LA MANTIDE 14

Eugenio Nitti si risvegliò lentamente, come se due lenti da miope si fossero posate sugli occhi. Ci volle un po’, infatti, affinché riuscisse a vedere nitidamente. Una nausea gli invadeva lo stomaco e i muscoli del collo, nel tentativo di muoverli, gli dolevano.

Si trovava nella sua stanza ed era disteso sul letto, completamente vestito. Si era addormentato a questo modo? Non gli capitava mai, a questo pensò, quando un robusto mal di testa gli picchiettò le tempie.

Fu allora che si ricordò della sera precedente, della processione, dei volti di Donati e Andenti. Ma poi…

Già, ma poi il ricordo si bloccava come all’interno di un marchingegno difettoso e la testa gli doleva senza sosta.

A fatica, con la mano si carezzò la testa. Un gonfiore inspessiva il cuoio capelluto sulla parte alta del cranio. – Un colpo – pensò.

Si sforzò ancora di ricordare, ma fu inutile.

- Devono avermi aggredito, al camposanto – si disse infine.

Ma come era arrivato fin lì? Difficilmente avrebbe potuto raggiungere casa sulle sue gambe.

- Mi ci ha portato qualcuno che mi ha trovato lì svenuto a terra?

Un velo di paura attraversò il volto del professore.

- Oppure, mi ha trascinato fin qui l’assassino, lo stesso che mi segue da quella notte…

Di colpo, i muri dell’appartamento si strinsero attorno alla testa di Eugenio, come dentro una cupa prigione, si sentì nuovamente scivolare, all’ingiù, disperatamente.

Quando Eugenio si svegliò, era tarda sera. Aveva dormito tutto il giorno? O più giorni? Si sentiva rigenerato e tentò subito di muovere il capo. I muscoli del collo erano indolenziti, ma non gli impedivano il movimento. Si sollevò non senza fatica e quando fu seduto sul letto un leggero giramento di capo gli annebbiò la vista di minuscoli pulviscoli elettrici. Attese alcuni attimi e si sollevò dal letto. Tentennava sulle gambe, ma aveva equilibrio e riuscì a fare il giro della casa. Nulla era stato toccato nel suo appartamento. Che davvero lo avesse portato a casa una mano amica? Guardò dalla finestra: in strada regnava la solita calma delle sere ad Albiceleste; a giudicare dal buio, poteva essere ben oltre le undici di sera.

Il telefono prese a squillare.

- L’assassino – pensò istintivamente.

Lo lasciò squillare un po’, infine rispose.

Era Barbara Pizzoli. Eugenio provò a ricordare se le avesse mai dato il suo numero di telefono.

- Eugenio, a proposito di quei discorsi che abbiamo fatto l’altra volta in aula, sulla morte di Marta Nercurini e sull’orco del bosco… Credo di aver scoperto una cosa che dovresti assolutamente sapere.

Il tono della voce della professoressa di sostegno era alterato.

- Calmati, Barbara, ne possiamo parlare domani?

- No, domani no. Quel che ho scoperto fa paura e non voglio tenermelo per me tutta la notte.

- Ti senti in pericolo?

- Qualcuno potrebbe avere interesse a uccidermi.

- Per Dio, dove ci troviamo?

- Vieni alla scuola.

- Dici sul serio?

- Perla non la chiude mai bene. E poi in ogni caso ho la chiave. Ti aspetto là.

 

Nella minuscola caserma di polizia di Albiceleste, Domenico Tregalli si era ritagliato un pezzo di scrivania in una delle due stanze. Si era fatto portare una pizza e una caraffa di caffè poggiava a fianco ai fascicoli. Stava masticando nervosamente del tabacco e nel frattempo controllava le carte, rileggeva i rapporti, scartabellava alcuni fascicoli presi sotto, in archivio, e relativi a casi irrisolti negli anni precedenti.

 

La porta della scuola era soltanto accostata. Nitti vi entrò senza esitazioni e a lunghe falcate superò la scala che portava alle aule. La testa pulsava al salire del numero dei battiti del cuore, ma le gambe reggevano lo sforzo.

Il corridoio era buio. Per un istante, Eugenio ebbe la sensazione che fosse stato appositamente oscurato.

- Barbara – chiamò.

Dal buio non giunse risposta.

Provò ancora. Niente.

