LA MORTE HA SORRISO ALL’ASSASSINO
Aristide Massaccesi comincia a girare film nel 1972, dopo una lunga trafila come direttore della fotografia e operatore. A meri fini conoscitivi citiamo alcune opere realizzate tra il 1972 e il 1974 per lasciare spazio al solo film importante del periodo: La morte ha sorriso all’assassino.
Molti autori indicano come primo film di Massaccesi Un bounty killer a Trinità (1972). Altri sostengono che D’Amato non l’avrebbe mai diretto ma sarebbe solo direttore di produzione e sceneggiatore, mentre regista dovrebbe essere Oscar Santaniello. In realtà pare ormai accertato che Un bounty killer a Trinità sia opera di Massaccesi, ma è soltanto il suo secondo lavoro. Scansati… a Trinità arriva Eldorado (1972) è il primo film in assoluto, firmato dal produttore Diego Spataro (Dick Spitfire) per esigenze imperscrutabili. Sono due western che puntano molto sull’aspetto comico, girati in fretta, senza grandi pretese. Il secondo però presenta qualche trovata geniale che pare il marchio di fabbrica del suo autore. I titoli dicono che soggetto e sceneggiatura sono di Romano Scandariato e Diego Spataro, i dialoghi di Alberto Piferi, il montaggio di Piera Bruni, la scenografia e i costumi di Osanna Guardini, la fotografia di Aristide Massaccesi. Colonna sonora a ritmo di rock di Giancarlo Chiaramello eseguita dai Delirium e dagli Osanna. Interpreti: Stan Cooper (Stelvio Rosi), Gordon Mitchell, Daniela Giordano, Custer Gail, Carla Mancini, Dennis Colt, Paul Crain, Luck Mc Murray, Lina Alberti e Anthony G. Stanton.
Il film è una parodia del western classico e e segue il sentiero tracciato dal Trinità (1970) di Enzo Barboni interpretato da Bud Spencer e Terence Hill. Il personaggio principale è “il duca”, un delinquente da quattro soldi (ben interpretato da Stelvio Rosi), una via di mezzo tra il truffatore e il pistolero. Nella scena iniziale vende acqua sporca come elisir di lunga vita, aiutato dal fido complice Gordon Mitchell (noto agli amanti del peplum). Un vecchietto curioso manda a monte la truffa. “Il duca” (in realtà si chiama Jonathan Ducke) non si perde d’animo e si mette a fare il baro professionista, ma non ci sa fare e tutto si conclude con una rissa da saloon. Si entra nel vivo del film con l’assalto a Trinità, il paese governato dal folle Eldorado, un brigante che si crede un dio in terra. Molto trash la trovata di Eldorado che monta un cavallo truccato come una moto e si avvicina a una surreale pompa di benzina dicendo: “Fammi il pieno di super!”. Ottima la sequenza che vede Gordon Mitchell alle prese con un’orrenda prostituta e se ne libera fuggendo dalla finestra. Da ricordare Eldorado che si guarda allo specchio e domanda: “Specchio delle mie brame chi è il più ricco del reame?”. Possiamo continuare con Ringo che fa i rammendi, due ancelle seminude a fianco di Eldorado vestito da ufficiale dell’esercito sopra un trono d’oro e un’esibizione di giochi di prestigio che si conclude con un incontro tra provetti spadaccini. Le battutacce si sprecano e sono la vera essenza del film. “Chi di spada ferisce di spada perisce!” dice “il duca” quando colpisce il rivale. “Io sono Dio” fa Eldorado. “E io sono ateo” risponde “il duca”. Quando Eldorado sconfitto supplica che gli restituiscano l’oro, Jonathan Ducke risponde: “Gli dei non pregano vengono pregati”. “La folgore vi incenerirà!” grida il folle Eldorado. “Grazie non fumo” ribatte “il duca”. “Guardie!” grida alla fine in cerca di aiuto. “Le guardie sono finite. Sono rimasti i ladri!” risponde “il duca”. Si termina con il belato di Eldorado legato come un salame. Tenore parodistico della pellicola che presenta nei momenti comici e trash le cose migliori. Negative tutte le parti strutturali: lunghi inseguimenti, imboscate macchinose, sparatorie interminabili e scontate, cazzottate inverosimili. Il film è discontinuo e si perde nel finale. Alla fine l’oro di Eldorado finisce nelle tasche del “duca” che sposa la bella Juanita e si dedica a un redditizio hobby: il baro. Un mitico finale lo vede stendere sul tavolo verde quello che lui definisce un superpokermaggiore composto da cinque assi!
