2.
Azela abitava a Guanabacoa, alle porte delle spiagge dell’est Avana, un quartiere popolato da discendenti degli schiavi africani dove ancora erano forti le superstizioni santere.
La religione cattolica doveva convivere con i culti pagani, ne erano consapevoli anche i preti che andavano a dire messa. Tutte le case avevano le statue della tradizione e i piccoli altari con le candele. I santi erano venerati dopo il calar del sole e in molti credevano che da loro dipendessero le cose della vita. Quel che era ancora più strano era che la maggior parte della gente si diceva al tempo stesso cattolica e devota alla santería. Il confine tra superstizione e religione era sempre più difficile da distinguere.
Azela aveva antenati africani e frequentava i riti santeri, sapeva tutto di quella curiosa commistione di immagini cattoliche che nascondevano figurazioni pagane. Gli schiavi deportati avevano appreso presto a nascondere la loro religione dietro immagini cattoliche, dovevano difendersi dall’intolleranza degli spagnoli. Adesso non era quello il problema, tutt’altro. Le due religioni si erano così confuse che non si riusciva più a distinguere il confine tra culto santero e religione cattolica, le immagini di San Lazzaro e Santa Barbara, che nascondevano Babalú-Ayé e Changó, venivano venerate senza più capire la differenza.
Azela abitava vicino all’Albergue Roble, nella periferia di Guanabacoa, in una piccola casa coloniale devastata da anni d’incuria. Un tempo doveva essere stata bella e forse abitata da nobili spagnoli. L’intonaco esterno conservava tracce d’un colore celeste, tra le colonne crepate. Vicino a lei viveva un santero di nome Armando, in una cadente casa di legno che a stento resisteva alla furia di venti e tornados. Azela frequentava le sue evocazioni e i riti, seguiva messe spirituali, faceva offerte ai santi e agli spiriti dei morti. Fuori della casa di legno c’erano palme e banani, in mezzo la statua di Santa Mercedes, perché il santero era devoto a Obatalá.
Azela parlava spesso con Barbara, la rincuorava e le teneva compagnia, capiva la disgrazia di quella madre, anche lei aveva figli e solo l’idea di perderne uno la faceva soffrire. Barbara sarebbe rimasta sola e per Azela la solitudine era il peggiore dei mali, abituata com’era a essere circondata di marmocchi festosi nella piccola casa di Guanabacoa. Le grida dei bambini le tenevano compagnia e le davano allegria, non le pesava doversi occupare di cinque furie scatenate. Il più grande aveva appena sei anni, il più piccolo due, quando lei e il marito non erano in casa ci pensavano i suoceri o i genitori. Occuparsi di un bambino non era un problema e tutti si offrivano di farlo. Azela guardava il pianto di Barbara e la consolava.
“Vedrai che qualcosa accadrà”.
“Che Dio ti ascolti” rispondeva Barbara, ma più il tempo passava, più la sua fede vacillava.
Un giorno Azela si presentò in ospedale e prese la decisione di dirle quello che avrebbe fatto se fosse stata al suo posto. Sapeva che poteva anche essere pericoloso, perché quello che voleva dirle non era ammesso dalla legge e dai regolamenti dell’ospedale. Ma l’avrebbe fatto. Quella donna aveva diritto a una speranza.
Entrò nella camera di Roberto per fare i servizi di tutti i giorni, cambiare le coperte, far entrare un po’ d’aria, inserire in vena una nuova flebo, controllare che tutto fosse in ordine e che il paziente non avesse avuto complicazioni. Ma lo fece con uno spirito nuovo, in attesa che arrivasse Barbara con la prima guagua del mattino. Roberto le faceva pena. Era un gran bel ragazzo, giovane, alto, con gli occhi sorridenti e lo sguardo che un tempo doveva essere stato penetrante e pieno di vita. Non doveva morire così. Non dovevano lasciarlo in balia d’un destino che gli aveva messo sui suoi passi un insieme di strane e pericolose coincidenze. Azela sapeva che c’era solo una cosa da fare. Quando vide Barbara affacciarsi alla porta della camera le corse incontro e l’abbracciò sorridendo.
“Siediti. Dobbiamo parlare” disse.
Barbara rimase sorpresa e incuriosita.
“Cosa può esserci di tanto importante?” rispose.
Poi si avvicinò al letto del figlio, come ogni giorno accarezzò quella fronte immobile e la sfiorò con un bacio. Non attendeva una risposta, sapeva che era impossibile, ma la speranza che d’un tratto Roberto alzasse la testa e le dicesse: “Mamma, sei tu?” non l’abbandonava mai.
Azela avvicinò la sedia e sedette accanto a lei.
“Ascoltami e poi mi dirai. Ti chiedo solo questo”.
“E sia. Parla”
“Non stai seguendo la via giusta, Barbara”
“Non ti comprendo. Cosa vuoi dire?”
“I medici non servono per queste cose”
“E chi altro può aiutarmi?”
“Qui non posso dire di più. È pericoloso”
“Cosa c’è di pericoloso?”
