Sulla Zona vediamo un sottofilone, esiguo, tra gli anni ’60 e il decennio successivo. Il cinema di genere italiano aveva esplorato brevemente (e senza troppi successi commerciali) il gotico, esploso negli anni ’60 grazie ai successi della casa inglese Hammer. Nei primi ’70 (soprattutto nel biennio ‘71/’72) sarà il thrilling nato sulla scia dei successi di Dario Argento. A cavallo di questi due decenni, alcune pellicole gotiche si sono mescolate (involontariamente) con alcuni aspetti propri del giallo italiano, producendo opere singolari e gustose. Ne scorro alcune, senza la pretesa di esaurire l’argomento [1].
Del 1962 è un film bellissimo di Alberto De Martino, dal titolo programmatico: Horror. La Artus Films francese ne ha editato il dvd nella collana Les chefs d’oeuvre du gothique, col titolo Le manoir de la terreur; tra i supplements segnalo il documentario di 30 minuti Le mostre de Blancheville, una conversazione sul film con Alain Petit.
Horror è un gotico in tutto e per tutto.
C’è il castello.
La maledizione che incombe sulla protagonista, Emily, simile a quella alla base del plot de I vivi e i morti di Corman, evidente riferimento della pellicola di De Martino. Il film sfoggia un bianco e nero bellissimo, curato da Alejandro Ulloa, che ben si sposa col fascino medievale dei ruderi, le vecchie abbazie, le catacombe e le sepolture premature. Insomma il film raggruppa tutti gli elementi comuni di un gotico, rispettandone la forma estetica. Tuttavia De Martino e i suoi sceneggiatori (tra cui Bruno Corbucci) innestano un meccanismo di detection inedito e fuorviante per un gotico nudo e puro. Ciò che capita a Emily, gli eventi sfortunati, la figura sfigurata con bautta e voce sepolcrale, sono elementi artificiali orditi da qualcuno che trama nell’ombra per farla impazzire. Il colpevole è animato da pensieri folli e superstiziosi e, nel finale, una volta smascherato, esibisce un volto sudaticcio che anticipa certi psicopatici da thrilling anni ’70. Inoltre l’assassino, oltre a un’iconografia già classica (appunto la bautta, la maschera, il pugnale) non esita a eliminare chiunque lo ostacoli, inaugurando una lunga catena di omicidi brutali. Insomma, su un canovaccio perfettamente giocato sul fascino per il soprannaturale cupo e minaccioso (un Ottocento vago, in preda a indescrivibili orrori e fantasmi), De Martino cala un asso moderno, stridente, facendo muovere nell’ombra un pazzo lucido, intenzionato a soddisfare le sue bramosie. Per questo Horror è in anticipo di alcuni anni sull’elaborazione narrativa che dai crime tedeschi ispirati a Edgar Wallace porterà alle strutture patologiche del giallo italiano, poco insistito sull’indagine scientifica, a favore dell’irrazionale, della paura, del rituale malato del killer dalla mano guantata di nero.
Del 1969 (ormai a cavallo con l’esplosione del thrilling) è La bambola di Satana di Ferruccio Casapinta, con Erna Schurer. Anche questo film ha molte analogie coi crime tedeschi diretti da Alfred Vohrer (penso a un Teschio di Londra del 1968). La trama è quella di un classico Scooby-Doo movie, con la giovane protagonista che eredita un castello gotico e finisce al centro di un complotto dal sapore ultraterreno. Lo scopo è quella di spaventarla e costringerla a vendere il castello, sotto al quale si trova un ricchissimo giacimento di uranio. L’assassino, e i suoi complici, non esitano a somministrare alla ragazza una droga allucinogena che la precipita dentro cripte infestate da incappucciati con tizzoni ardenti, croci di S. Andrea e fantasmi dell’opera sfigurati. Ma è solo una bieca montatura, mossa dalla bramosia terrena. Pur tra molte lentezze, il film di Casapinta, restituito in blu-ray in una edizione di lustro della X-rated, sfoggia colori psichici e grotteschi, da copertine del pornofumetto di allora. Inoltre le apparizioni dell’assassino mascherato da mostro sfigurato anticipano quel bisogno primario dell’assassino (nei ’70) di mascherarsi, per celare le sue deformità fisiche o mentali. Da riscoprire.