Il primo film certo di Massaccesi è Sollazzevoli storie di mogli gaudenti e mariti penitenti (1972) che ha come ammiccante sottotitolo Decameron n. 69. I titoli di testa lo accreditano a Romano Scandariato, assistente di regia, che si firma Romano Gastaldi. Pare che sia davvero di Massaccesi che nella versione inglese compare come Ralph Zucker. Lo conferma lui stesso nell’intervista rilasciata ad Andrea Giorgi e Manlio Gomarasca su “Duel” del marzo 1996.
“Il film risulta firmato da Romano Gastaldi, il mio aiuto. Siccome io facevo già il direttore della fotografia non sono voluto apparire come regista. Poi non pensavo che fosse un gran film…”. Di sicuro non è un gran film, una raccolta di episodi di chiara impronta erotico-pecoreccia che cavalca l’onda dei tanti decamerotici dell’epoca. Ma la pellicola diverte e si fanno grasse risate grazie a una sfruttata ispirazione boccaccesca. Massaccessi non firma la regia, ma soggetto, sceneggiatura e fotografia sono sue (che recita una piccola parte da frate), il montaggio di Piera Bruni e Gianni Simoncelli, le scenografie e i costumi di Evelyn Melcherich. Aiuto regista: Romando Scandariato (Gastaldi). Prodotto da Oscar Santaniello e Franco Gaudenzi per Transglobe Italiana. Interpreti: Monica Audras, Marzia Damon, Francesca Romana Davila, Attilio Dottesio, Ari Hanow, Stefano Oppedisano, Maria Piera Regoli, Antonio Spaccatini, Gianni Ucci. Un cenno a parte meritano le musiche di Franco Salina, interpretate dall’orchestra diretta dal maestro Roberto Pregadio. La canzoncina da osteria: “Padre, padre, padre superiore/ i nostri cuori difendi dal peccato…” accompagna l’intero sviluppo del film ed è di quelle che non si scordano.
Sollazzevoli storie… è un film diviso in tre episodi: Le due cognate, Fra’ Giovanni e Lavinia e Lucia. Funge da momento di raccordo la visita erotica di un gruppo di frati assatanati a un convento di monache. Il padre superiore è il più anziano, resta in fondo al gruppo (corrono come dei pazzi a ritmo della musichetta sopra riportata) e deve accontentarsi della suora più vecchia. “Come al solito”, commenta deluso.
Le due cognate è una storia di corna. Si racconta di un marito che parte per un affare e la moglie ne approfitta per portarsi in casa l’amante (uno scultore). Il marito torna a casa all’improvviso perché ha dimenticato una ricevuta importante. Non si accorge della presenza dell’amante (nascosto sotto il tavolo e poi sotto il letto) nonostante che gli pesti pure una mano. Decide di fermarsi a pranzo e ripartire nel pomeriggio. Intanto arriva al castello la sorella che doveva portare un certificato di proprietà. La cognata è stanca, si riposa sul letto e incontra lo scultore: senza pensarci troppo ne approfitta. Quando il marito parte, le due cognate si spartiscono l’amante da brave amiche e lo sfiniscono con intensi rapporti sessuali. L’uomo viene nutrito con alimenti energetici perché le sue prestazioni siano sempre migliori. Quando non ce la fa più lo buttano fuori di casa in malo modo.
Fra’ Giovanni è l’episodio più terribile e si nota la mano del futuro Joe D’Amato re dello splatter. C’è anche lui come attore, vestito da frate, che recita il mea culpa davanti a una donna in abiti discinti. La storia racconta di un giovane frate irretito da una donna diabolica che prima lo eccita, lo sfrutta, fa l’amore con lui e si fa pagare, quindi va a spifferare tutto al marito. La punizione per il povero frate è terribile: viene costretto all’autocastrazione con un coltellaccio per liberarsi da un assurdo marchingegno dove gli è stato rinchiuso il pene.