Un suono lontano, forse un ronzio, saliva dal fondo del corridoio. Là, nel punto in cui la scuola aveva l’uscita di sicurezza e la bidella Perla aveva posizionato la sua scrivania, comparve il viso di Barbara Pizzoli. Lo poteva vedere fin da lontano: in quel punto la scuola era debolmente illuminata da un raggio di luce e il volto della professoressa di sostegno era talmente pallido, che quasi rifletteva quel raggio.

Eugenio le andò incontro, chiamandola. Ma la giovane donna non rispondeva, come se fosse sotto shock, o sotto l’effetto di qualche droga, ciondolava il capo.

- No, fermati – disse improvvisamente quando Nitti si trovava a pochi metri da lei.

Vestiva una sorta di tunica nera e aveva i capelli scarmigliati. Con la mano intimava il collega di restare a debita distanza.

- Mia nonna me l’aveva detto, che non aveva mai lasciato il paese. – disse la professoressa con voce tremante – Ormai la gente di qui sapeva che era lui, a rubare le ragazze delle famiglie povere, a rapirle per portarle nel bosco, per farle sue, per sempre.

Parlava con voce acuta e disperata e il viso era una maschera pallida di morte.

- Le famiglie che sospettavano di lui furono ricoperte di soldi, le loro bocche furono cucite a forza di metterci dentro l’oro. Era gente disperata, eravamo gente disperata… – Pizzoli piangeva di un pianto antico, che parla di fame e abbandono – I soldi non potevano essere i suoi, perché lui non ne aveva mai avuti. Ma una figura operava dietro di lui, nell’ombra!

Il viso di Barbara scomparve nell’oscurità.

- La Mantide – digrignava i denti – lo aveva scelto come suo giocattolo, ne assecondava i vizi e lo spalleggiava.

Poi, a bassa voce, aggiunse:

- Per questo non ho mai voluto i soldi di quella megera. I suoi denari erano sporchi di sangue!

Il rantolio del suo respiro saliva dal buio.

- Fu lei a proteggerlo, fu lei a metterlo al riparo. La clinica psichiatrica nel bosco, la fondò per farcelo sparire dentro!

 

Tregalli si stava sfregando la barba ispida e usurata. Aveva segnato su un enorme foglio dei nomi, collegati gli uni agli altri con delle frecce. Al centro, campeggiava il nome di Serena Merini.

- Fra tre giorni, la lettura del testamento, per esplicita volontà della defunta. – rifletteva a bassa voce leggendo quanto scritto da lui medesimo – E i due morti sono proprio gli eredi designati. Quel che non torna è: perché la vecchia Merini ha predisposto che la lettura del testamento avvenisse così tardivamente?

Una mosca era entrata dalla finestra e, di tanto, si posava sul cranio ormai quasi pelato dell’ispettore.

Il telefono sulla scrivania prese a suonare. L’ispettore rispose nervosamente.

- Dottore, gli accertamenti sugli artigiani e gli orafi della zona che aveva chiesto…

- Dica pure.

- Luigi Vanotti, orafo del paese, è scomparso.

Domenico posò il telefono senza salutare il collega. Forse era una coincidenza. O forse no: l’orafo doveva essere colui che procurava all’assassino i manufatti con la mantide religiosa dipinta.

La scomparsa dell’orafo era in questo momento secondaria, si disse.

- Se l’orafo è stato rapito dal mostro, – cogitò – è senza dubbio morto. Nelle mani di un animale che crocifigge le vittime non si sopravvive.

Accantonò per un istante il pensiero e riprese il filo dei ragionamenti.

- Senza eredi testamentari e senza che vi sia persona diseredata dal defunto, il consanguineo più prossimo diventa Barbara Pizzoli.

Istintivamente, prese un foglio su cui vi era segnato l’organigramma dei dipendenti della scuola media in cui la professoressa Pizzoli prestava servizio. Si era reso conto di aver letto un nome che aveva ritrovato da qualche altra parte, nel corso dell’indagine. Una coincidenza, un particolare, che poteva voler dire la costruzione di una nuova pista.

Lesse i nomi con furia.

Quando giunse a quello che nella sua mente creava un ponte con un altro percorso, si immobilizzò.

- Fausto Lenzi? – divaricò le pupille – Il preside! Ma lui è… lo zio della Pizzoli…

Con uno scatto del braccio sollevò sulle spalle il giubbotto che stava sulla sedia.

- Se la Pizzoli muore, – quasi urlò gettandosi fuori dalla caserma di polizia – sarà l’erede!

