Il giorno successivo Barbara si svegliò presto e fece una rapida colazione a base di latte in polvere e caffè con chicharo, pane non ne aveva ma il casave andava bene lo stesso, ormai non sentiva più la differenza tra la farina di grano e quella di yuca.
Era una giornata importante, sarebbe andata a Guanabacoa per capire se poteva confidare in quello che le aveva detto Azela.
La guagua per Guanabacoa impiegava lo stesso tempo di quella diretta alla Villa, solo che viaggiava in direzione Centro Avana. Barbara scese al parco centrale di Guanabacoa, mancava poco alle undici, il sole del mattino bruciava con forza e la faceva sudare. Sulla guagua era stata la solita avventura, aveva preso quella chiamata el camello perché composta da due vetture staccate più alte e un’interruzione centrale. El camello era un’invenzione recente del Ministero dei Trasporti Pubblici, subito dopo l’inizio del periodo speciale. Sarebbe dovuto servire per risolvere il problema della crisi energetica e dei mezzi di trasporto. Era più capiente e portava più operai in una volta sola. A Barbara ogni volta che ci saliva le venivano a mente i detti popolari. “El camello è vietato ai minori, perché dentro c’è di tutto: scene di violenza, sesso e parole per adulti”. Era cosi, infatti. Gente sudata, accalcata, che gridava, bestemmiava, lanciava piropos coloriti alle ragazze, altri che litigavano per il posto a sedere, maledicendo il tempo e il caldo asfissiante. I più audaci si avvicinavano alle ragazze giovani e carine, facevano proposte, qualcuno approfittava per allungare le mani. Si era ricordata quando da ragazzina la fermavano per strada per farle complimenti audaci e apprezzamenti volgari. Con orgoglio pensava che ancora adesso non ne andava immune, se era da sola. Quella mattina però non accadde niente, forse capitò tra gente tranquilla e i ragazzi avevano da fare con quelle più giovani di lei.
L’indirizzo che le aveva dato Azela era distante una buona mezz’ora dalla fermata del camello prevista nella zona centrale, tra palazzi coloniali screpolati e angusti viali polverosi, delimitati da flambojantes e ceibas. Doveva recarsi vicino al quartiere del Roble, era là che viveva Armando. Barbara aveva una bottiglia con acqua gelata nella borsa di stoffa, la conservava nel piccolo congelatore che teneva a casa e quando usciva nei giorni più caldi la portava con sé. Non aveva denaro per fermarsi a bere in un chiosco o in una caffetteria, quindi si premuniva.
Il quartiere del Roble era in gran parte quello che il governo chiamava pomposamente albergo, ovvero le baracche di legno e cemento dove abitavano i senza tetto. Qui viveva molta gente trasferita dall’Avana Vecchia, dopo i tornados degli ultimi anni che avevano dato il colpo di grazia a case pericolanti. La situazione avrebbe dovuto essere provvisoria, ma in quel momento di crisi il provvisorio finiva per diventare definitivo. Erano quasi dieci anni che quella gente viveva in una stanza unica arredata con un letto e un mobile. Per non parlare dei servizi igienici e delle cucine nella più completa promiscuità, privi dei minimi requisiti di igiene. Intorno all’albergo, recintato come per separarlo dal resto del quartiere, si estendeva la campagna con alberi di banani e mango, coltivata a boniato e mais.
Armando abitava proprio in mezzo ai campi, in una piccola casa di legno con la porta aperta a ogni ora del giorno. Fu così che la trovò anche Barbara, dopo una lunga camminata sotto il sole cocente. Arrivò accaldata e stanca davanti a una modesta abitazione che sembrava dovesse cadere a terra da un momento all’altro. Sulla porta la colpì un disegno con un occhio aperto, in mezzo una lingua trafitta da un pugnale che perdeva sangue. Era un’immagine terrificante, ma lei sapeva che si usavano queste cose, la mamma le aveva detto che servivano contro il malocchio e per difendersi dalle malelingue. La porta era aperta quindi entrò senza bussare. Si trovò in una sala priva di arredamento, con il pavimento in terra, dove non c’era neppure una sedia. Armando doveva essere molto povero e lei pensò subito he un uomo così miserabile non poteva certo esserle d’aiuto. Nella piccola sala spoglia, sopra un altarino rudimentale, spiccava l’immagine rossa e nera di Elegguá, anche se non era esperta di santería lo aveva visto così tante volte che lo riconobbe subito. Sentì una voce provenire dalla cucina.