Lavinia e Lucia racconta la storia di un marito così avaro che risparmia persino sulle prestazioni sessuali per non sciupare la pelle e di una giovane moglie (Lavinia). Un ragazzo spia la donna e vorrebbe conoscerla, per questo decide di truccarsi da donna e farsi assumere a servizio. Un amico di famiglia lo presenta come Lucia e il gioco è fatto. Quando il marito parte per uno dei suoi commerci affida la moglie alla finta serva, che al momento di andare a dormire si scopre uomo. Lavinia, per niente scandalizzata, ne approfitta a più non posso. Quando il marito torna la moglie rifiuta di fare l’amore con lui (ormai è soddisfatta davvero) e allora l’uomo, ubriaco fradicio, insidia la serva e si accorge che ha un pene tra le gambe. Lucia si difende dicendo che “quel coso” è spuntato fuori da pochi giorni e per questo è molto preoccupata. Il marito decide di consultare un medico che lo rassicura: Lucia è un ermafrodito, porta fortuna, chi giace con lei avrà soltanto figli maschi. Termina in farsa completa con il marito che supplica la moglie di sacrificarsi e far l’amore con Lucia per avere un figlio maschio come erede.
Si conclude di nuovo con i frati (il glorioso Settimo Benedettini!) di ritorno dalla spedizione amorosa al convento di suore. Il film è divertente, ben sceneggiato, erotico al punto giusto. Un decamerotico scritto secondo le regole.
Nel 1973 Massaccesi comincia un’altra pellicola simile dal titolo Fra’ Tazio da Velletri che interrompe per disaccordi con la produzione, completata dal suo secondo Romano Scandariato, firmata Remo Gastaldi. Entrambi i film si collocano nel filone decamerotico e si caratterizzano per una maggior attenzione sull’aspetto erotico rispetto ad altre pellicole di identica ambientazione. Nel solito genere ricordiamo Canterbury n.2 – nuove storie d’amore del ‘300 (1973) che qualcuno attribuisce davvero a un certo John Shadow (forse Massaccesi), Novelle licenziose di vergini vogliose (1974) firmato Michael Wotruba, ma realizzato dal nostro in collaborazione con Franco Lo Cascio (in arte Luca Damiano), che ebbe due bocciature da parte della censura. Anche Diario di una vergine Romana (1973) è firmato Wotruba, un semplice rimontaggio di pellicole precedenti.
Soffermiamoci su Novelle licenziose di vergini vogliose (1974) che lo merita. Si tratta della prima collaborazione Massaccesi-Damiano, un duo di registi che verso la fine degli anni Novanta realizzerà diverse pellicole hard core. Prodotto da Massimo Bernardi e Diego Spataro per la Elektra Film. Soggetto e sceneggiatura di Michael Wotruba (Massaccesi) e Diego Spataro. Montaggio e fotografia di Massaccesi, scenografie di Evelyn Melcherich, aiuto regista Romano Scandariato. Regia attribuita al fantomatico Wotruba. Interpreti: Gabriella Giorgelli, Margaret Rose Kell, Enza Sbordone, Antonio Spaccatini, Mimmo Poli, Paolo Cosella, Marco Mariani, Evelyn Melcher, Attilio Dottesio, Tony Askin, Stefano Oppedisano, Enzo Pulcrano, Fausto Di Bella e Lucia Modugno. La musica è di Franco Salina, interpretata dall’orchestra diretta dal maestro Roberto Pregadio, che si inventa un’altra canzoncina ritmata che fa “Belzebù… Belzebù…” e ci accompagna in mezzo ai diavoli nella comica discesa all’inferno di un Giovanni Boccaccio da burletta. Il film inizia con la vecchia serva di Boccaccio intenta a rimproverare l’autore di scrivere sempre le solite porcherie. La scena è divertente. “Che poi almeno le facesse! Le scrive soltanto, lui! A me non mi ha mai toccata…” dice. Boccaccio è disgustato all’idea di far l’amore con quella vecchia serva e prima di addormentarsi pensa: “Con lei! L’inferno sarebbe una meraviglia al confronto…”. Nemmeno a farlo apposta il sogno lo conduce all’inferno, dove incontra peccatori che narrano storie incredibili. Nelle sequenze girate in un Inferno ricostruito in studio ci sono trovate davvero geniali. Boccaccio viene inviato all’Ufficio Accettazione dove lo accoglie un satanasso rosso che parla barese, quindi viene spedito al reparto Zozzoni. Comincia il suo viaggio negli inferi in compagnia di un inglese che alla fine confessa di essere l’autore dei “Racconti di Canterbury”, uno zozzone pure lui…
La struttura è quella del film a episodi.