Barbara non comprendeva, non aveva la più pallida idea di cosa l’infermiera le volesse far capire. Azela teneva un foglio di carta ingiallita nella mano destra.
Prese la mano di Barbara e la strinse tra le sue.
“Non leggerlo qui, ma promettimi che lo farai”.
Barbara rimase sorpresa e rigirò un po’ tra le mani quel foglio spiegazzato, indecisa su che fare, poi lo ripose in tasca. Pensò che dopo tutto non aveva niente da perdere.
“Lo farò” rispose.
“È importante. È l’unica cosa che può ridarti una speranza. Devi farlo anche se ti può sembrare una cosa assurda” disse Azela.
Non aggiunse altro. Si alzò per continuare il lavoro interrotto, aveva ancora molto da fare, altri pazienti l’attendevano prima dell’ora di pranzo. Azela era felice, sapeva di aver fatto una cosa importante per quel ragazzo. Solo quello che aveva consigliato avrebbe potuto riportarlo in vita. Restava soltanto un dubbio a tormentarla: Barbara le avrebbe dato ascolto?
Barbara aveva rigirato a lungo tra le mani quel biglietto di carta gialla. Era un foglio di carta grezza, di quella che usavano nei negozi di Stato per avvolgere il riso o i fagioli neri venduti con la tessera del razionamento alimentare. Durante tutto il viaggio di ritorno ad Alamar fu tentata dal leggerlo ma non lo fece. Non badò neppure a chi si avvicinava per darle fastidio o al cattivo odore che si diffondeva lungo il corridoio stretto e affollato. I suoi occhi vagavano per le strade della sera a indagare le immagini che scorrevano dal finestrino. La gente della capitale faceva rientro, auto scassate dai motori scoppiettanti si alternavano a biciclette, motorini e pedoni sorridenti. Una giornata di lavoro volgeva al termine, venditori di maní gridavano per attirare l’attenzione, mentre chioschi improvvisati che spacciavano carne di porco e birra a poco prezzo si davano da fare per concludere gli ultimi affari. Le solite immagini apparvero sotto una luce nuova e i pensieri che le passavano per la mente andavano sempre nella stessa direzione. Cosa aveva da perdere, in fondo? Suo figlio stava morendo e forse nessuno aveva il coraggio di dirle che non c’era più niente da fare. Barbara si accorse che era arrivata ad Alamar solo quando si trovò di fronte alla distesa di palazzoni condominiali, che negli anni Settanta avevano preso il posto delle baracche in legno dove viveva la povera gente ai tempi di Batista. Aveva la testa piena di pensieri e il tragitto le era sembrato più breve del solito. In lontananza il mare rumoreggiava vicino alle barche dei pescatori e alte palme dal tronco esile si lasciavano accarezzare dal vento della sera. La canna selvatica, in fondo a un viale polveroso lastricato a pietre, nascondeva la sua casa solitaria e poco oltre s’intravedeva la spiaggia. Era una spiaggia povera, da cubani, che non aveva niente a che vedere con le affollate spiagge dell’est o con Varadero. Là un turista non ci sarebbe mai venuto, tra scogli e immondizia, resti di legname scartato per la fabbricazione delle barche e pesce in putrefazione. Barbara avrebbe dovuto fare un bel tratto di strada a piedi, la guagua si fermava ai palazzi dove viveva la maggior parte degli abitanti del quartiere. Poi ripartiva alla volta di Guanabacoa. Aspirò inebriata il profumo intenso dei fiori rossi del flambojant, che si confondeva con il vento caldo della sera. Era maggio, le giornate diventavano sempre più lunghe, nonostante il sole fosse già tramontato c’era ancora un chiarore diffuso nell’aria.
Barbara ricordò ancora le parole di Azela.
“Se solo questo mi può aiutare sarà quello che farò” mormorò a bassa voce mentre colpiva con un calcio una pietra sul selciato polveroso che la portava in direzione del mare.
Si trattava della vita di suo figlio e doveva tentare anche le cose più improbabili. Rovistò nella tasca dove teneva il foglio spiegazzato e lo aprì. Le tremavano le mani. Temeva ciò che avrebbe potuto leggere. E si meravigliò non poco nel vedere che c’erano soltanto un nome e un indirizzo, scritti con grafia malferma e un invito a far presto, perché solo parlando con quella persona poteva risolvere il problema. Era l’indirizzo di un santero di nome Armando. Il biglietto terminava con tre parole: “Fidati di lui!”. Barbara in vita sua si era sempre fidata di persone e cose che avevano finito per deluderla. Adesso le restava Dio e non voleva essere lei a tradirlo, facendo qualcosa che dimostrava la sua mancanza di fede. La santería era una superstizione, lo sapeva bene. Padre Antonio l’aveva sempre messa in guardia da quei culti che portavano soltanto sulla strada del peccato.
Ma dentro di sé sentiva che doveva tentare. Se era l’unica strada possibile per salvare suo figlio doveva farlo. Non poteva restare inerme a vederlo morire. Il giorno dopo non avrebbe preso la guagua diretta alla Villa Panamericana, ma quella per Guanabacoa, dove il foglietto ingiallito di Azela le diceva di andare.
(2 – continua)