“Entra, ti aspettavo”.
Un uomo alto, magro, nero di pelle, dall’aspetto trascurato e la barba lunga di almeno una settimana le si presentò davanti con la mano tesa in segno di saluto. I suoi grandi occhi infossati la scrutarono a lungo, anche lei guardò quel volto per niente rassicurante, notando una bocca sdentata e un corpo denutrito. Armando non indossava camicia, ma soltanto un paio di pantaloncini corti sfilacciati, tagliati senza nessuna accortezza. Calzava ciabatte di legno, sui gomiti e nei ginocchi aveva tracce di fango seccato. Doveva essere passato un po’ di tempo dall’ultima volta che aveva fatto il bagno e il cattivo odore che emanava lo confermava.
Barbara salutò.
“Mi chiamo Barbara e mi manda Azela” disse.
“Lo so e conosco anche il motivo della tua visita” .
“Sai già di mio figlio? Te l’ha detto Azela?”.
A questa domanda Armando non rispose, fece entrare Barbara, che era rimasta impietrita sulla porta di casa, facendole strada lungo il corridoio. Sul lato destro la donna notò vicino alle pareti immagini e statue che le sembrava di aver visto da qualche altra parte, ma non rammentava dove. La soccorse Armando, che parve intuire i suoi pensieri.
“Elegguá l’hai già visto all’ingresso, quello è il suo posto, perché apre le porte e indica il cammino. Questi che vedi alla parete sono i santi più importanti, che proteggono la mia casa. Il primo è Oyá, la signora del cimitero, accanto c’è Oggun, simbolo del dolore e della guerra, poi Yemayá, dea del mare, Oshun, divinità del fiume, Changó che controlla il fuoco e ha poteri straordinari e infine Babalú-Ayé, che tu conosci meglio come San Lazzaro”.
Barbara ascoltò esterrefatta, senza rispondere. Si trovava proprio nella casa di un santero, uno di quei personaggi che aveva sempre definito ciarlatani. Pensava che fossero persone da evitare e che si approfittassero della credulità popolare per mettersi in tasca qualche pesos senza faticare troppo. Adesso invece era lì che attendeva dalle labbra di un poveraccio la risposta al suo problema.
Raggiunsero un cortile terroso, dove erbacce e piccoli arbusti crescevano senza che nessuno se ne curasse, in fondo si notava una piccola casa di legno con la facciata coperta da piante rampicanti. Non c’erano finestre e appena entrati un odore penetrante la fece quasi vomitare. La casupola era composta da un’unica stanza con il pavimento di terra, tutto intorno c’erano candele spente, in un angolo una casseruola, nel lato opposto un altare e un’altra casseruola di metallo. Armando lesse sorpresa e curiosità negli occhi di Barbara, quindi cominciò a spiegare.
“Nella prima casseruola c’è soltanto polvere di ossa di animali. La seconda è la più importante. Si chiama prenda haitiana, contiene le ossa dei miei antenati. Sono loro che mi aiutano a divinare il futuro, a evocare i santi e gli spiriti” disse Armando.
Il santero cominciò ad accendere tutte le candele mentre cantava, erano suoni melodiosi che assomigliavano ai canti di chiesa, l’unica differenza era che Barbara non capiva una parola perché non erano in spagnolo. Armando la fece accomodare vicino alla prenda, sopra una cassapanca in legno, poi sedette anche lui, indossando un berretto di colore bianco.
