Quel giorno tirava un forte vento e, sebbene ci trovassimo già tra le mura di casa, la mia vecchia zia sbandava da una parte all’altra mentre saliva la scala.
- Colpa degli spifferi delle porte – diceva con voce ancora solida.
A quel tempo, andavo a trovare la zia almeno una volta al mese, poiché suo marito era morto da poco e la vecchia ci teneva che la accompagnassi a cambiare i fiori sulla tomba.
Preparava sempre il caffè con una macchinetta arrugginita, poi lo bevevamo in silenzio, davanti alla finestra.
- Oggi te ne stai buonina in casa – le dissi – e non apri a nessuno, nemmeno agli zingari che vengono a rovistare nei campi.
- Magari potessi! In giorni come questi, il vento trascina le foglie dalla campagna e le ammassa nel mio cortile. Così devo levarle prima che faccia buio.
- Nelle tue condizioni di salute, proprio non si dovrebbe.
- Eh, tu parli da buon cittadino – mi disse guardando fissa di là dai vetri – e certe cose non le conosci, o forse hai dimenticato i racconti che ti facevano i tuoi nonni, quando venivi qui al paese. Se non spazzi le foglie, quando cala il sole viene la donna del vento, e fa il lavoro al posto tuo. Solo che, sai, la donna del vento non lavora senza paga e, se la fai scomodare troppo spesso, finisce che ti fa sparire un gatto o, magari, un figlio.
La guardai di sottecchi, tentando un sorriso. Ma quella proseguì senza nemmeno considerarmi:
- Quella donna ha i capelli che le arrivano fino ai talloni e le unghie, filiformi, formano una specie di rastrello: è con quelle che ramazza le foglie. Ci sono vecchi che dicono di averla vista, terminato il suo compito, accartocciarsi in un angolo del giardino e mangiare le foglie, per farle sparire. Quando si allontana, il vento tace di colpo e la donna costeggia i campi di granoturco, fino a che non trova un punto che faccia al caso suo e dilegua tra le spighe. Qualcuno giù al paese giura di aver visto i suoi occhi, a notte fonda, brillare tra le spighe.