Del 1963 è un altro ibrido interessantissimo, La frusta e il corpo di Mario Bava, con Christopher Lee, Daliah Lavi e Tony Kendall. Io ho il dvd scarsino della VCI americana, con commento audio di Tim Lucas e il bonus della colonna sonora di Carlo Rustichelli. La frusta e il corpo ha una ambientazione da Ottocento vago e indefinito (così come la geografia dei luoghi). Cavalli, castelli, baronie latifondiste, servaggio, domestiche, lampade a olio che oscillano nelle pieghe delle tenebre. E personaggi immobili, da tragedia grottesca dell’Io. Daliah Lavi (immensa) tratteggia un personaggio femminile in balia dei propri furori uterini repressi. Dominata da un Lee/Byron vampiresco che la possiede e la inizia alle gioie del sesso sadomaso con frustino (da qui il titolo). Per l’epoca, pur senza mostrare nulla (lo ripeto: nulla; Bava era/è/sarà sempre un genio), la pellicola ha un tasso di perversioni da capogiro. La morte misteriosa di Lee aprirà la trama a ipotesi ultraterrene, con lo spettro dell’attore inglese a funestare i destini di un casato ormai al tramonto. La Lavi sarà perseguitata dallo spettro di Kurt/Lee, ora vampiro dal viso inondato di rossi, ora mano verdastra simile a un grosso ragno sbucato dal buio. Bava si sbizzarrisce con le metafore visive, ma non dimentica di costruire la sagoma di una figura femminile (quella della Lavi) assai complessa. La ragazza, sposata per forza al fratello di Kurt, è rimasta traumatizzata dalle iniziazioni sessuali a colpi di frusta e non riesce a dimenticare ciò che provava tra le braccia del fratello perverso. Il personaggio di Lee la perseguita nella mente, costringendola a portare avanti i delitti (ucciderà il vecchio barone). Nel finale, quando tutte le ipotesi arcane decadono, il viso della Lavi/Nevenka è già segnato da quei pallori sudaticci, quegli occhi spiritati di tante assassine dei thrilling dei ’70. Nevenka/Lavi è insomma, nonostante l’apparato iconografico classico del gotico anni ’60, un prototipo delle assassine seriali mosse da occulti traumi sessuali. Anche la musica di Rustichelli aiuta a percepire i sottotesti ossessivi del film. Su una partitura classica e orchestrata, il musicista privilegia toni ripetitivi e melodrammatici, incentrati su una melodia malinconica e drammatica, esasperata dall’enfasi del pianoforte e dei violini. Questa monotonia sinfonica è disturbata da sotto tracce inquiete, più sperimentali, come pensieri malati che solcano il proscenio buio di una mente melanconica. Nel finale poi, Bava scompagina le carte, lasciandoci il dubbio sul fatto che Nevenka sia pazza per la morte del suo amante/padrone Kurt, oppure sia davvero stata manovrata dallo spirito dannato del morto; infatti vediamo la bara scoperchiata di Kurt/Lee avvolta dalle fiamme, col cadavere putrefatto ad arrostire e, ai piedi del catafalco, ci viene mostrata la famigerata frusta, mossa forse dalle fiamme, forse dalle emanazioni oltretombali del defunto. Pur non essendo uno dei miei Bava preferiti, La frusta il corpo è un film capace di tumulare la filmografia intera di parecchia gente.
1965, La lama nel corpo, raro gotico recentemente tornato alla visibilità grazie all’edizione in blu-ray della tedesca Film Art (edizione da collezione, numerata, che sfoggia una versione restaurata meravigliosamente nei colori quasi baviani). La lama nel corpo è attribuita al produttore Elio Scardamaglia (anche se altre voci indicherebbero Lionello De Felice), mentre lo script è degli specialisti Ernesto Gastaldi e Luciano Martino (poi produttore di molti thrilling erotici nei ’70). La lama è un ibrido felicissimo che (ri)propone il corredo di castelli, ville, corridoi, donne in vestaglia che s’aggirano armate di lume lungo segrete cupe e pericolose, miscelando tali elementi con una linea thrilling in forte anticipo sui tempi (e non è casuale che a incarnare i due filoni sia sempre Gastaldi, tra gli sceneggiatori più prolifici dei gotici anni ’60 e dei thrilling anni ’70). La trama verte su una clinica ottocentesca per donne nevrotiche, affidate alle cure di un William Berger gelido e ambiguo. Il film ammicca alle mode del tempo, strizzando l’occhio ai prodotti americani tratti da Poe e ai film Hammer, immergendo la pellicola in un bagno coloratissimo che deve tutto alla lezione di Bava e di certo Margheriti (penso alla Vergine di Norimberga). Come già accennato, al retrogusto passatista e oscuro del gotico, si affianca una scrittura tersa, vibrante, nervosa, tipica del thrilling. Tutto si muove da una moglie rosa dalle tare della gelosia, che uccide qualunque donna possa irretire il volubile consorte (Berger, il medico piacione della clinica). La donna scivola progressivamente nella follia e incolpa la sorella sfigurata, sorta di mostro femminile che fa coppia con quello di Horror. I delitti sono stilizzati, ancora lontani dall’estetica raffinata e gelida di Argento, tuttavia i prodromi sono quelli: l’assassino indossa una maschera, ha una bautta nera, il rasoio. E anche le meccaniche che muovono gli altri personaggi sono tipiche del thrilling, con la figura del dottore che si carica di sospetti e si muove furtiva, cercando di coprire le tracce dell’assassino. La lama verrà pesantemente ripresa da un thrilling gotico come La bestia uccide a sangue freddo, del 1970, dove Kinski sostituirà Berger in un contesto novecentesco e moderno, infettato da una figura col mantello che si aggirerà lungo i corridoi della villa/castello piena di donne nevrotiche e ninfomani.