“È per Obatalá” disse “il re dell’abito immacolato. Lui è il mio orisha e mi indica la strada migliore da seguire”.
Indicò una statua in un angolo della stanza, vicina a un altare con fiori bianchi e offerte di cocco, cotone, burro di cacao, farina di granturco e guscio d’uovo in polvere.
“È l’immagine di Nostra Signora della Misericordia” fece Barbara, che la conosceva bene per averla vista nella Parrocchia della Caridad di Alamar.
“Per me è Obatalá” disse il santero.
Armando si avvicinò a una gabbia dove teneva rinchiuse alcune colombe bianche, aprì il cancelletto e ne afferrò una con un gesto deciso. Barbara si sentì mancare quando vide quell’essere abominevole staccare di netto il collo dell’animale con un morso ben assestato. Armando fece defluire il sangue sui collari dei santi, che aveva disposto in ordine sulla prenda, e poi li indossò, bagnandosi il corpo con il sangue caldo della colomba. Accanto aveva delle conchiglie, le prese in mano stringendole forte e scuotendole, poi le lanciò in aria. Le conchiglie ricaddero andandosi a disporre sulla terra bagnata di sangue e vicino alla prenda. Armando cominciò a parlare.
“Vedo il tuo passato, Barbara. So che non è stato facile. Sei rimasta sola dopo che tuo marito è fuggito. Accanto a te vedo soltanto un ragazzo. Un ragazzo che adesso sta male. Tuo figlio”.
Barbara non sapeva cosa pensare. Ascoltava assorta e non capiva. Era stata Azela a raccontare tutto? Erano d’accordo per raggirarla? Continuava a diffidare, ma voleva vedere dove sarebbe andata a finire quella messa in scena, che per adesso aveva ottenuto soltanto lo scopo di spaventarla.
Armando lanciò di nuovo le conchiglie.
“Adesso vedo il tuo presente e comprendo il motivo della malattia di tuo figlio”.
A queste parole Barbara fu presa da un’evidente agitazione.
“Allora dimmelo, maledizione!” gridò.
“Ha fatto una cosa grave senza rendersene conto”.
“Che cosa? Devi essere più chiaro. Non capisco” intervenne di nuovo Barbara.
“Ha profanato una tomba al Cimitero Colón, insieme ad altri amici. Quel che è peggio l’ha fatto per gioco, mancando di rispetto al defunto. Non sapeva che quello era il sepolcro di una ragazza morta a soli diciannove anni, ai tempi di Batista. La ragazza si chiamava Ana e i genitori la videro morire giorno dopo giorno senza poter fare nulla. Un male sconosciuto se la portò via. Quel male era un ossessore”.
“Che cos’è un ossessore?” domandò Barbara.
“Un ossessore è lo spirito d’un morto che viene evocato da un palero al solo scopo di fare del male. Dev’essere un uomo deceduto in modo violento e viene mandato nel corpo d’una persona che si vuol distruggere”.
“Continua, ti prego”.
“Questa ragazza non aveva nessuna colpa. In realtà l’ossessore non era per lei. L’amante del padre aveva contattato un palero per fare un rito contro sua madre. Qualcosa non riuscì e l’ossessore si appropriò del corpo più debole. L’anima della ragazza venne catturata e condotta nella prenda del palero in compagnia dell’ossessore”.
“Cosa c’entra tutto questo con mio figlio?”.
“Tuo figlio ha aperto quella tomba. È stato il primo a entrare e ha profanato il sepolcro per scommessa. Voleva dimostrare a tutti che era il più coraggioso. Scoperchiando la tomba è come se avesse chiamato dalla casseruola lo spirito della ragazza e del suo ossessore”.
“Vuoi dire che mio figlio sta morendo perché adesso ha in corpo un ossessore?”.
“Proprio così”.
“E cosa possiamo fare?”.
Armando scosse la testa pensieroso.
