FRANCESCA

Per me si va ne la città dolente,

Per me si va ne l’etterno dolore

Per me si va tra la perduta gente.

(Dante, Inferno III 1-3)

 

Nel terzo canto di Dante, gli ignavi sono coloro che, in vita, non operarono per il bene, limitati dalla loro vigliaccheria o dall’opportunismo; nell’Inferno la punizione sarà quella di correre senza posa dietro a un’insegna, stimolati da schifosi insetti e una turba pastosa di vermi. A queste terribili parole si affida il regista argentino Luciano Onetti, di cui avevamo parlato recensendo il suo primo film giallo (sperimentale) Sonno profondo. E’ appena uscito per la Mad Dimension tedesca la seconda opera di Onetti (sempre realizzata con la produzione del fratello Nicholas, un tizio dalla leccata di mucca spaventosa e una faccia tonda anni ‘50, tracciata col compasso), Francesca. Il nome della protagonista rimanda alla Francesca da Rimini del quinto canto dell’Inferno, dedicato, tra le altre cose, alla fatalità delle passioni umane. Non compilo (cosa per me noiosa) la schedina tecnica del film perché sarebbe inutile. Onetti è uno che fa tutto da solo. Regia, fotografia, montaggio, musiche, scrittura. Rispetto a Sonno profondo, Francesca assomiglia di più a un film, pur rimanendo un lavoro autarchico e minimale, fortemente dedicato all’italian giallo dei ‘70.

Cercherò di essere sintetico e di mettere a fuoco il cuore di Francesca. Il thrilling ha una trama densa e confusa, che cerca di tenere dentro tutto, da Argento (Profondo rosso in primis) a Sergio Martino, passando per Lado, Montero e Lenzi coi manichini della Rinascente. Si parla della figlia di un celebre scrittore (tale Visconti) che è scomparsa da anni e di un paesino (il film è girato in Argentina, tuttavia lo si immagina in Italia) sconvolto dalle efferate azioni di un maniaco che intende ripulire la città dalle anime “impure” (e qui si aggancia la citazione dantesca che l’assassino incide su un magnetofono e invia alla polizia). Indagano due poliziotti scalcagnati e raggrinziti.

Nel calderone gli Onetti ci ficcano il solito whodunit, gli omicidi rituali, la polizia che brancola nel buio, i traumi dal/nel passato, i guanti di pelle rossa dell’assassino, le bamboline sfregiate, un vecchio schifoso pedofilo e dei cadaveri mummificati che rimandano alla cara vecchia pratica della necrofilia. Il film, di poco superiore all’ora, scorre lento e appesantito da tale densità, reso barocco dallo stile visivo di un autore così innamorato del thrilling italiano da calare la storia e gli oggetti dentro i ‘70.

Francesca sembra vivere all’interno degli anni ‘70, quelli in cui uscivano i fumetti neri con la “K”, quelli in cui i gialli italiani spopolavano e Argento non si era ancora mangiato il cervello. I ‘70 di Onetti sono puro feticismo, infittiti dai manufatti di un’epoca scomparsa e tenuta in vita grazie agli abiti e altre memorabilie rinvenute nelle bancarelle dell’antiquariato. Per Onetti (come per Bava) gli oggetti (i magnetofoni, i telefoni, i libri, gli indumenti, i coltelli, gli occhiali, le macchinine, i giocattoli, i passeggini) sono più significanti di un qualsiasi attore sconosciuto. Spesso la sua macchina da presa mette a fuoco una cosa qualunque e lascia nello sfondo opaco e indistinto l’affaccendarsi dei personaggi.

Tutti in Francesca appaiono ignobili, d’un grigiore indefinito, pari a quello della landa dantesca. Questo feticismo spinto (meno video-sperimentale rispetto al duo Forzani & Cattet) è la chiave per procedere nella miseria dei dannati che popolano l’universo di Onetti. Il regista argentino si chiude nel vizio dei ‘70 e decide di non uscirne più; diversamente da Zampaglione (che prova a ri-collocare il thrilling sui binari dell’oggi e della crisi economica), Onetti re-inventa quel decennio italiano e lo fa in modo simile a quello dei film di allora, dove le vicende urticanti della politica e della società venivano filtrate e rese astratte per non infastidire il potere di palazzo. In Francesca non ci sono le fabbriche coi lavori e gli orari pesantissimi, non c’è la radicalità dello scontro coi padroni o la scuola di massa per netturbini. Il pensiero selvaggio di Marx non aleggia sulla pellicola acetata di Francesca. Qui, ciò che importa, sono i feticismi, la moltiplicazione dei dettagli, i traumi nascosti nelle pieghe dell’oblio, gli omicidi coreografici, i guanti dell’assassino. Onetti satura la sua materia, portandola a un livello estremo che ne aggrava la fluidità o la percezione (dimenticandosi, al pare dei già citati Forzani & Cattet, che nei film di allora vi erano molti momenti morti, inutili, che aiutavano ad alleggerire la tensione o lo scorrere dei minuti – film come La polizia brancola nel buio o I vizi morbosi di una governante vivevano sia dei delitti, delle scene di sesso – assenti in Onetti ahi ahi – come delle scene insulse dove si parlava per dare aria ai denti e tu potevi pomiciare con la vicina del cinema oppure alzarti per andare a pisciare senza perderti nulla) .

Nonostante ciò lo sforzo del giovane (talento?) argentino è evidente e prezioso. Oggi sono in pochi ad addentrarsi con tale padronanza nei meandri del thrilling e ancora meno sono coloro che riescono ad allacciarsi direttamente alla fonte di questo genere, poco (o per nulla) praticato nella nostra letteratura.

Nel finale, senza nulla rivelare, Francesca scopre le carte e rilancia, forse citando involontariamente un film cerniera, ponte tra la fine di quel meraviglioso linguaggio dei ‘70 e l’inizio del declino danzereccio degli ‘80: il Thrauma sgrammaticato di Martucci, dove un mostro handicappato massacra degli idioti in una villa in campagna.

Francesca è reperibile in una tiratura limitata di 3500 pezzi.

Davide Rosso