Boccaccio incontra due coppie che sono state condannate a cercarsi in eterno e ascolta la loro storia. I quattro narrano di una notte delle beffe, durante la quale i mariti si erano accordati per scambiarsi le mogli, ma per ironia della sorte le mogli avevano fatto altrettanto. Il doppio scambio porta il risultato che ognuno giace con il legittimo consorte. Ma peccato resta.
Segue il prete di un paesino immerso in una botte ricolma di sterco. La storia è quella di Fioretta, una donna ossessionata dall’ardore sessuale del marito che ha un membro dalle dimensioni gigantesche. Fioretta sente un gran dolore ogni volta che fa l’amore e allora le studia tutte pur di essere lasciata in pace, indossa persino una cintura di castità. Alla fine va da un frate e chiede consiglio su come fare. Il frate è uno sporcaccione e le dice che deve cospargerle il corpo di un unguento miracoloso. La donna deve fare altrettanto e in quel modo il sesso le darà soltanto piacere. È ovvio che si tratta di un trucco per abusare di lei. Quando la donna torna dal marito e si dice disponibile ad avere rapporti, l’uomo si è organizzato con altre donne. Non poteva certo stare senza fare niente…
Divertente l’intermezzo tra Boccaccio e Dante Alighieri che si è perso per le vie dell’Inferno e sta cercando Caronte.
“Quello chi è?” chiede Boccaccio. “Bo’, uno che ha scritto una Commedia…” risponde la guida inglese.
A questo punto incontrano un’altra peccatrice che è costretta a insegnare il sesso ai vecchi. Questo perché in vita ha addestrato ai piaceri della carne il giovanissimo nipote che pensava solo allo studio. Infatti quando lo zio parte per un viaggio lei insidia il giovane, va a letto con lui, insieme scoprono un libro di educazione sessuale e lo studiano, mettendo in pratica pagina dopo pagina (i termini usati sono un po’ troppo moderni: glande, prepuzio, uretra…). Al ritorno dello zio la musica non cambia e il nipote, ormai addestrato alle gioie del sesso, insidia la zia allungando le mani sotto il tavolo.
Un altro peccatore è attorniato da un gruppo di donne per essere punito della sua omosessualità. In vita aveva una bella moglie, però se la faceva con un uomo e per non avere più rapporti sessuali con la consorte aveva pagato un medico per ottenere una finta diagnosi. La moglie un bel giorno si accorge di tutto e approfitta anche lei dello stallone. In breve tempo i due sporcaccioni portano l’amante conteso alla morte per sfinimento sessuale.
A questo punto c’è un altro gustoso siparietto con Nerone che gira per l’Inferno cantando con la sua lira e dice a tutti quelli che incontra: “Non sono stato io a dare fuoco a tutto!”.
L’ultimo peccatore è un maestro di musica che per penitenza deve essere suonato nel corpo per l’eternità. Infatti quando era vivo invece di insegnare a una ragazza i solfeggi del flauto le aveva fatto apprendere l’arte di suonare ben altro strumento. E non si era limitato alla figlia (piuttosto brutta), ma le sue attenzioni si erano riversate pure sulla madre. Tra l’altro si era spacciato per omosessuale con il padre della ragazza. Dopo nove mesi madre e figlia sono entrambe incinte.
Alla fine del viaggio Boccaccio giunge al reparto Zozzoni e scopre qual è la sua pena. Un diavolaccio lo percuote con un gigantesco martello e gli grida a più riprese: “Zozzone!”.
Per fortuna è soltanto un sogno. Boccaccio si sveglia, Francesco Petrarca sta bussando alla porta e quando entra lo trova disperato che balbetta: “No, non è vero… non voglio finire all’inferno…”.
Il film è divertente ma è sicuramente più scarso come trovate comiche di Sollazzevoli storie… Il filone si sta esaurendo, non è facile trovare battute e situazioni sempre nuove. In ogni caso buona ambientazione storica e scenografica, fotografia curata, recitazione all’altezza. Difetta di ritmo e continuità, certi episodi (come quello del maestro di musica) sono fiacchi e lenti. Da notare che il titolo originale era Le mille e una notte di Boccaccio a Canterbury, ma venne bocciato dalla censura ben quattro volte e fu ripresentato tagliato. con un titolo diverso.
Nel 1973 Massaccesi esperimenta anche altri generi popolari: bellico, peplum e kung-fu.