“Solo una cosa, purtroppo. E non so se te la sentirai”.
“Sono disposta a tutto per salvare mio figlio”.
“Soltanto uno scambio di teste può salvarlo”.
“Non comprendo”.
“L’ossessore vuole una vittima da portare via con sé. Tu devi trovare un ragazzo giovane come tuo figlio che soffra di un male curabile. A me serve il nome e soprattutto il cognome del padre e quello della madre. Scambieremo la sua testa con quella di tuo figlio”.
Barbara era sconvolta e al tempo stesso incredula.
La ragione le diceva che erano tutte assurdità e che non doveva prestare fede a simili sciocchezze, ma dentro una voce insistente ripeteva: “Si tratta di tuo figlio, devi provare tutto per salvarlo”.
“Non c’è un’altra possibilità?” domandò.
“No. L’ossessore è stato risvegliato e adesso vuole un’anima. Non ha preferenze, ma vuole un’anima da portare via con sé”.
Armando fece cenno che il rito era terminato e che potevano andare. Barbara si alzò sconvolta. Aveva la testa in preda a un vortice di pensieri. Si fece accompagnare lungo il corridoio con le immagini dei santi e lasciò venti pesos per il consulto. Quando si salutarono Armando le disse:
“Adesso dipende tutto da te. Io sono pronto per il rito. Ma ricorda che devi portarmi quel nome e che dobbiamo far presto. Ogni giorno che passa può essere fatale”.
Lo sapeva che dipendeva soltanto da lei. Lo sapeva che la vita di suo figlio adesso era nelle sue mani. Ma sapeva anche che era difficile credere a quello che le aveva raccontato il santero e che la sua religione non gli avrebbe consentito di fare ciò che le veniva chiesto. Soprattutto sapeva che decidere sarebbe stato davvero molto difficile.
Quando Barbara lasciò la sua casa Armando mise di nuovo in ordine la stanza dove praticava i riti e le evocazioni per tornare alle occupazioni ordinarie. Doveva preparare qualcosa da mangiare e poi lo attendevano in fabbrica per il turno quotidiano. Aveva come tutti un mestiere, una vita normale, anche se non erano la sua vera aspirazione. Per campare Armando faceva il guardiano nella fabbrica di calzature di Guanabacoa. E non era il mestiere che più avrebbe gradito. C’era da stare con gli occhi aperti, soprattutto di notte, perché in quei tempi di ristrettezze economiche il pericolo di un furto era sempre in agguato. La paga era modesta: duecento pesos al mese. Rischiava molto per un misero guadagno. Finiva che Armando s’ingegnava, come tutti d’altra parte. Se gli capitava di portare via qualche paio di scarpe da rivendere al mercato nero lo faceva. Il lavoro per Armando era soltanto un modo per vivere, tanto più che lui si contentava di poco. Mangiava con moderazione, la sua dieta era composta da riso e fagioli neri, in alternativa cucinava povere minestre con erbe raccolte nei campi intorno casa. Non aveva vizi, a parte qualche bicchierino di rum e di tanto in tanto un sigaro. Ma quelli erano quasi sempre doni di chi veniva a chiedere un consulto o a fare un’evocazione.
Il santero viveva solo nella povera casa di Guanabacoa, nessuna delle donne della sua vita aveva resistito più di un paio d’anni accanto a lui. Era dura stare vicino a un santero. C’erano troppe regole da rispettare. Non poteva fare l’amore in certi giorni prefissati come la Settimana Santa e altre feste comandate. Se la donna aveva il ciclo mestruale non poteva neppure avvicinarla perché la sua religione non ammetteva la commistione del sangue. E poi anche il fatto che un uomo se ne stesse per giorni interi a pensare, assorto in contemplazione di chissà che cosa non era che piacesse molto a una donna. Le donne cubane sono abituate a mariti combattivi che si danno da fare per migliorare la loro situazione. Armando si contentava di poco, viveva soprattutto per la spiritualità e per restare in contatto con gli orishas. Le cose materiali non lo interessavano più di tanto e quella era un’aspirazione che una donna riusciva poco a comprendere. Per questo le sue relazioni con l’altro sesso duravano poco ed erano spesso burrascose. Armando alla fine aveva deciso di starsene da solo, se capitava di avere una donna per passare la notte non gli dispiaceva, ma una compagna fissa pensava che non fosse il caso di cercarla più.
