E’ appena uscito uno splendido blu-ray della Severin americana (compatibile coi formati europei) sul Dracula di Jess Franco, girato a colori nel 1970. A impreziosire l’oggetto alcune interviste a Jack Taylor e a Fred Williams, entrambi consunti dal tempo. C’è pure un’intervista a Franco simil Yoda. Tuttavia il pezzo forte è il film di Pere Portabella, girato dietro le quinte del lavoro di Franco e intitolato Cuadecuc Vampir.
Ci torniamo sopra.
Prima spendiamo 2 parole sul lavoro del maestro spagnolo, qui impelagato in una produzione che voleva riportare filologicamente sullo schermo il lavoro di Bram Stoker e che, per l’occasione, rispolvera Chris Lee nel ruolo del conte.
Franco tornerà in seguito sulla sua personale ossessione dei vampiri e mostrerà maggior estro rispetto a questa versione “classica”, basti pensare al dittico di Dracula contro Frankenstein e La figlia di Dracula, con Howard Vernon nel ruolo di un conte ieratico, pietrificato nella bara di velluto.
Comunque il Dracula con Lee, pur nelle sue lentezze, conserva elementi di fascino accresciuti dal tempo. Rivisto oggi, nell’edizione rimasterizzata della Severin, è possibile godere di una visione che la vecchia videocassetta Avo non consentiva. I colori grigi, le smaltature degli interni, una pulizia formale delle linee e degli sfondi fanno sembrare la pellicola dell’altro ieri. Lee non offre una interpretazione tanto diversa dai film Hammer, forse è un pochino più contenuto, meno ferino e atletico. Si presenta con capelli e baffi color sale, come nel libro, per poi ringiovanire a suon di bevute. Il suo è sempre un conte metafisico, padronale e distante, asciugato dalla naturale compostezza formale dell’attore inglese, dotato inoltre d’una voce profonda e ipnotica.
Attorno a lui un cast interessante di franchiani e non. C’è Herbert Lom nel ruolo serioso di van Helsing (sicuramente perdente rispetto all’estro di un Cushing), Kinski calato alla perfezione in Renfield il mangiatore di insetti, Maria Rohm, Paul Muller e una giovanissima e magnetica Soledad Miranda, che con questo film inizia il suo breve cammino artistico con Franco. Soledad è, come sempre, uno dei motivi per vedere un film così. La sua Lucy scalza e fasciata da lunghe camicie da notte attraversa i salotti borghesi come una magnetizzata dai fluidi del male. La sua bellezza minuta esplode davanti alla macchina da presa e s’offre languida alla bocca secca di Lee/Dracula. Da morta, come da copione stokeriano, Lucy torna ad aggirarsi per dei parchi londinesi innaffiati dal surreale effetto della “notte americana”; il suo scopo è quello di cibarsi di bambini incauti, attirati dalla sua figura oltretombale. Su di lei fioriscono desideri necrofili irresistibili…
Franco se la prende comoda e riduce il libro fluviale a poche scene, che seguono abbastanza fedelmente l’ordine del libro (o così almeno ricordo: l’ho letto troppi anni fa e ne serbo stralci fantasma nella testa; comunque il film di Jess è sicuramente più fedele alle pagine rispetto alla versione di Fisher o a quella risibile di Argento, per dire); tuttavia l’autore spagnolo erode le pagine e la messa in scena, complice forse una produzione non tanto magniloquente.
Kinski s’aggira tra le quattro mura della cella imbottita e impiastra le pareti col suo delirio. Gli altri fanno avanti indietro in minuscoli set ottocenteschi, ricostruiti con efficace semplicità. Una carrozza, piazze, scorci di ruderi che fanno subito gotico. Herbert Lom che consulta vecchi libri e fa la faccia da rompicoglioni. L’impressione è di assistere a immagini strappate a un sogno confuso, di cui non riusciamo davvero a cogliere il senso. Gli interni si assomigliano così tanto che viene difficile scorgere differenze tra una scena e l’altra, quasi come in un vecchio sceneggiato televisivo.