Eroi all’inferno firmato Michael Wotruba è una storia di resistenza e nazismo condita di sangue. Si ricorda per la presenza del grande Klaus Kinski nei panni del cattivo ufficiale nazista. Poco distribuito. Cast tecnico: scenografia di Carlo Gentili, montaggio di Gianfranco Simoncelli, fotografia di Aristide Massaccesi (che firma soggetto e sceneggiatura), montaggio di Piera Bruni. Le musiche sono di Vasil Kojicharov. Interpreti: Lars Bloch, George Manes, Carlos Ewing, Rosemarie Lindt, Lu Kamante, Luis Joyce, Christopher Oakes, Stan Simon, Dick Foster, Edmondo Tieghi, Ettore Manni (nella parte di Bakara, il medico) e Klaus Kinski (breve apparizione).
Il film nasce perché la produzione disponeva di alcuni filmati d’epoca in bianco e nero acquistati a buon prezzo. Serviva una storia per utilizzarli. Massaccesi inventa una storia di guerra, inserisce i filmati dei bombardamenti mentre scorrono i titoli di testa e come momento di raccordo tra le parti inziali. Si narra di un gruppo di prigionieri alleati che con uno stratagemma fuggono dai tedeschi per unirsi ai partigiani. Tra mille peripezie catturano un generale nazista e trafugano i piani di difesa, ma in questa difficile operazione quasi tutti trovano la morte. Resta vivo soltanto Ettore Manni, il medico alcolizzato che nella sequenza finale ricorda tutti i suoi amici morti da eroi. Di questo film ricordiamo soprattutto una bella scena di operazione eseguita da Ettore Manni che rasenta lo splatter. Una pallottola viene tolta dalla spalla di un prigioniero in modo crudo e realistico. Pure alcune uccisioni sono realistiche e molto orrorifiche. Le scene che Massaccesi è obbligato a inserire sono troppo lunghe e rallentano il ritmo di un film di per sé buono e avvincente. Tra gli attori Kinski è molto bravo, ma pure Ettore Manni e Rosemarie Lindt non sono da meno. Su Kinski Massaccesi ha detto a Nocturno che “era un marchettaro, faceva tutto per soldi, andava dove meglio lo pagavano, però era un professionista eccezionale”.
La rivolta delle gladiatrici è un tardo peplum che appartiene al filone dei gladiatori, ma la sua importanza sta nel fatto di essere l’unico film del genere girato al femminile. Il film resta comunque sullo stile di lavori come Le amazzoni di Alfonso Brescia ed ha avuto il solo torto di uscire in un periodo storico in cui il genere aveva esaurito la sua carica innovativa.
È la storia di un gruppo di guerriere barbare catturate dai romani, rese schiave e in seguito obbligate a lottare tra loro nell’arena come gladiatrici. La pellicola narra della rivolta capitanata dalla sensuale Pam Grier, che guida le amazzoni verso la libertà dopo aver ucciso una perfida aguzzina. Da segnalare, in puro stile Massaccesi, un po’ di sangue nelle sequenze di lotta nell’arena e alcune scene di amore saffico. Interessante la tematica femminista che vede le gladiatrici ricompensate dopo ogni vittoria con una notte d’amore insieme all’uomo desiderato. Il sesso si fonde con la violenza ma è sempre estremamente soft. Prodotto dalla New World di Roger Corman e girato da Massaccesi con la collaborazione di Steve Carver (montato da Joe Dante). In ogni caso si avvale di un cast d’eccezione che mette insieme Pam Grier e Daniele Vargas ma anche Rosalba Neri e Lucretia Love. Nell’edizione americana Massaccesi non viene citato: pare che lui fosse soltanto il regista della seconda unità. In realtà il produttore Franco Gaudenzi non si fidava del giovane Steve Carver spedito in Italia da Corman e volle Massaccesi sul set come direttore della fotografia. Già che c’era girò anche una parte della pellicola e insieme a questo film realizzò pure Livia una vergine per l’impero romano noto pure come Diario di una vergine Romana (mai uscito in Italia). Massaccesi ha detto a Pulici e Gomarasca di Nocturno che nella pellicola Carver ha girato le parti dialogate e lui quelle di lotta nell’arena. Massaccesi non conosceva l’inglese e non avrebbe saputo interagire con il cast.
