti misteriosi e terribili. Chiudiamo in leggerezza con Suck del 2009, scritto, diretto e interpretato dal canadese Rob Stefaniuk , una black comedy con una scalcinata band in cui i componenti diventano uno alla volta dei vampiri, e questo provoca un cambiamento di personalità e un nuovo look che favoriscono il loro successo, ma che ha anche aspetti molto negativi. Abbastanza divertente, ha il suo maggior pregio nel citazionismo musicale, quando il complesso reinterpreta i classici del rock a partire da quelli dei Beatles e degli Stones imitandone anche le movenze e la scena come ci sono stati tramandati dai filmati d’epoca.
Tutto sommato, sembra che nel complesso questi film siano la risposta all’ipotesi conservatrice che il rock fosse di ispirazione demoniaca, con le leggende nate già nella metà degli anni Sessanta che i testi contenessero significati nascosti e che i dischi ascoltati al contrario rivelassero contenuti satanici. Risposta, o conferma?
Gian Filippo Pizzo
Articolo tratto dalla “Guida al cinema horror” di Walter Catalano, Roberto Chivini, Gian Filippo Pizzo e Michele Tetro, Edizioni Odoya