ARCANA 11

Personaggi

- Giorgia Ferrarin, Erika Ferrari & Alessia Leblis, delle adolescenti del luogo.

- Padre Arles, uno strano prete morto da anni.

- Ermanno Burgio, unico abitante rimasto a Saletta, un tossicodipendente.

- Nina Balzaretti, la bibliotecaria di Asigliano.

- Germano Vittone, un proprietario terriero.

- Bruna Bertinetti, la donna coi cani.

- Daniele Pavia, docente di scuola media.

- la pitonessa, sacerdotessa d’una setta di ragazzini che si riunivano al tabernacolo nel 1979.

- la dama bianca, una figura trasparente che si muove lungo i campi, armata di rasoio.

- la bambina bianca, forse una fantasma della mente?

11 – Suor Omicidi seq. 4 (A. Alessandroni)

Erika si fermò in piazza a riprendere fiato.

La paura le aveva affilato il musetto da zingara.

Quante emozioni in poche ore.

La scoperta della tomba.

Nina che voleva farle del male.

Alessia e Giorgia irreperibili.

O no?

Un sms delle due che la cercavano.

Finalmente!

Dopo tutte le chiamate fatte!

Le dicevano di essere appena arrivate a Saletta e che la aspettavano. Anche loro avevano scoperto qualcosa. Che? Dopo gli ultimi avvenimenti Erika avrebbe passato volentieri la mano, ma semplicemente non poteva. Avevano iniziato quella cosa assieme e l’avrebbero finita assieme. Non voleva passare per fifona (cosa verissima!) per il resto della sua esistenza, sbeffeggiata dalle due compari di marachelle. Poi non moriva dalla voglia di confidare l’episodio del cimitero? Roba da puro film horror! Così riprese a mulinare i pedali dell’ecobici e filò oltre Asigliano, scivolando lungo la strada dissestata e autunnale che conduceva al tempietto. Arrivò che era quasi sera e non c’era molta luce. A quell’ora, lo sapevano anche i bambini, i vampiri cominciavano a stiracchiarsi nella fossa, in attesa del pasto. Sperò di non essere lei la cena. Lasciò la bici ben visibile sulla strada, senza legarla (meglio correre il rischio di farsela rubare, piuttosto che perdere tempo a slegarla in caso di fughe a precipizio) e s’avviò lentamente lungo il sentiero. Le bici delle amiche erano al solito posto, lungo il perimetro disseccato del cimitero. Aguzzando la vista, indagò le forme scure degli alberi che celavano il tabernacolo. Vide per un attimo delle torce che si accendevano e spegnevano, come per farle un segnale segreto. Rincuorata, accelerò il passo. Arrivata nei pressi del boschetto provò a chiamarle sottovoce. Una brezza di vento smosse delle fronte. Provò ancora. Nulla. Allora le chiamò col cellulare. Non prendeva! Maledizione, che fare? Un altro bagliore di torcia appena oltre le querce la spinse a fidarsi. Guardinga, abbassò il capo e s’immerse nella foresta sognante. Foglie vizze le s’impigliarono nei lunghi capelli castani. Sentiva il tappeto vegetale scricchiolare sotto le sneaker come una lingua di cristallo in un teschio. Tutto era così sinistro e l’idea di continuare ad avvicinarsi le pareva pazzesca, tuttavia l’eccitazione del pomeriggio le donava una carica sconosciuta d’esaltazione euforica. Erika scostò col palmo un rametto di rovi e bisbigliò verso le ombre. Intanto, sulla strada, dove aveva lasciato la bici, un gippone Nissan Terrano si fermò sollevando una nuvoletta di polvere. Ne scese Germano Vittone. La barba di due giorni e un’espressione torturata a scombinargli i lineamenti. L’uomo aveva una mano affondata nella tasca dell’impermeabile. Estrasse una pistola automatica nera come un carro da morto. Qualche centinaio di metri davanti a lui, Erika arrivò al vallo che circondava il tempietto. Larve di foschia cominciavano a levarsi dal terreno umido come uno stagno. Era un chiarore nebuloso e liquescente che disfaceva le radici degli alberi e ne inghiottiva i cespugli di rose. La ragazzina, tutta un etere di sospiri rantolanti, scavalcò il muretto boreale e arrivò ai piedi della costruzione che già tanti aveva ammaliato. Lì, ferma dinanzi allo psycho rudere a 12 colonne, aspettò di veder comparire le amiche; invece fu accolta da un lacerto d’urlo che le carezzò le vene, spegnendo ogni lume di euforia. Un grido secco e inumano che proruppe dalle viscere segrete del tempio. La paura non impietrì Erika, già pronta a volare sopra le lingue di nebbia per riguadagnare la salvezza. A fermarla fu l’ombra dolce di Alessia che le corse incontro, regalandole la carezza d’un bacio sulle labbra gelate. Intorno a loro anche le ultime tracce dell’estate torrida erano finite. Ora solo il sonno profondo dell’autunno e un oblio di salici piangenti. Alessia ricambiò e abbracciò la compagna.