Pugni, pirati e karaté è un rimontaggio di materiali acquistati altrove con delle scenette che danno un senso al tutto. Fu girato in soli sei giorni e basato sui filmati che il produttore Gaudenzi aveva raccolto e che consistevano in immagini di repertorio di pirati. Pessimo lavoro, ma da ricordare perché Massaccesi per la prima e unica volta si cimenta con scene di kung-fu alla Bruce Lee. Ci sono anche marinai e pirati e il titolo originale doveva essere Pugni, pupe e karaté. Si firma ancora Wotruba.
La morte ha sorriso all’assassino è del 1973 e ha come sottotitolo Sette strani cadaveri. Per noi è un lavoro importante, la prima vera tappa dalla quale cominciare a parlare della figura di Aristide Massaccesi, perché si tratta di un film horror classico.
Come faccia Marco Giusti su Stracult a parlare di porno-horror resta un mistero. Ci sono poche scene erotiche e per la maggior parte delle situazioni si lascia soltanto intuire. Niente di porno, ve lo assicuriamo. Un film molto gotico condito di numerosi effetti splatter. Cominciamo a capire che cosa è l’horror per Massaccesi: la rappresentazione di qualsiasi avvenimento estremo, viscerale e raccapricciante, ma anche lo splatter violento commisto alla tensione psicologica e alle atmosfere angosciose (si veda Antonio Tentori “Horror made in Italy – vol. 2”, Profondo Rosso Editore).
La sceneggiatura del film è dello stesso Massaccesi con la collaborazione di Romano Scandariato e Claudio Bernabei. La fotografia è di Massaccesi, le musiche sono di Berto Pisano, il montaggio di Piera Bruni e Gianfranco Simoncelli, le scenografie e i costumi di Claudio Bernabei. Produzione di Franco Gaudenzi per la Dany Film. Distribuito da Florida.
Da notare che Aristide Massaccesi per la prima volta firma una pellicola con il vero nome. A livello di curiosità c’è da dire che il produttore Franco Gaudenzi era un ex avvocato del cinema amico di Massaccesi che più tardi (1988) produrrà Zombi 3. Qui è accreditato alla cura degli effetti speciali. Il cast: Ewa Aulin (Greta), Klaus Kinski (dottor Sturges), Angela Bo (Eva), Sergio Doria (Walter Ravensbrook), Giacomo Rossi Stuart (Herbert), Attilio Dottesio (commissario Dane), Marco Mariani, Luciano Rossi (Franz), Fernando Cerulli, Carla Mancini e Giogio Dolfin.
Questa pellicola ricalca molto da vicino le atmosfere del cinema gotico anni Settanta e fa proprie molte reminiscenze argentiane frammiste a tematiche magiche e oscure. Non solo: a un’attenta visione non può sfuggire la notevole ispirazione narrativa da Edgar Allan Poe e Le Fanu (ricorda molto Carmilla). Il film è girato in un’atmosfera oscura, si svolge tra castelli e cripte, parla di amuleti e maledizioni, reso ancor più inquietante dalla musica di Berto Pisano. Ci sono alcune sequenze erotiche, soprattutto le prime scene splatter del cinema italiano con occhi strappati alla Fulci (Zombi 2) e visi dilaniati. Per la prima volta Joe D’Amato si avvicina al cinema di sexploitation, mostra il mostrabile senza remore o tabù di sorta. Il dualismo orrore-erotismo, due generi una volta separati da uno steccato invalicabile, tornerà spesso nei lavori di Massaccesi. Il regista romano è il primo a tentare una commistione tra i due generi che più ama senza mai farsi prendere la mano dall’uno o dall’altro. Il critico cinematografico è in difficoltà quando si trova a dover classificare certi film di Massaccesi, perché incerto sul genere preponderante. Pino Farinotti nel monumentale Dizionario di tutti i film (si noti il sottotitolo dell’opera: dalla parte dello spettatore) liquida il film come “un giallo condotto con la tecnica del documentario”. Non è da meno Paolo Mereghetti nel suo Dizionario: “contorta e risibile la sceneggiatura… di atmosfera ce n’è pochina giusto qualche effettaccio… il gotico italiano era già morto e sepolto…”. Stronca Massaccesi pure come direttore della fotografia perché “eccede in grandangoli e zoom”. Ed è tutto dire. Ci risolleva leggere Antonio Tentori che conosce bene Massaccesi e ha visto il film proprio come noi: “In questo primo film thriller del regista sono presenti omicidi a colpi di rasoio, atmosfere gotiche, violenza esasperata. Un crescendo di tensione e inquietudine, saturo di un clima malsano e morboso che conferisce alla pellicola il suo strano fascino”.