 

Barbara parlava ancora, nella penombra, ma le sue parole arrivavano in un rigagnolo di suoni. Il viso era riemerso nel cono di luce, ma si muoveva senza forza, triturato da una serie di smorfie che ne alteravano i lineamenti.

Eugenio si mosse nella direzione della collega. Quando le fu a meno di un metro, si accorse che i suoi occhi erano sbarrati e si muoveva a scatti come un pupazzo. La toccò e sentì che dei fili partivano dai lembi della sua pelle e si perdevano nell’ombra, dietro di lei.

- Qualcuno la stava muovendo come si usa un burattino – si disse con terrore.

Dal buio emerse una sagoma scura, con un passamontagna sul volto e i guanti di pelle alle mani.

Rideva, la sagoma scura.

- Un vecchio trucco – disse guardando il cadavere di Barbara.

- Quale miglior modo – la maschera parlava con una voce contraffatta – per far rinascere a nuova vita un assassino, che rinchiuderlo in una clinica privata e, dopo avergli fatto avere una nuova identità, metterlo a capo della clinica stessa?

- Lei, l’orco del bosco…?

L’ombra disvelò il suo volto: era proprio il direttore della clinica, il dottor Giacomo Sanzi.

Dalla manica della giacca scura, il direttore fece scivolare una lama.

- Quando uccisi la Mantide, sapevo che avrei dovuto sterminare tutti quegli approfittatori dei suoi eredi.

Eugenio indietreggiò.

- Tu sei stato solo un lieve intoppo. C’eri anche tu quella notte, al cimitero, quando volevo uccidere Natalino… Lui sarebbe dovuto essere il primo, invece.

In un lampo il mostro fu su Nitti. La lama volò in cielo. Ma una detonazione si disperse nell’aria. Eugenio guardò nella direzione di Sanzi e si accorse che stava rantolando. L’orco crollò a terra, a lato di Eugenio. I passi di qualcuno lungo il corridoio risalivano nella loro direzione.

 

Eugenio Nitti era a letto, nella camera bianca e candida di un ospedale, le flebo al braccio. Guardava la televisione distrattamente, di tanto scartava qualche cioccolatino che gli avevano portato i parenti, di nascosto dalle infermiere.

Sulla soglia della porta comparve Domenico Tregalli, rasato di fresco e con un pullover verde smeraldo.

- Lei dev’essere lo sbirro che mi ha salvato la vita.

- Niente meno.

- Mi ha portato anche dei fiori?

- Certamente.

Tregalli posò il mazzo a casaccio sul comodino e si sedette a fianco del professore.

- Sta meglio?

- Mi ha preso malamente. Ancora qualche settimana e sarò in piedi.

- Vedo che non si è rattristato.

- Mi riposo un po’ dal lavoro. I dottori parlano di mesi e mesi di riabilitazione, niente male.

Il viso di Eugenio aveva un color rosso che non possedeva da tempo e i tratti erano meno magri e consumati.

- Ha preso l’orco. – sorrise Nitti – E’ l’eroe del momento. I giornali non parlano che di lei. Per questo appena l’ho vista l’ho riconosciuta.

Domenico si grattò la testa rasata.

- Allora devo condividere con lei questo riconoscimento.

- Addirittura?

- Vede, – disse a bassa voce il nuovo eroe – io stavo seguendo tutta un’altra pista… Quella notte mi stavo dirigendo a casa del suo dirigente, Fausto Lenzi.

- Il preside?

- Esattamente. Poi un mio uomo mi ha chiamato e mi ha detto che dalla scuola venivano strani rumori. Sa, le avevo messo un uomo alle calcagna, dato che era nuovo del paese e girava sempre la notte… – Tregalli strizzò l’occhio al professore.

- A furia di girare in certi posti, – proseguì – si finisce con l’essere testimoni di qualcosa di scomodo.

- Quindi lei non…

- Non ci ho mai capito nulla di questo caso, come degli altri, del resto.

- Però.

- Lei terrà per sé questo segreto ed io conserverò il suo – disse l’ispettore mimando un uomo disteso in una bara.

Risero bonariamente. Poi Tregalli si congedò e, appena uscito dall’ospedale, si infilò in un paese qualunque, uno dei tanti paesi dimenticati dal signore che ci sono da quelle parti, entrò in un’osteria poco illuminata e si ubriacò così tanto che dovettero trasportarlo a braccio fuori dal locale, all’ora della chiusura.

(14 – fine)

Daniele Vacchino