La famiglia di Armando veniva da Holguin ed erano santeri da generazioni. Si passavano la prenda haitiana di padre in figlio. Vennero all’Avana quando Armando era appena un bambino, prima abitavano in un solar cadente dell’Avana Vecchia, poi dopo che la violenza di un tornado lo fece a pezzi si trasferirono a Guanabacoa e il padre, per evitare di essere assegnato a un albergo di Stato, costruì in mezzo a un campo una catapecchia con legno e cemento che poco a poco trasformò in una casa.
Un grave fatto di sangue aveva segnato la fanciullezza di Armando. Suo fratello Carlos, ossessionato dalla religione, era impazzito e un giorno aveva ucciso la mamma. Lo aveva fatto nel modo più macabro. Una mattina che era solo in casa con lei le aveva piantato un coltello da cucina nel petto, poi l’aveva squartata con un machete come se fosse stato un maiale. Infine le aveva tolto il cuore e se l’era mangiato. Il padre era a lavorare e Armando al circolo infantile. Era stato il padre a vedere per primo la terribile scena con il figlio sporco di sangue che stava terminando l’insano pasto e la moglie riversa sul letto in un lago di sangue. Carlos era finito in manicomio criminale e Armando era rimasto da solo con suo padre. Un padre intristito da quel che era accaduto e che aveva visto la sua famiglia distrutta da un lampo di follia. Tra l’altro lui se ne faceva una colpa perché pensava che l’ossessione religiosa del figlio maggiore fosse dovuta alla forte presenza della santería in quella casa. I medici gli avevano detto di no, che era una cosa innata e che la follia di quel ragazzo sarebbe esplosa comunque, in altra maniera. La santería non aveva colpa.
Il padre di Armando insegnò al figlio tutto quello che sapeva della santería. Lui era un potente palero, faceva anche magia nera con la prenda, anche se lui diceva di non averla mai usata per compiere il male.
“Il male ti si rivolta contro, ricordalo sempre” diceva al figlio.
“E se usi la prenda solo per egoismo lei si ribella” concludeva.
Suo padre non si era più sposato. Amava la moglie e la sua morte orribile lo scosse al punto che viveva soltanto per evocarne lo spirito e continuare a parlare con lei anche dall’aldilà. Armando lo ricordava ancora davanti ai suoi orishas cadere in trance e parlare nel buio della stanza. Sussurrava parole d’amore e salutava uno spirito che ormai poteva accompagnarlo soltanto nel ricordo.
Passavano gli anni e suo padre sentiva la morte vicina. Quando si accorse che presto per lui il momento sarebbe arrivato sapeva che aveva una consegna importante da lasciare al figlio.
“Quando morirò seppelliscimi al Cementerio Viejo” gli disse.
“Che dici papà… non pensare a queste cose”.
“Invece dobbiamo pensarci perché sono vecchio, tra poco morirò e ti lascerò solo. Tu devi sapere cosa fare. Dopo che mi avrai seppellito lascia passare tre anni, poi scava la mia fossa e porta via le ossa dalla tomba. Quelle ossa le devi ridurre in polvere e mettere nella prenda”.
Quella tradizione andava rispettata, altrimenti la prenda avrebbe perso ogni potere. E quella era una prenda che veniva davvero da Haiti, un vecchio antenato l’aveva portata a Cuba, la famiglia l’aveva conservata e mantenuta attiva per generazioni.