Vediamo in breve la trama che non è affatto confusa e contorta. Solo un tantino complessa, serve un po’ d’attenzione durante la visione e soprattutto la mente libera da pregiudizi.
La storia si svolge all’inizio del secolo e fa dell’atmosfera gotica la sua arma migliore. Si comincia con il fratello deforme di Greta in lacrime: “Povera sorellina, ti hanno strappata a me. Povero amore, così dolce e così romantico…”. Greta è morta e giace sopra una lapide. Il fratello ricorda che da piccoli lui ne è sempre stato innamorato. “Ti hanno uccisa e io non ho fatto niente per impedirlo. Sono colpevole anch’io”. Il fratello amava la sorella di un amore morboso, era geloso di lei e del suo uomo, non avrebbe voluto che si sposasse. Cambio scena. Sono passati gli anni. Una donna – che pare in tutto e per tutto Greta (infatti è lei) – subisce un incidente alla carrozza sulla quale sta viaggiando e accetta l’ospitalità nella villa di Walter ed Eva Ravensbrook, una coppia di sposi. (La citazione di Carmilla è evidente!) Il conducente muore orrendamente sfigurato e noi assistiamo alla prima scena cruda del film. Un medico (un ottimo Klaus Kinski) visita la donna e si accorge che qualcosa non va. Lui sta studiando la resurrezione dei morti ed è affascinato da uno strano gioiello che Greta porta al collo. Prima che possa scoprire altro viene assassinato insieme al suo assistente. Viene uccisa con un colpo di fucile in pieno volto anche una serva della villa, prima che possa fuggire spaventata. In questa parte ricordiamo un grande utilizzo di primissimi piani e un uso eccessivo di inquadrature sugli occhi dei personaggi, per sottolineare il crescendo di tensione e di angoscia.
Greta ha perso la memoria, la coppia le chiede di restare alla villa; vengono date feste in suo onore e si organizza una caccia al fagiano. Poco a poco Walter si innamora della ragazza e anche sua moglie Eva è irretita dal fascino torbido della strana ospite. Greta va a letto con entrambi. Alcune scene giustificano un discorso di contaminazione tra horror ed erotico (non certo porno!). Eva a questo punto viene colta da un raptus di folle gelosia e mura viva Greta in uno scantinato. Quando il marito fa ritorno a casa chiede notizie della ragazza, ma la moglie risponde che Greta è andata via. Walter chiama la polizia ma il commissario non sa che fare perché nessuno ha visto la ragazza. Pochi giorni dopo, durante una festa in maschera, Greta compare di nuovo e si vendica della donna che l’ha rinchiusa nello scantinato. Il suo volto si trasfigura in una maschera orribile (notevole il trucco della maschera terrificante) ed Eva si getta nel vuoto suicidandosi. Sequenze ad alta tensione con il volto della morte in primo piano, prima sorridente e poi terribile, che colpisce senza pietà. Horror puro. Al funerale arriva anche il padre del marito di Eva e ci rendiamo conto che era il marito di Greta, il padre di quel figlio che l’ha fatta morire di parto. Lui vede quella che un tempo è stata la sua donna e ricorda. “Non sono morta” gli dice Greta e lo chiude in una tomba dove lo uccide senza pietà. Si libera di Walter. “Sono tornata” dice. E fa l’amore con lui, ma sul più bello appare il volto orrendo della morte. Lo uccide attaccandolo a dei ganci infissi nella parete. Infine è la volta del servo che conosce il segreto di Greta. “Vieni a prenderti la tua ricompensa” dice lo spettro. E massacra l’uomo con diverse coltellate al volto. Quando arriva il commissario vede quell’orrore e trova la medaglietta di Greta. Uno studioso gli dice che quel tipo di amuleto veniva usato dagli Incas per far tornare in vita i loro re e che proprio il fratello di Greta stava studiando quel mistero. Il commissario va a casa del fratello ma lo trova cadavere in decomposizione avanzata: è morto da anni. In realtà è stato la prima vittima della sorella, che dopo essere resuscitata l’ha ucciso gettandogli un gatto tra gli occhi. Altra sequenza splatter molto ben realizzata e il mazzo di fiori che in volo si tramuta in gatto infuriato è un pregevole virtuosismo tecnico. La spiegazione del mistero si trova a inizio pellicola: Greta era morta di parto alcuni anni prima e per mezzo dell’amuleto il fratello innamorato l’aveva richiamata in vita. Per finire il commissario si accorge che la tomba di Greta è vuota e si domanda davanti alla moglie: “Mi chiedo se riuscirò mai a risolvere questo caso”. Per tutta risposta nella scena finale la moglie appare al commissario con le sembianze di Greta.
