LA MANTIDE 02

Un mese dopo

Il paese di Albiceleste è un piccolo centro nato nel corso del medioevo, sorto sulla riva di un fiume (un fiume il cui nome fa comodo tacere) che si getta come tanti altri fiumi del nord Italia nel Po, separato dal letto del fiume dalle colline, che pigre cominciano da lì il proprio ondulato percorso di ascesa. Furono pescatori fluviali, piccoli coltivatori, orafi e minuscoli commercianti, gli abitanti del paese di un tempo. Ora non resta che un migliaio di anime, qualche piccolo traffico locale, legato per lo più alle briciole che lascia per strada il turismo delle grandi metropoli o il passaggio degli stranieri verso la zona collinare. Si mantiene viva una certa attività locale, negozietti e piccole opere di artigianato, che si appoggiano e si foraggiano attraverso i soldi che i pendolari portano indietro dai loro impieghi nelle città vicine. Resta una scuola, che vanta una sola sezione per le elementari e parimenti per le medie, una chiesa centrale e una di periferia (adibita alle esequie, con le sue candele alte e la cripta gelida, attorno a cui si radunano i parenti, durante i vespri), una stazione ferroviaria, la minuscola caserma di polizia e un cimitero, che dal centro abitato deborda fin quasi sul ciglio del fiume, a sottolineare l’esigenza di tenere i morti separati dai vivi (la mattina, stanche e sfibrate processioni di vecchine compaiono di tanto tra la nebbia, traballando come monache con i fiori in mano sul viale che porta al camposanto).

In un luogo così chiuso e appartato, abituato solo al passaggio occasionale di qualche distratto turista che ha smarrito la via maestra, l’arrivo in pianta stabile di uno straniero è un qualcosa che rovescia l’ordinario corso delle cose. Fu così per l’ingresso in paese di Eugenio Nitti, giovane professore con incarico a tempo determinato presso la scuola media di Albiceleste. Il professore, un giovane uomo magro e con i capelli castani tirati all’indietro, era un soggetto solitario, che mal si adattava alle chiacchiere del paese. Era stato avvistato più volte prendere la via che dal paese conduce al Parco Naturale, meditabondo, come se stesse sul punto di risolvere chissà quale arcano incastonato nella testa stretta e ossuta, da reverendo.

E anche oggi le comari del paese che si riuniscono attorno alla fontana al centro della piazza hanno registrato con coloriti commenti il passaggio del giovane professore:

- Ma chi ce l’ha mandato, quello spaventapasseri?

- Pare se lo mangino i vermi.

- Dicono che faccia una strana danza, tutto nudo, sul balcone di casa sua.

- Addirittura?

- A quello lì, manca una fidanzata, ascoltate la sottoscritta.

Erano chiacchere di poco conto, bisbigli annoiati, e la madonna, che da dentro l’edicola di una casetta lì davanti sbirciava sonnolenta le comari, avrà dovuto perdonare la loro insolenza.

Il professore godeva della fama del tiranno, laggiù in paese: gli avevano assegnato uno spezzone di cattedra alla scuola media (un vecchio edificio bianco che balzava fuori dalla nebbia, all’ingresso del paese, con due enormi scaloni grigi e scalcinati e un vecchio giardino tutt’attorno di cui nessuno si curava più) e rifilato l’incarico di educare alle materie letterarie i primini del piccolo centro. I mocciosi usciti dalle elementari si erano fatti le ossa con le sdolcinate maestre del posto, così, quando si videro entrare in aula quel tizio smunto e con lo sguardo da anguilla che li guardava con fare distaccato, senza mai lasciare la cattedra, emettendo di tanto striduli suoni che erano inappellabili rimproveri, alcuni degli alunni presero a tremare e riferirono a casa che non volevano più andare a scuola.

- Almeno fino a quando non ci cambiano il professore.

Nei primi mesi di incarico, il professor Nitti aveva perfino rischiato di incappare in qualche grana: le madri, strette attorno alle lamentele dei pargoli, avevano fatto comunella e si erano andate a lamentare dal preside. Fausto Lenzi, un uomo robusto e dal tono morbido, con uno stretto pizzetto e i bianchi capelli soltanto sui lati, era il dirigente dell’istituto comprensivo. Ad Albiceleste c’era raramente e, in una di quelle rare volte, aveva fermato di fretta per i corridoi il professor Nitti, domandandogli se era possibile essere più indulgente. I modi di fare garbati, con quella voce esile e femminile, avevano in parte convinto Eugenio, che da allora in avanti era stato un poco meno scontroso.

Eugenio Nitti entrò nel Parco Naturale e con grande naturalezza superò i primi sentieri, fino a raggiungere una radura che si affacciava sul fiume. Al centro dello spiazzo, stava seduto su una sedia pieghevole un uomo sui settant’anni, con i pantaloni slacciati, che sorseggiava una birra e gustava il sole che tanto faticava a trovare spazio tra le nuvole dell’inverno.

- Che si segga, il nostro professore – disse indicando una sedia pieghevole che aveva a fianco, senza sollevare lo sguardo.

