Visto dall’alto, il piazzale dell’ingresso principale del Parco Naturale di Albiceleste era soltanto un piccolo prato, su cui venivano parcheggiate rare automobili, dopo aver superato con le ruote un breve e basso torrente. Era solo un pezzo di prato in mezzo al bosco, un ultimo baluardo del dominio umano, prima dell’inizio del regno della natura.
Quella mattina, ciò che si poteva vedere lì presente non c’entrava proprio nulla con l’essenza del luogo, né tantomeno con il suo utilizzo. Sulla trave in legno di una struttura adibita al gioco dei bambini, era stata crocifissa una donna. Le erano stati levati gli abiti e la donna se ne stava lì, inchiodata ai polsi e ai piedi, bianca e piena di lividi lungo le braccia e le gambe. La nudità era talmente oscena, che nessuno dei presenti, un manipolo di operosi poliziotti della scientifica e un paio di investigatori giunti sul posto su segnalazione dell’arma locale, osava rivolgere al corpo un numero maggiore di sguardi di quelli strettamente indispensabili all’espletamento delle proprie mansioni. La donna portava laceri capelli scuri e il viso era solcato da rughe e inspessito da pesanti borse sotto occhi.
- Ci hanno comunicato le generalità – un poliziotto si avvicinò ad un ispettore vestito in borghese – si tratta di Marta Nercurini. Era paziente alla clinica.
- La clinica?
- Già. C’è una clinica psichiatrica, laggiù dentro il bosco.
L’ispettore guardò nella direzione indicata dal collega, dubbioso e inorridito.
- Che razza di… – e si voltò di colpo, indifferente.
- Dottor Tregalli, – lo chiamò un altro in divisa dal fianco opposto – segni di costrizioni alle caviglie, ai polsi e addirittura al collo. Deve averla legata e trascinata come si trascina una bestia, fin qui.
Domenico Tregalli, ispettore di polizia inviato dalla questura a indagare sull’omicidio, indicò qualcosa ai piedi della vittima.
- E’ una stella satanica. E’ stata disegnata sulla terra, probabilmente dopo che la vittima ha perso la vita. Forse un rito, forse solo per gettare fumo negli occhi…
- E’ stato un calvario?
- La donna era sedata per motivi clinici. Abbiamo parlato con il dottor Sanzi, direttore della Clinica Sant’Agata, ha confermato le nostre ipotesi. Però, per quanto ha dovuto soffrire, i farmaci non le sono stati sufficienti a evitare il dolore.
Tregalli guardò le incisioni che le erano state operate sotto le ascelle, tra le dita dei piedi, sui fianchi.
- In bocca – disse piano l’ispettore, comandando gli uomini come marionette.
- A decesso già avvenuto, crediamo, l’assassino le ha messo al collo una catena, che portava un medaglione, il quale le è stato poi inserito nel cavo orale.
Il poliziotto della scientifica porse all’ispettore il reperto sigillato nella busta di plastica. Si trattava di una collana in oro, con un medaglione ovale, spesso, dalla montatura anch’essa in oro. Sul medaglione vi era dipinta una mantide religiosa.
- Ispettore, l’idea che mi sono fatto – gli si accostò un poliziotto in borghese, che doveva essere l’esperto in criminologia – è che si tratti di un omicidio rituale. Qualcosa di molto studiato, di elaborato, che serve a mettere in scena la propria visione del mondo.
- Insomma un malato.
- Un omicida che segue un impulso interiore, che si specializza in questo suo estremo feticismo, insomma uno psicotico che DEVE uccidere.
- Ma ci sono segni di violenza carnale?
- No.
- E allora…
- Non per forza uno psicopatico raggiunge il piacere mediante il sesso. Forse un esteta della morte, un impotente… Ma qualcuno che opera in un modo specifico e che uccide per un suo ben preciso scopo.
- Un serial killer in questo buco di paese?
- Beh, le metropoli sono i luoghi tipici per queste faccende. Ma oggi, ormai, con la vita che facciamo tutti quanti… Anche l’ultimo lembo di terra del creato va bene uguale, per perdere la testa.
Natalino posò il calice da spumante sul tavolino, festante. Si era rasato di fresco e continuava a pettinarsi i capelli sul fianco. Indossava un completo spaiato bianco e blu, con sotto una camicia bianca, senza cravatta, ma con un foulard azzurro che fuoriusciva delicato dal collo. Forse non se ne era accorto, preso com’era dall’eccitazione, ma pareva si fosse vestito per salire su uno yatch.