Armando fece tutto quello che gli aveva chiesto suo padre. Quando pochi anni dopo morì lo seppellì al Cementerio Viejo di Guanabacoa e lasciò passare tre anni. In quei tre anni pregò sulla prenda ed evocò il nome del padre che presto sarebbe entrato a far parte dell’ossario degli antenati. Alla fine dei tre anni si introdusse di notte nel cimitero, profanò la tomba del padre e ne trafugò le ossa. Era la stessa cosa che prima di lui aveva fatto suo padre. Un rito che doveva ripetersi perché continuasse una tradizione di santería nella sua casa.
Suo padre era stato un buon maestro. Armando riconosceva rami ed erbe magiche, sapeva fare decotti e infusi, evocazioni, messe spirituali. La sua casa era cosparsa di amuleti a protezione di malocchio e sciagure, da ogni angolo dell’appartamento spuntavano fuori piccoli rami a forma di croce o di bastone di Elegguá. Erano rametti di jo puedo mas que tu, di vencedor, di palo bueno. Tutte piante che servivano per propiziare i santi e per proteggere la casa da influssi negativi.
Armando rimase solo nella casa di Guanabacoa, della famiglia restava soltanto il fratello internato in manicomio criminale e qualche volta andava da lui per avere notizie sulla sua salute. Ma Carlos era completamente folle e faticava persino a riconoscerlo. Non sarebbe mai uscito da quel posto. I medici dicevano che era pericoloso e che non aveva margini di miglioramento. Armando cominciò a lavorare come guardiano della fabbrica di calzature e soprattutto iniziò a esercitare la santería al posto del padre. I primi tempi utilizzò la prenda soprattutto per procurarsi benefici personali. Gli sembrava strano dover fare una vita miserabile se aveva tutto quel potere e cercò di usarlo per migliorare le sue condizioni. La prenda gli si rivoltò contro punendolo con malattie e sofferenze. Armando si infermò a letto per giorni e giorni. Dolori di stomaco e fitte acute alla testa lo tormentavano, come se il sangue che gli scorreva in corpo si fosse dato appuntamento ai lati delle tempie e premesse per uscire. Lui non capiva perché. Una sera gli apparve in sogno il padre per ammonirlo, proprio come aveva fatto tanti anni prima.
“Devi usare la prenda per fare del bene”.
Fu una rivelazione. Armando cominciò a seguire le indicazioni del padre e subito si sentì meglio. Tutta Guanabacoa veniva da lui per avere un parere, un consulto, per parlare con un morto. E lui accontentava tutti e lo faceva a buon prezzo. Pochi pesos, una bottiglia di rum fatto in casa, qualche sigaro o un po’ di roba da mangiare se la gente non poteva pagare. Perché un’altra cosa importante che gli aveva detto suo padre era che non si doveva esercitare la santería per denaro.
“La santería è una missione, una fede che si trasmette di padre in figlio. Non un mestiere. Non è con la religione che dovrai campare, figlio mio. Il tuo destino è di essere povero se vuoi essere un vero santero”.
Armando donò tutto quello che aveva a chi era più povero di lui e si liberò del superfluo. Restò solo con la prenda e i suoi poteri. Non aveva bisogno di altro. Divenne il santero più famoso di Guanabacoa e cominciarono a venire a consultarlo da ogni quartiere dell’Avana. Si sparse la voce che fosse capace di guarire malattie incurabili e persino di sciogliere legami di sangue.
Per questo Azela aveva consigliato Barbara di andare da lui. Perché sapeva che Armando era un vero santero, non uno di quei ciarlatani che leggono le carte o le conchiglie e vedono sempre che tutto va per il verso giusto se la cifra che paghi è sufficiente. Armando vedeva il futuro nella prenda e leggeva la verità per buona o cattiva che fosse. E su quella lavorava. Per liberarti dal male. Azela soprattutto sapeva che lui era l’unico santero dell’Avana in grado di fare un pericoloso scambio di teste.
(3 – continua)