Il professore si sedette e con la mano fece scivolare sul grembo dell’uomo un sacchetto di carta.

- Ah, hai pensato al rifornimento del vecchio Nanni!

L’uomo trafficò dentro il sacchetto, vi estrasse un pacchetto di sigarette, poi con la mano allungò una banconota a Nitti.

Giovanni Incaglia, per tutti Nanni, era un paziente della Clinica Sant’Agata. Era stato un esponente del partito fascista e si vantava di aver rotto qualche testa, durante gli scontri, tra le file dei rossi.

- Finalmente un po’ di ossigeno – disse accendendosi una sigaretta.

- Ti hanno tartassato, quei giovani diavoli?

Eugenio si allungò sulla sedia, la faccia consumata su cui era cresciuta la peluria di qualche giorno.

- Il mondo, caro Eugenio, va così: ci hanno insegnato che dobbiamo lavorare. Stare dietro a tutti quei cazzo di compiti inutili, progredire, migliorarci, realizzarci, alzarci dal letto la mattina.

- Quello è un pericolo che non corri.

- Il mio solo pensiero va al tavolo verde, lo sai.

E prese a far andare la testa, manco si trattasse della pallina che gira dentro la roulette.

- “Te beato gridai”, direbbe Foscolo.

- La mia vita è stata tutta una fuga, cosa credi? Scappare dal mondo degli obblighi, non dovermi seppellire in una cazzo di occupazione che mi spremesse le giornate, non è stato facile, lo sai?

- Non ti sentivi portato per qualcosa in particolare?

- A parte bere birra al sole, intendi? – sorrise amaro il vecchio.

- A parte.

- No. Non ero buono a fare nulla. La gente è così convinta che serva essere bravi, che sia di qualche utilità all’universo diventare qualcuno.

- Ti sentivi incapace?

- Là sul posto di lavoro non è che serva sapere o non saper fare qualcosa. Basta che la gente ti guardi negli occhi e capisca che tu in mente abbia solo delle cazzate, e quelli con le loro famigliole e le automobiline lucenti… Trac – sollevò il braccio ancora vigoroso – ti scartano.

Nanni aveva il fisico di un vecchio pugile: larghe spalle incassate, bacino stretto e collo corto e largo. Il viso era spigoloso e irregolare, con piccoli occhi da tonno. I capelli bianchi erano radi e sotto la capigliatura comparivano delle strane macchie bianche.

- Come hai fatto a cavartela?

- Dal mondo del lavoro, intendi? – Nanni si accese una seconda sigaretta – Beh, giù in città c’era uno psichiatra, che mi seguiva, per via di certi miei problemini… Abbiamo fatto amicizia e, quando il dottore vide che non riuscivo a tenermi un lavoro che uno, riuscii a farmi ottenere una pensioncina di invalidità.

- Niente male, come scorciatoia.

- Erano i tempi giusti.

Si levò il suono di una campanella, proveniente da uno strano edificio a forma di nave che si alzava sulla sponda del fiume. Da una scala al centro della struttura risaliva una fila di persone. Altre persone si sollevavano dall’acqua di una piscina sul bordo del fiume e si infilavano degli accappatoi.

- Acqua, sole e sonno: la terapia della mia bella clinica – disse l’ex camicia nera alzandosi dalla sedia.

- E funziona? – Eugenio aveva un finto sorriso.

- Il direttore Sanzi dice di sì.

- Come mai hanno scelto quello strano edificio per farci la clinica?

- L’ex colonia elioterapica, dici? Quello devi domandarlo alla vecchia Serena Marini, è lei che ha fondato la Clinica Sant’Agata. Ma ora, per parlare alla vecchia nobile, è un po’ tardino…

- Ho sentito che è morta. In paese parlano di un’asta per la vendita dei beni del castello.

- Gli eredi stanno affilando le armi…

- E’ un bel gruzzolo?

- Sufficiente a risolvere un’esistenza inutile come la nostra. – si guardò attorno – O come quella di qualsiasi altro. – Nanni si dette una sistemata e si preparò a fare ritorno alla clinica – A proposito di gruzzoli… Ho le informazioni che mi chiedevi. Per proseguire nel tuo secondo lavoro, credo dovresti andare a dare un’occhiata a casa del vecchio Alberto Verdi.

- A buon rendere.

Il professore riprese il sentiero che riportava dentro il Parco e attraversò un punto in cui gli alberi alti offuscavano il residuale chiarore del sole. Ai piedi di un acero, in un punto in cui la luce era talmente bassa da poter far credere fosse diventata notte, c’era una bambolina, gettata sull’erba con la faccia rivolta verso terra. Nitti si chinò, prese in mano la bambolina e la voltò: le erano stati cavati gli occhi. Il nostro uomo fu attraversato da una elettrica folata e dovette alzare lo sguardo, verso il buio che c’era dietro l’acero. Poi sorrise e lanciò la bambolina nella direzione del buio. Se ne andò fischiettando.

(2 – continua)

Daniele Vacchino