SENZA FIORI

Vi era una lapide a muro, sbiancata dal sole che la cuoceva senza tregua, a cui nessuno portava mai dei fiori. Si trattava di un’eccezione: se si escludevano le steli più vecchie, le altre venivano sempre ben rifornite di omaggi, freschi e odorosi boccioli depositati dalle mani rugose delle caritatevoli vecchine. Si trovava in una posizione periferica, incastrata com’era sul muro in fondo al camposanto, poggiata lungo il fianco su cui il sole scoloriva le scritte e la fotografia. Si sarebbe potuto pensare che fosse stata collocata laggiù apposta, come se chi l’avesse lì sepolta volesse in qualche modo incoraggiarne l’oblio. La ragazza riccia, ormai pallida per opera del lavorio dei raggi solari, che sorrideva mestamente nella fotografia, era come se fosse conscia di essere stata posizionata ai margini, e pareva rammaricarsene.

Se a qualche persona occorreva di recarsi laggiù in fondo, per andare a trovare qualche defunto, di certo capitava che lanciasse un rapido guardingo sguardo a quella lapide, per poi distogliere immediatamente la vista. Il più delle volte, capitava che a quell’occhiata facesse seguito un segno della croce, eseguito con rapidità, come se la persona non intendesse farsi notare.

Si sarebbe detto che la pallida ragazza riccia notasse tutto ciò: le rare volte che qualcuno passava là accanto, e con quel doppio gesto che aveva un sapore di superstizione, scartava la vista del suo viso, la ragazza nella foto perdeva il sorriso.

Un giorno, vennero quelli delle pompe funebri, ad eseguire un lavoro presso la lapide della ragazza. Una ragnatela ne copriva il volto, come se la fanciulla avesse deciso di nascondersi, per evitare di incappare in quegli sguardi e nei segni della croce. Gli operai issarono una scala a muro e poi si misero ad armeggiare sulla tomba. Era venuto il tempo di trasbordare la salma nell’ossario comune, dato che erano trascorsi gli anni fissati dalla legge, e non vi era più alcun parente che pagasse la pigione del loculo.

Fecero tutto con agile rapidità e in pochi minuti gli uomini stavano già calando la bara in legno scuro verso terra. Fu quando la cassa toccò il suolo che avvenne il fattaccio. Seppure tutto fosse stato eseguito con maestria, quando il legno poggiò sul cemento, la bara emise un cupo tonfo. I lavoratori impietrirono, quando videro quel che stava succedendo. Sulla cassa si era aperta una crepa grande quanto un nido di rondini e dal buco colava un liquido verdognolo, che in pochi secondi si allargò sul pavimento del porticato.

Una donna, che si trovava dentro una cappella funebre poco distante, vide quanto stava accadendo. In una mano teneva un fazzoletto di raso nero e con l’altra cingeva il capo di una bambina. La donna si accostò, trascinando con sé la bambina, cercando rifugio nel ventre scuro della cappella.

- Cosa succede, zia? – domandò la piccola, a cui erano stati chiusi gli occhi con la mano.

- Zitta, Emma. – la voce della donna si spandeva piano nel ventre della cappella – Sono andati a toccare la tomba di un’anima infelice. Quella ragazza sepolta lassù, tanti anni fa, per amore si era gettata nel canale.

Con la mano in cui teneva il fazzoletto di raso nero, la donna fece un rapido segno della croce, prima a sé, poi alla bambina.

Daniele Vacchino