Dall’uscita secondaria dell’ex colonia elioterapica fascista, oggi Clinica Sant’Agata, stava uscendo una ragazza con il camice da infermiera, bionda e con il fisico asciutto. Il suo nome era Laura Donati ed era una ragazza del paese. Fiancheggiando un po’, attraversò i sentieri del piccolo bosco e trovò l’uscita opposta a quella utilizzata da Eugenio Nitti (il Parco aveva due ingressi, che si trovavano agli estremi opposti del paese di Albiceleste; a dire il vero, né l’uno né l’altro di questi ingressi era mai particolarmente utilizzato dalla gente, dato lo scarsissimo afflusso di visitatori che il Parco faceva registrare).
La giovane donna raggiunse il piazzale delle automobili, dove si trovava solamente la sua vettura. Alla Clinica Sant’Agata lavoravano due infermiere, una per il turno diurno e la seconda per quello notturno, un medico e il direttore. L’esiguo numero di pazienti, schizofrenici e depressi cronici, pagava una cospicua retta mensile per poter vivere nella struttura, che vantava una tecnica di cura all’avanguardia e una posizione tranquilla e isolata, che aiutava la distensione dei nervi.
L’autovettura di Laura percorse le vie del paese.
- Guarda la strega, ha finito la marchetta.
Disse una vecchina seduta su una panchina all’orecchio della compagna.
- Ad Albiceleste non ne nascono più di donnacce così, abbiamo fatto dare l’olio santo alle vie!
Una nonnina che si incamminava verso la chiesa per recitare i vespri, vedendo la figura dell’infermiera al volante dell’automobile, non esitò a farsi un rapido segno della croce.
Laura registrò gli sguardi obliqui, intese i gesti scaramantici, ma non se ne curò; solo, il labbro superiore si alzò impercettibilmente, in segno di sdegno. L’automobile seguì uno strano tracciato tra le vie periferiche del paese, come se volesse far perdere le tracce, quindi svoltò in una stretta via ed entrò nel cortile di una vecchia cascina. Qui parcheggiò dentro un garage che trovò già aperto e scese dall’auto.
Laura era provocante e sfacciata. Ad un uomo accorto, il suo fascino sarebbe potuto apparire eccessivamente esibito, forse addirittura un po’ brutale, ma questo di certo non valeva per i maschi della zona. Aveva capelli biondi, che teneva sempre non più lunghi di una spanna, e occhi azzurri un poco convergenti. La pelle, chiara, ben si sposava con le forme proporzionate, ma generose. I modi di fare erano in fondo un poco teatrali, come se avesse studiato una parte per aiutarsi a giungere laddove intendeva dirigersi.
La porta di un appartamento si aprì e dietro apparve il volto di un giovane trentenne ben curato, con la barba appena fatta e i capelli lunghi che gli ricadevano su un lato.
Donati entrò ancheggiando e con un sorriso impudico sulle labbra; aveva ancora la divisa da infermiera, ma aveva sbottonato il camice in modo tale che si potesse vedere il seno che usciva dal completo intimo che portava.
L’ambiente era un monolocale ammobiliato di fretta e illuminato da soffici lampade a muro. Il proprietario del piccolo studio, o dovremmo dire pied à terre, era Natalino Andenti, unico rampollo di una normale famiglia di impiegati dello Stato, lontani parenti di Serena Merini. La famiglia Ardenti aveva concentrato sul giovane le speranze di scalata sociale e di affermazione familiare; i genitori avevano incanalato ogni sforzo economico sull’avvenire di Natalino. Ma inutilmente. Viziato e indolente, del ragazzo si potevano solo ricordare le lunghe notti passate a gironzolare con gli amici, i pomeriggi in piscina sorseggiando una bevanda gassata, qualche scopatina con le compaesane più giovani nel vecchio studio di geometra del padre. Quel che teneva in piedi le sorti del principe perdigiorno era l’asse ereditario che lo collegava alla vecchia prozia nobile, che lo aveva scelto come erede, al pari di un’altra cugina, della decaduta, ma pur sempre cospicua, fortuna della vecchia casata. Così almeno si diceva in paese.
Natalino si infilò un camice da dottore e si mise al collo uno stetoscopio giocattolo.
- No, non ti andare a lavare. – disse alla giovane infermiera – Abbiamo appena finito il turno di notte e ho dei rimproveri da farti.
- Ah sì, dottore, vuole rimproverarmi? – Laura strinse le palpebre.
Natalino aveva lo sguardo vuoto degli indolenti; due borse sotto gli occhi toglievano luce al viso fanciullesco.
Con uno strattone strinse a sé l’infermiera.
- E come sta la nostra paziente preferita?
- Tua cugina Marta Nercurini?
- E chi altro?
- Sta piuttosto bene. Oggi ha fatto un bagno di due ore: c’era un discreto sole e il direttore Sanzi ci ha detto di lasciarli nella vasca più a lungo.
- E le gocce nella tisana?
- Tutto fatto.
- Brava, mia bella infermiera – le infilò nella tasca del camice una banconota di grosso taglio.
Prese a sbottonarle la divisa.
- Ed ora vediamo come farti perdonare tutti gli errori che hai fatto durante il turno di lavoro…
- Dottore mio, – recitò lei sguaiata – la prego, non mi licenzi – e crollò in ginocchio.
- Oggi mi è successa una cosa strana – diceva Donati rivestendosi.
- E sarebbe? – Andenti era riverso sul divano, molle e sgraziato.
- Era mattina presto e stavo attraversando il parco per andare alla clinica. Hai presente la staccionata che porta al capanno per l’avvistamento delle gazzelle?
- Sono anni che non metto piede là dentro.
- Ad ogni modo, ho notato che c’era qualcosa sopra una parte della staccionata. Mi sono avvicinata e c’era una lunga fila di formiche crocifisse.
- Formiche crocifisse?
- Sì, qualcuno aveva incollato le loro zampe al legno e poi le aveva segate in due parti, oppure gli aveva mozzato la testa, o reciso una parte dell’addome.
- Sarà stato qualche bambino del cazzo.
- Non ci vengono più i bambini, nel parco. Stanno tutti a giocare ai videogiochi.
- Allora qualche animale.
- Ti pare che un animale si possa mettere a incollare delle formiche ad una staccionata?
- Ma magari qualcuno del comune aveva dato una vernice e quelle ci sono rimaste intrappolate sopra!
- Ma se ti dico che erano state tagliate, qualcuno aveva operato delle incisioni manuali sui loro corpi, come se fosse sua precisa intenzione… Come dire… Mettere in scena una tortura, ecco.
(3 – continua)