Klaus Kinski e Giacomo Rossi Stuart sono interpreti eccellenti di una storia cupa, ben fotografata e arricchita dalla suggestiva colonna sonora di Berto Pisano. Meno brave le attrici Ewa Aulin e Angela Bo che sembrano poco calate nella parte, soprattutto la Aulin che deve recitare un insolito ruolo di zombie assassina.
Il film non ebbe molto successo. Secondo Massaccesi e Scandariato la colpa fu della produzione che inserì qua e là scene erotiche girate da controfigure (nemmeno più di tante) e soprattutto un pessimo sottotitolo: il primo splatter romantico.
In ogni caso resta un film da vedere e da ricordare perché è da questo lavoro che cominciano i film di Massaccesi che amiamo di più: quelli in cui lo splatter erotico contamina l’horror.
Per completezza citiamo Giubbe rosse (1975), un film nato per caso mentre Massaccesi era in Canada per filmare una corsa di slitte per il primo Zanna Bianca di Lucio Fulci. La produzione di quel film gli affidò, ritenendolo un esperto, anche un western di ambientazione canadese. Giubbe rosse è il primo lavoro che Massaccesi firma come Joe D’Amato. Pare che lo pseudonimo fu un’idea del produttore Ermanno Donati e che venne scelto Joe D’Amato perché all’epoca andavano molto di moda gli italo-americani come Scorsese, Coppola e De Niro. Joe D’Amato è il nome che non lo abbandonerà più. Vediamo il cast tecnico della pellicola. Soggetto e sceneggiatura di Claudio Bernabei, anche aiuto regista, montaggio di Bruno Micheli, effetti speciali di Antonio Corridoni, costumi di Giovanna Deodato (la sorella del regista Ruggero), fotografia di Aristide Massaccesi. Le musiche sono di Carlo Rustichelli, dirette da Gianfranco Plenizio. Direttore di produzione è Alfonso Donati. Interpreti: Fabio Testi, Guido Mannari, Wendy D’Olive, Robert Hundar, Lars Block, Lynne Frederick, Lionel Stander e il piccolo Renato Cestié. In breve la trama. Fabio Testi è Bill Cormack, detto il cacciatore, un intrepido sergente delle giubbe rosse che ricorda Audax, il fumetto di Alex Raymond tratto dalle storie di Zane Gray. Il film racconta la rivalità tra lui e il fratello Cariboo, diventato bandito dopo aver perso molti soldi al gioco. Cormack lo spedisce in galera dopo un duplice omicidio, poi sposa la sua donna che muore subito dopo avergli dato un figlio. Cariboo scappa di prigione e per vendicarsi del fratello rapisce il bambino, interpretato da Renato Cestié, ragazzo prodigio del cinema italiano. Cestié aveva già recitato nel Leonardo Da Vinci televisivo e nel lacrima movie L’ultima neve di primavera. Cormack lo raggiunge, dopo un lungo inseguimento in mezzo alle nevi del freddo nord, ma Cariboo è braccato pure dai banditi che vogliono recuperare l’oro che ha trafugato. Il bambino intanto si ammala di difterite e Cariboo dimostra di non essere così cattivo perché lo fa curare da un esilarante medico ubriacone interpretato da Lionel Stander. Il finale è ad alta tensione con i due fratelli (il pubblico scopre la parentela soltanto in questa sequenza) che si affrontano in una lotta al coltello. L’arrivo dei banditi però fa rinascere la solidarietà tra i due fratelli e Cariboo perde la vita per salvare il bambino. Un finale strappalacrime riscatta il cattivo e Cormack lo consola dandogli pure l’illusione che tutto finirà bene.
Il film non è male. Un po’ fumettone, presenta una separazione manichea tra buoni e cattivi, certi personaggi sono troppo caricaturali (il tenente interpretato da Daniele Dublino), la recitazione non è il massimo (a parte l’ottimo Lionel Satnder), i dialoghi sono lunghi e compassati. Ma l’ambientazione è ottima e i pezzi di corsa con le slitte in mezzo alla neve ripresi da Zanna Bianca non sfigurano.
(2 – continua)