Scivolando in epoca tarda, abbiamo Lisa e il diavolo (1972) di Mario Bava, capolavoro surreale e onirico, ricco di spunti letterari e figurativi; il film è un gotico puro, con casale abbandonato nella vegetazione, personaggi dalle proiezioni inconsce, quasi automi in balia dei propri primitivi istinti selvaggi. Tuttavia Bava, nelle varie sottotrame intrecciate, copia evidentemente da Psycho nel costruire il personaggio di Alessio Orano, novello Norman Bates in balia della madre castrante Alida Valli. Orano, tradito dalla sua amata (una gelida Elke Sommer), impazzisce e la uccide, conservandone il corpo putrefatto tra le coltri di un letto a baldacchino. E l’uccisione di un’ospite inattesa (Sylva Koscina) è girata in puro stile thrilling, con la sagoma rossa del pazzo che s’aggira nei piani superiori abbandonati del casale, armato di una sorta di bastone scettro. Anche l’uso insistito di manichini (e bambole, tutti i personaggi alla fine si scopriranno bambole nelle mani del diavolo) rimanda ai thrilling più surreali di quegli anni; la bambola, il manichino sono proiezioni feticistiche di giochi infantili protratti malsanamente in età adulta, sono spie di un disagio psichico che sfocerà presto nel trauma delittuoso e parafiliaco. Il manichino inoltre è un calco del corpo umano senza vita, ombra spaventosa dei morti, quindi sineddoche della stessa morte.
Il sesso della strega di Elo Pannacciò (1973), recentemente stampato in dvd dalla Cinekult (dopo la gloriosa vhs di Lamberto Forni). Anche qui siamo dalle parti di un “abbiamo sempre vissuto nel castello”, coi soliti personaggi snob che si aggirano sfaccendati in un casale dai colori a tempera, che rimandano alle folgoranti copertine dei fumetti neri del tempo. Il sesso è un film ambiguo, strano, che oscilla tra l’opera sperimentale (fallita) e il thrilling di grana grossa. Voci off alla Carmelo Bene che delirano surrealisticamente, un soggetto ai limiti della follia (incentrato su strane pozioni che permettono di cambiare la composizione delle cellule del corpo) e nudi gratuiti e grossolani (Marzia Damon, qui al suo apice, si sfrega la passera tra loculi e bare). Un’aria stantia, funeraria, di morte, impregna la pellicola, che inizia su una veglia funebre in chiave pop e finisce sul primo piano di una serva con le gambe aperte. Tutti finiscono male, escono di scena quasi senza essersi presentati. Camille Keaton ripropone il suo personaggio classico alla “Solange” e si ritrova demente e balbuziente. Che altro dire? A me piace molto, ripeto, più per l’atmosfera mortifera e i colori accesi, sparati, saturi. Il gotico è declinato in chiave moderna (degli eredi fighetti, coi bei vestiti del tempo e un Gianni Dei uscito dal Piper), ma la minestra è sempre la stessa: una eredità contesa, una maledizione e una tara genetica che infetta il casato. L’assassino, evanescente, ammazza con quel che gli capita a tiro, a volte una mazza, a volte degli anelli di giava!