- Mia cara, – disse all’indirizzo di Laura, che sedeva su un divanetto davanti – le mie prospettive di vita si sono ampliate a dismisura.
Erano nella saletta privata di un bar in una città ben lontana da Albiceleste. Sul tavolino campeggiava una bottiglia di champagne tenuta sotto ghiaccio. Laura, elegantemente vestita, batteva le ciglia e si divertiva, nel vedere Andenti in pompa magna.
- E questo – aggiunse dopo aver sorseggiato dal suo calice – lo devo anche a te.
- Ma io…
- Mi hai aiutato ad asfaltare lastra dopo lastra la via, per cui non aggiungere altro. – Natalino si avvicinò al viso della giovane donna e pose l’indice sulle labbra.
Brindarono ancora.
Poi Natalino prese a baciare il collo dell’infermiera; ma Laura rimase rigida, sovrappensiero, e non badò minimamente a quelle effusioni.
- Stavo pensando a una cosa…
- Ah sì?
- Non trovi che sia strano – Donati si scostò – che le due morti siano avvenute così ravvicinate?
- Di quali morti parli? – Natalino era focalizzato solamente sul corpo dell’infermiera.
- Ma di tua cugina Marta Nercurini e della vecchia Serena Merini!
Andenti ebbe un rapido fremito del collo e si sollevò, con il sorriso.
- Beh, ma cosa può c’entrare!
- Erano parenti. Ed erano una l’erede dell’altra.
- Ma Serena Merini non è stata uccisa. E’ stato un malore, sai, malata com’era…
- E se invece… – Laura guardava il soffitto, distratta, come se quel discorso lo avesse preparato, ma la sua intenzione fosse quella di lasciarlo cadere dall’alto.
Natalino sprofondò nel divano, meditabondo. Si voltò a fissare un punto davanti a sé e non fece caso al fatto che Laura lo stesse attentamente squadrando.
- Queste paure possono essere nocive. – disse posando una mano sulla gamba della Donati – Dobbiamo proseguire ciò che abbiamo cominciato, fino al giorno della lettura del testamento. Mia madre è stata chiara a tal proposito.
Una stanza di hotel semi illuminata e il rumore della doccia che proviene dal bagno adiacente. La porta d’ingresso si apre e Laura percorre la stanza con disinvoltura, lasciando cadere la borsetta e la giacca sul letto. Il bagno irradia una luce bianca acida, che rende di colpo la pelle di Donati pallida come la morte. L’infermiera si spoglia, osservando di sottecchi la sagoma sotto la doccia. Lascia scivolare la lingerie in pizzo, che inutilmente ha provato a toglierle poco prima Natalino Andenti. Quando il corpo nudo come le spiagge lunari compare davanti al vetro della doccia, la porta in plastica le viene aperta davanti e sotto il gettito d’acqua, ad accoglierla, c’è il corpo parimenti nudo di Barbara Pizzoli.
- Sei in ritardo – dice la professoressa di sostegno.
Laura entra sotto il gettito e i capelli le ricadono all’indietro. Con la mano scivola sulla schiena di Barbara.
- Quell’inetto non ce la faceva proprio a mollarmi.
- Voleva a tutti i costi scoparti.
La lingua dell’insegnante attraversa le curve delle spalle e del corpo. Le gambe si stringono alle gambe e le carni chiare e levigate sono rocce d’alabastro su cui scende l’acqua del peccato.
L’infermiera mordicchia l’orecchio dell’amica, che però non si lascia fare e si libera con destrezza.
- Parlami di Natalino. – Barbara solletica Donati e con la mano prende a tastarle il pube – Raccontami di quello che ti dice, di quello che ti fa, di quando te lo vuole mettere dentro.
Laura chiude gli occhi, indietreggia con la schiena e si appoggia al muro interno della doccia. La superficie fresca e bagnata le regala un sussulto. Abbassando il mento, come un cagnolino che si fa incontro alla padrona, guarda mollemente la professoressa e allarga un poco le cosce, passiva.
Le dita della Pizzoli scivolano con decisione nella fessura della bella infermiera e sono solo sussurri di luna, pulviscoli di colore che sciamano attorno al cervello di Laura.
(7 – continua)