LA MANTIDE 04

Il paese di Albiceleste vantava un discreto numero di attività commerciali, se si considera l’esiguità della popolazione. Una di queste era l’oreficeria Vanotti, un bugigattolo con la vetrina rettangolare, sotto la tenda color blu, stretto in mezzo tra l’agenzia di onoranze funebri e il tabaccaio.

Luigi Vanotti aveva ereditato l’attività dal padre, che era un orafo abile e aveva eseguito lavori addirittura per gli ultimi eredi della casata dei Visconti. Luigi non poteva certo vantare le abilità tecniche del suo predecessore, ma conservava dei giorni passati insieme al vecchio, in bottega, la capacità di valutare alla prima occhiata il valore dei manufatti.

Quella mattina il Vanotti aveva avuto un cliente dopo l’altro: tutta robetta da aggiustare, qualche ricognizione in vista di regali futuri, molte chiacchiere e incassi pressoché nulli. In quel momento, però, aveva di fronte a sé un cliente ben più facoltoso dei precedenti e, con la parlata forbita, si sforzava di metterlo sulla carreggiata che porta dritto all’acquisto di qualche prezioso.

- Direttore, piuttosto, proseguono bene le cure ai pazienti?

L’orafo era grasso e senza capelli; portava occhiali con una montatura tonda, spessa e marrone, e vestiva sempre un qualche sgraziato panciotto. L’altezza esigua mal si abbinava alla testa larga, contornata dalla corona di capelli che ne ornava i fianchi e il retro, brizzolati e forforosi.

Il cliente, invece, era un uomo più alto ed elegante, avvolto in un cappotto blu e con gli occhiali da presbite calati sul naso. Poteva avere sessantacinque anni e i capelli bianchi erano perfettamente pettinati sul fianco, a spazzola. La carnagione olivastra rendeva il viso oblungo affaticato, ma un gioviale sorriso di cortesia non stentava a rallegrare i tratti inspessiti dalle rughe. L’uomo di cui stiamo parlando era Giacomo Sanzi, il direttore della Clinica Sant’Agata.

- La nipotina, caro dottore, non potrebbe che gradire un gingillo di questa fattura! – l’orefice aveva strette labbra da cui non uscivano mai i denti – Ammiri i ciondolini, graziosi, e la finitura del lavoro.

Il direttore ispezionava con attenzione, da dietro gli occhiali bassi, che parevano poter scivolare dal lungo naso adunco da un momento all’altro, i braccialetti e le catenine che gli porgeva il negoziante.

La scelta ricadde su un braccialetto d’oro bianco, stracolmo di ciondoli a forma di cuore: l’esborso accontentava appieno il Vanotti e la sua soddisfazione era visibile. Il direttore pagò senza dire una parola e con un sorriso liquidò la pratica. Nel mentre stava uscendo dall’oreficeria, incrociò sulla porta d’ingresso il professor Nitti, che ad ampi passi aveva percorso la piazza principale del paese e stava per entrare nel negozio, con gli occhi bassi.

- Professore, che bella sorpresa.

Eugenio sollevò gli occhi e si ritrovò dinanzi il sorriso camuffato del direttore della Clinica.

- Direttore, che piacere – disse freddo e guardandosi attorno.

- Sarei venuto tra qualche giorno, durante la sua ora di ricevimento, ovviamente non a mani vuote – il direttore si stringeva nel cappotto con aria contrita e le labbra arricciate.

- Dottor Sanzi, non si disturbi minimamente. E poi, i voti di sua nipote stanno migliorando.

- Professore, lei mi vuole mettere in cattiva luce. Sarei venuto per renderle omaggio, in vista delle feste, dato che ci troviamo tra uomini e non tra animali!

- Come preferisce, dottore.

Il direttore liberò l’ingresso con un elegante movimento della gamba e offrì ad Eugenio la mano destra, cordiale.

Quando il giovane straniero entrò nell’oreficeria Vanotti, il grasso Luigi, da dietro il bancone, aveva abbandonato i modi di fare cortesi e la vocina suadente da piazzista; con un cenno del capo e sbirciando oltre la vetrina suggerì ad Eugenio di seguirlo nel retrobottega.

I due si ritrovarono in uno stanzino cieco, con le pareti bianche riscaldate da una luce al neon che cadeva dall’alto. Senza neppure salutarsi, il professore porse all’orafo uno zaino nero, da cui Vanotti tirò fuori collane e anelli d’oro, braccialetti in madreperla e una busta contenente alcune monete d’oro. Fu sufficiente un’occhiata generica e già il mercante poteva fare l’offerta:

- Per tutto, quattro mila.

- Saranno almeno il doppio.

- E allora perché non apri un’oreficeria? – il sorriso di Luigi era un ghigno spietato e si allargava per tutta l’ampiezza del volto sproporzionato come un corvo.

Il negoziante mise mano ad un cassetto e porse al giovane un cofanetto di legno.

 

L’oreficeria era tornata ad essere uno striminzito antro vuoto e silenzioso. Luigi Vanotti si rassettò il panciotto e rientrò nel retrobottega, al buio, e si mise a sbirciare dietro la vetrina la gente. Intanto, pensava ai buoni affari in entrata e in uscita fatti nella mattinata. Godeva del silenzio, del sentirsi sicuro dentro quel punto isolato del mondo, nella certezza che la sua capacità di gestire gli affari lo avrebbe tenuto in piedi, allora come oggi, anche in momenti di rallentamento dei traffici, come erano questi.

Il telefono del negozio prese a squillare. Con passo calmo e pesante, Luigi raggiunse la cornetta.

- Pronto.

Dall’altra parte non rispondeva nessuno. Si poteva sentire soltanto il rumore di una macchina che passava e il fruscio dell’aria, segno che chi stava chiamando lo faceva da un posto all’aperto.

- Orafo – disse una voce stridula, da vecchia donna, artefatta – i tuoi traffici sono sporchi come quelli di una puttana.

La voce era sottile e distante, eppure arrivava nitidamente alle orecchie del mercante. Il suo suono sottile lo spaventò immediatamente ed egli per alcuni istanti credette di sentire la voce della vecchia Serena Merini.

- Chi, chi parla? – chiese confuso.

- Ora devi fare dei lavoretti per me.

La voce emise un rantolo e all’orefice parve contraffatta.

- Ti pagherò bene.

(4 – continua)

Daniele Vacchino