La morte negli occhi del gatto di Antonio Margheriti (1973), uno degli ultimi gotici puri, ancora ambientato tra castelli, antiche maledizioni, gente in carrozza. La morte sembra confrontarsi con quelle riletture pop e irriverenti operate nel medesimo periodo da Morrissey, aggiungendoci maggiormente delle derive da italian giallo. La storia è ripresa dal soggetto di Nude si muore, sempre di Margheriti. La sceneggiatura è di Giorgio Simonelli, in quel periodo autore di un capolavoro letterario come Dieci bare e un sepolcro, nella collana “I racconti di Dracula”. Le musiche di Riz Ortolani riciclano quelle di La vergine di Norimberga e di Nella stretta morsa del ragno. Il cast è splendido e inedito: una virginale e ingenua Jane Birkin, un Hiram Keller nella parte del conte sospettato e folle, un Venantino Venantini prete, Antony Diffring medico cinico e puttaniere. Ciliegina sulla torta, l’ispettore col torcicollo e il bastone, interpretato amichevolmente da un Serge Gainsbourg surreale. Questo è uno dei miei film preferiti, forse appunto per quest’aria da fine dei giochi che si respira, forse per la capacità degli sceneggiatori di coniugare perfettamente tutto il campionario retorico del genere e fonderlo con il dolce stil novo del thrilling. Infatti, tra castelli, presunte maledizioni vampiresche e gatti, un assassino molto concreto ammazza i vari comprimari della vicenda a colpi di rasoio. Alla Birkin risolvere l’arcano prima che sia troppo tardi. Qui, le dinamiche omicidiarie sono mosse da motivi legati al patrimonio, cosa che riporta all’umorismo nero di certo Bava. Il resto è una regia meravigliosa e calligrafica del maestro Margheriti. Il resto è sogno, voglia di abbandonare questo mondo vile e tardoCapitalistico, regredire in una Scozia ricostruita a Cinecittà, alla buona, alla carlona, senza orari, impegni e altri doveri se non quello di restar vivi ancora un poco…
Tirando il collo alla gallina.
I gotici di cui abbiamo parlato, tra i ’60 e i ’70, condividono, assieme alle figurazioni horror, abbozzi di whodunit, di indagini, quasi mai affidate a investigatori esperti, bensì ai caratteri casualmente coinvolti nella vicenda. Il whodunit è centrale nei thrilling per l’individuazione del colpevole: alcuni personaggi ambigui, tra loro un pazzo. Nei thrilling l’arredo è urbano, qui medievale. Altro punto di tangenza è l’ossessione dei personaggi, ossessione che degenera quasi sempre nella follia omicida. Le ossessioni sono principalmente di natura sessuale, fiorite in un contesto sociale ancora opprimente (l’Ottocento da salotto messo in scena da un’Italia anni ’60, castratissima e DC dipendente) e fintamente puritano. La sessualità malata porta alla gelosia, o al bisogno feticistico di possedere per sempre la persona amata (le derive necrofile in Lisa e il diavolo). Altre patologie che portano al delitto nascono dai motivi legati a un ingente patrimonio, a una eredità cospicua (Horror, La morte negli occhi del gatto in particolare, con Venantini finto prete con sotto un frac e farfallino, già pronto per entrare nel jet-set dell’Avvocato). Altre piste, più propriamente gotiche, sono quelle legate a una antica maledizione, qualcosa di oscuro e genetico, di famiglia (Il sesso della strega). Questo tema deriva dai testi classici di Poe e viene attualizzato anche nei thrilling dei ’70 come Libido e La dama rossa uccide sette volte. I gotici dunque sono un laboratorio narrativo che alimenta, in meno di un decennio, molti spunti che troveranno pienezza nei gialli del decennio successivo. I thrilling sostituiranno i castelli con le ville borghesi, i calessi con le auto e i panfili, le lampade a olio coi giradischi, tuttavia le ansie di molte eroine nevrotiche in vestaglia risorgimentale aleggeranno anche nelle giovani figlie dei fiori e del benessere da dopo boom; giovani hippy giramondo comunque oppresse da traumi del passato, voyeur e maniaci all’arma bianca (la mano guantata è l’intrusione fantastica, surreale, il sostitutivo del mostro sfigurato e con bautta degli horror). Anche musicalmente è possibile rintracciare un mutamento tra i gotici dei ’60 e i thrilling dei ’70; infatti le colonne sonore degli horror di cui abbiamo parlato sono affidate a compositori di razza come Riz Ortolani, Armando Trovatoli, Carlo Savina, Carlo Rustichelli, Francesco DeMasi, Roberto Nicolosi e hanno partiture ancora orchestrali, in certi casi molto jazzate. I thrilling, spesso affidati ai medesimi compositori, declineranno la musica classica verso le dissonanze di certi compositori come Berio e Nono, oppure amplieranno il bagaglio jazz (Piccioni, Umiliani, Gaslini), incrociandolo con le nuove mode del rock (Lallo Gori), del progressive (Simonetti, i Goblin, i Trans Europa Express), fino all’elettronica pura (certo Frizzi, Carlo Cordio, certo Fidenco o, in anticipo su tutti, Gino Marinuzzi jr.).
Davide Rosso
[1] Per un elenco esaustivo rimando ai molti volumi dedicati all’argomento; posso segnalare, per piacere personale la voce “gotico”, compilata da Antonio Bruschini & Antonio Tentori nella bellissima introduzione (vale il volume) a I colori del buio di Luca Rea. In questo articolo preferisco concentrarmi su quei film prevalentemente gotici che innervano tematiche thrilling, quindi non tratterò pellicole come La notte che Evelyn uscì dalla tomba o La dama rossa uccide 7 volte.