- Cos’era quel grido? – chiese Erika.

- E’ Giorgia. Ti abbiamo fatto segno con le torce, ma tu non arrivavi mai e lei voleva scendere. Non so se sia inciampata sugli scalini. Da sola ho paura a scendere. Forse vuole solo spaventarci.

- Se ci fosse qualcuno là sotto ad aspettarci? – pensò.

La figura digrignante di Nina Balzaretti, la mite bibliotecaria, era sempre stampata nella mente.

- Non possiamo lasciarla lì.

- Meno male che sei qui. Da sola non saprei cosa fare.

- Il tuo cellulare prende? Prova a chiamarla.

Non fecero in tempo a completare il numero che Germano Vittone sbucò alle loro spalle, facendole sobbalzare. Entrambe strillarono come invasate e l’uomo dovette agitare a lungo le braccia per sedarle. Alla fine riuscì a farsi sentire.

- Cosa ci fate qui a quest’ora? E’ un posto pericoloso.

- Signor Vittone, per poco ci faceva morire.

- Dov’è Giorgia.

- Ecco vede, eravamo qui, non facevamo nulla di male, quando Giorgia è voluta scendere sotto la cripta e dev’essere scivolata.

Un orribile tic nervoso contrasse la mascella del coltivatore. L’idea di essere lì doveva pesare più che a loro.

- Ho capito. – disse solo.

Poi fece segno di rimanere immobili e aggirò la costruzione, sparendo oltre le colonne doriche.

Da dov’erano non potevano vedere quello che vedeva lui. Un’apparizione che lo riportò a una notte di 36 anni prima, quando una febbre folle gli aveva infiammato il cervello. Germano avanzò a fatica tra i grovigli di carpo. Un sudore gelatinoso gli appesantiva le palpebre. Più volte dovette scacciare l’immagine impressa del volto di Giulia, maciullata dalle ruote dei carabinieri, il cranio sfondato e il cervello schizzato dappertutto. Si sfregò la faccia e sospirò di paura, mentre il cuore gli mordeva il petto. Riuscì a dissolvere il viso di Giulia, ma non la sagoma bianca che danzava tra le colonne. Una dama bianca che lo aspettava dinanzi all’ingresso della cripta. Germano estrasse la pistola e s’avvicinò…

Nella multiforme epifania dei caramba, nessuno s’era accorto di lei. Si sentiva tanto speciale, unica. Eppure, nel marasma generale, s’erano dimenticati della regina. I suoi amici erano scappati come topi. I carabinieri erano scivolati come nelle comiche, avevano bestemmiato, cercato l’uscita a tentoni. Li aveva sentiti mentre rombavano dietro ai motorini. Poi il silenzio eterno del luogo l’aveva avvolta nuovamente. Lei, la sacerdotessa d’una banda di perdigiorno di paese. Lei la pitonessa, Bruna Bertinetti, istruita da un prete pedofilo che, prima di tirare le cuoia, s’era tolto su di lei ogni soddisfazione. In cambio le aveva donato un cifrario di segni informi, cabale arcane, procedimenti iniziatici a cui aveva prestato fede e giuramento. In quell’ennesimo travestimento aveva cercato un nuovo inizio, una possibilità per non sentirsi esclusa, inadeguata, diversa. Le decorazioni multicolori del suo corpo fiorito avevano immaginato i sogni vivifici di un’eternità capace di proiettarla oltre i vincoli inalterabili di chi nasce. Sognava di recitare in eterno la parte della baccante del dio e sottrarsi così al terrore di vivere. Eppure tutto era finito in una farsa comica, una caotica pernacchia pubblica. Non sarebbe riuscita ad attraversare le soglie dei due mondi se non come muto cadavere. Gli anni l’avrebbero spogliata della bellezza, della forza, della lucidità. Sarebbe precipitata poco alla volta nelle cavità sotterranee dell’abisso. Prima o poi la morte contadina sarebbe venuta a trovarla. Magari le avrebbe strizzato il cuore, occluso una vena del cervello, o fracassato una pentola di acqua bollente sulla testa…

(11 – continua)

Davide Rosso