Eppure Franco è sempre bravo a erodere il dettato narrativo e lasciare le sue figurine libere di aggirarsi dinanzi ai nostri occhi avidi di meraviglie. Quasi non ci importa quel che farfugliano. L’azione è ridotta al minimo, come in un Rollin catatonico. Se qualcuno si butta dalla finestra si prende un manichino risibile e il gioco è fatto! Ciò che conta è il torpore fotografico del racconto, omogeneo fluire di spazi e figure che si concludono nel corteo di gitani e nella bara di Dracula presa a sassate come in un film qualunque di Ercole. Non c’è l’estro di un Bava e nemmeno la perizia visiva di un Freda, però il Dracula di Franco arde nel suo limbo inattuale, lontanissimo dall’oggi. Assieme all’opera, come dicevo, la Severin allega il Cuadecuc Vampir di Pere Portabella, girato durante la lavorazione del film di Franco.
Di cosa si tratta?
E’ un lavoro in pellicola di 75 minuti appena, fatto con piglio espressionista. Portabella cambia la colonna sonora di Nicolai, la sostituisce con dei commenti musicali oscuri ed effetti sonori intrecciati a dei pezzi lounge d’epoca. Inoltre toglie il colore al lavoro del collega spagnolo e contrasta tutto, come se si trattasse di un vecchio muto espressionista della Repubblica di Weimar. Portabella segue abbastanza l’ordine del racconto del film con Lee, solo filma le scene da angolature differenti, divertendosi ad inquadrare le luci di scena, gli attrezzisti accalcati ai margini del set, o la macchina da presa al lavoro. Inoltre si sofferma sugli attimi che precedono un ciak, illustrando l’operato della macchina per le ragnatele (sparate su un portone o sulla bara di Dracula) o della macchina del fumo. Oppure si compiace di seguire i personaggi/attori durante le lunghe soste tra una scena e l’altra: abbiamo così il piacere di vedere Lee mentre si riposa, già bardato negli abiti di scena, o l’incantevole Soledad mentre fuma nel letto e aspetta di calare nella bara, attorniata dagli andirivieni della troupe. Compare anche Franco, certo, intento a dirigerla nella sequenza del cimitero, oppure intento a recitare nell’improbabile ruolo di un servitore facchino. Nel finale, nella cripta del castello del conte, vediamo l’intera comitiva illuminata dai potenti riflettori e gli attori che vagano e parlottano in abiti di scena e moderni. L’ultimo segmento ci mostra Lee che legge un passo originale dal libro di Stoker.
Dunque? Un making of? No.
Il film di Portabella è un capolavoro indipendente dall’opera di Franco. Il regista portoghese supera il modello di partenza e ci consegna un gotico sperimentale e ironico che, oltre a mitizzare l’immaginario di un set, coglie il punto centrale del racconto gotico, ossia regressione dal moderno, o contrasto con esso. Spesso Portabella ci fa capire (mostrando dei treni che sfrecciano a due passi dalle cripte dei non morti, delle auto, dei passanti con l’ombrello) che il mondo onirico e surreale di Dracula (di ogni Dracula, da quelli Hammer a quelli filippini) convive dentro un altro universo parallelo che è il nostro, quello in cui viviamo, scriviamo e produciamo. Il film di Portabella porta abiti ottocenteschi, bare e paletti, ma convive a due passi da quello dei ’70. Portabella li compenetra entrambi, creando una sorta di continuum temporale affascinante e originale. Inoltre l’assenza di voci contribuisce a costruire un alone espressivo che avvicina la pellicola ai lavori lunari di Murnau e del dottor Caligari. Che si tratti del gioco d’una compagnia di guitti, oppure di sosia che si inseguono fuori e dentro dallo schermo? Non è dato sapere. Portabella costruisce un mondo onirico che non deve essere capito, bensì assaporato con gli occhi della mente. E i colori neri e bianchi, portati all’esasperazione fotografica, ammiccano alle tavole anatomiche d’un illustratore da obitorio.
Insomma un blu-ray davvero consigliato!